DANIELA LEUZZI

Luigi Pirandello: la dissoluzione dell'io

Uno, nessuno e centomila

Il titolo del romanzo pirandelliano è un’ efficacissima chiave di lettura della tematica trattata e può guidare nell’ interpretazione di un lavoro letterario così ricco di sottili passaggi logici. In apertura il protagonista, Vitangelo Moscarda, scopre di non essere per gli altri quell’ UNO che è per sé. La moglie Dida, svelandogli che il suo naso pende verso destra, ha squarciato tutte le sue certezze, avviando una riflessione sull’ intera esistenza. Nell’ autoanalisi emerge la diversità psicologica dagli altri, una malattia della volontà che rende il protagonista un "inetto", immerso nel proprio microcosmo materiato di introspezione. Egli vive: "con lo spirito pieno di mondi, o di sassolini": ecco visualizzato lo sbriciolamento del reale che da univoco (UNO) diventerà poliedrico (CENTOMILA) e sfocerà nel nulla (NESSUNO).

Vitangelo allo specchio, simbolo dell’io davanti a se stesso, scopre di vivere senza "vedersi vivere". Si getta all’inseguimento dell’ estraneo inscindibile da sé che l’alterità conosce in centomila identità differenti. Il protagonista si stacca dal proprio "fantoccio vivente", per se stesso è ormai nessuno: la distruzione dell’ io è consumata.

Se ognuno di noi è "Uno, nessuno e centomila" anche la realtà perde la serena e fittizia oggettività e si scompone all’ infinito nel vortice del relativismo. L’uomo è un’ artificiale costruzione ligia alle convenzioni sociali e contrapposta alla natura, priva di componenti artificiali.

Maschera creata dagli altri, fantoccio della moglie, è il "caro Gengè", amato teneramente da Dida fino a trasformare Vitangelo in un’ ombra vana.

L’io del protagonista, inesorabilmente frantumato, non può identificarsi nella persona (in senso etimologico di "maschera" sociale) del Signor Moscarda con quel cognome "brutto fino alla crudeltà" che ricorda un "fastidio ronzante" e lo lega al padre. Sì ,il padre "banchiere –usuraio" che lo ha ingabbiato nel ruolo di "buon figliuolo feroce": ecco un’altra marionetta nel "gioco della parti" della vita. L’aspirazione di Vitangelo è rimanere al di là dello specchio, essere un "uomo nella vita, Un uomo così e basta". E’ possibile? Il lettore, affascinato, si interroga sul modo di sottrarsi al divenire umano, alle opinioni dell’ alterità; in astratto, tuttavia, "non si è" ,la vita si snoda nel tempo e nello spazio. Vitangelo, alla ricerca di una via di fuga dai centomila estranei a sé che vivono negli altri, decide di uccidere le sue "marionette" ma, per aver voluto dimostrare di non essere ciò che si credeva, è ritenuto pazzo: la gente non vuole accettare che il mondo sia diverso da come lo immagina.

Non c’è via di fuga: Vitangelo assapora il piacere di "alienarsi" da sé ma scopre poi, suprema disillusione, che le marionette possono impazzire ma non si possono distruggere. Il protagonista sopraffatto dagli altri, non riesce a sostenere nemmeno lo sguardo della cagnetta, maltratterà anche la moglie; estrema ribellione di chi sente gli altri dentro di sé e manca a se stesso.

La decisione di vendere la banca del padre per uccidere l’usuraio Moscarda, fa sorgere un "punto vivo", una volontà che lo fa essere Uno. Questo atto, per tutti assurdo crea attorno a lui un vuoto in cui si inserisce Anna Rosa, donna dalla psiche molto simile alla sua: Frantuma la propria identità atteggiandosi davanti allo specchio, vorrebbe fermare la vita per conoscersi. Vitangelo invece va verso l’annientamento perché "nulla vale essere per sé qualcosa". La vicinanza simpatetica tra le due psicologie conduce al delirio del ferimento di Anna Rosa. Ci si avvia verso l’oblio totale del mondo, delle maschere, dei doveri della vita associata, incarnati dal giudice. Vitangelo, avvolto nella coperta verde di convalescente, "naufraga dolcemente" nella serenità della natura, senza passato né futuro.

Estraniarsi da sé e sentirsi "parte anonima della vita biologica" è l’unica via per fuggire alle centomila costruzioni che falsificano la realtà e la imprigionano in un nome, immutabile come un’ epigrafe funeraria.

La vita "non conclude" ed è un divenire palpitante: Meglio, dunque ,essere nessuno poiché l’essere uno si è rivelato un’ illusione di fronte allo svelarsi delle centomila maschere.

La frantumazione dell’ io appare completa : Si dissolve nella natura, nel ciclo palingenetico: ordine e progresso sono, per l’autore, soltanto presunzioni umana.

Specchio della dissoluzione dell’ io è lo scompaginamento dell’ ordine diegetico, la logica tradizionale del romanzo è provocatoriamente violata: Le riflessioni del protagonista offuscano la trama, rallentano il ritmo narrativo. Non i fatti ma la vita interiore del "Fu Vitangelo Moscarda" sono messi in rilievo.

I solipsismi sono intervallati da momenti in cui il protagonista interloquisce con il lettore, coinvolgendolo nel ragionare da "loico" che fa sorgere inquietanti domande: E’ impossibile considerare Vitangelo pazzo, come fanno gli altri personaggi del romanzo; si ha la netta sensazione relativista tratteggiata dal Montesquieu: "Si chiudono alcuni in una casa per dare a intendere che quelli fuori sono savi".

L’ apparente follia sembra un’ ansiosa ricerca di salute, di fuga dall’ angoscia esistenziale. Il figlio Stefano parlerà infatti di "rifugio dello spirito, un rifugio tormentosi".

Italo Svevo si interrogherà sul labile confine tra follia e salute, grande domanda novecentesca.

Tutto è instabile e inconcluso, il "Caos" che diede i natali al genio pirandelliano.