Di seguito viene presentato un brano che descrive lo spirito di sacrificio e lo stato d’animo di quelle suore della Provvidenza che uscirono da Udine per andare a prestare un servizio là dove c’era bisogno. E i bisogni erano sempre nei luoghi e nelle situazioni peggiori,

…ma il Signore, lo si ama meglio a fatti che a parole, e, attraverso questi bisogni, era arrivato il momento di sacrificarsi.

Le prime esperienze sono state fatte a Portogruaro e a Cormons, ma qui si è voluto riportare il brano che descrive la terza importante esperienza quella dell’ospedale di Primero.

 

Tratto dal libro: “Per i più poveri” di: Maria PapàsogliZalum – Giorgio Papàsogli (capitolo IX)

 

Primiero, Fiera di Primiero, oggi non vogliono dire un gran che: nomi che evocano stazioni turistiche celebri, frequen­tate da amatori numerosi: splendore di paesaggio montano ed aria tale da risuscitare un morto... A quel tempo, cioè verso il 1865, lo splendore della natura c'era tutto, ed era, anzi, intatto, cioè non ancora sfruttato da villeggianti e sciatori, ma le strade non c'erano, di alberghi non si par­lava, e la parte logistica si riduceva a un pugno di case in piena erta, raggiungibile a fatica.

In certi tratti, per arrivarci dal sud, da Fonzaso, una mulattiera si inerpicava, tra salite e discese e nuove salite, sull'orlo di burroni stupendi e da capogiro: erano vaste ondate di roccia e di prati che si addossavano le une alle altre in un deciso movimento di ascesa: dopo, la via si faceva più umana, e permetteva nientemeno che una car­rozza!

 

      Il   paese di Primiero aveva un po' più di mille anime, una chiesa, e perfino un ospedale... nella chiesa regnava, servendo, un parroco dalla figura originale: spirito fervente ed anche bello spirito, firmava le sue lettere: don Giuseppe Sartori, decano di Primiero, g.g.g., sigla che non era più un mistero per nessuno: significava: grande, grosso, grasso:

« Quando vedrete, - era solito a dire il buon sacerdote,- un prete grande grosso grasso, dite pure che è il decano di Primiero ». Con ciò, zelo vivo e buon umore costante.

E c'era anche un ospedale, e si capisce bene che ci dovesse essere: per chi, nonostante l'aria saluberrima, si ammalasse, dover essere trascinato a dorso di mulo per valli e poggi fino al primo luogo civile, avrebbe significato passare automaticamente da un trasferimento terapeutico a un trasporto mortuario.

 

Perciò: un ospedale, del quale era direttore don Giu­seppe Sartori: e il numero dei malati oscillava tra quattro e cinque.

Ahimè, non si creda che ciò fosse soltanto perché a Primiero nessuno si ammalasse! La ragione era un'altra. L'ospedale era tanto misero e tenuto tanto alla peggio che la gente aveva ribrezzo ad andarci. Come tutta assistenza, un pover'uomo il quale, solo e sprovvisto di qualsiasi mezzo di cura, faceva ciò che poteva, e poteva pochissimo. Quando, in una famiglia di Primiero, si ventilava l'idea di trasci­nar qualcuno in quelle stanzette, un brivido saettava nella schiena del malato e dei congiunti. Tra ospedale e cam­posanto - si diceva - c'è parentela stretta.

      Il   povero decano si macerava dal dispiacere, ma pro­prio, con le possibilità di cui disponeva, non riusciva ad escogitare rimedi. Ecco qualcuno gli parlò di certe suore fondate da don Luigi Scrosoppi, e questo qualcuno è nien­temeno che monsignor Teloni, il grande predicatore invitato a Primiero per una missione.

La descrizione delle suore fu tale che don Sartori non ci dormì dalla gran voglia di risolvere il suo insolubile problema. Il 18 ottobre scrisse alla superiora generale delle suore, madre Teresa Fabris, chiedendo aiuto, e la richiesta venne accolta. Madre Teresa a sua volta scrisse, il 25 otto­bre, al vescovo di Trento chiedendo assenso e benedi­zione, e il presule rispose prodigando uno e l'altra e avver­tendo che occorreva l'approvazione pontificia delle suore e il beneplacito da parte del governo austriaco.

Il primo documento c'era, per ottenere il secondo s'in­teressò un cugino di don Sartori residente ad Innsbruck, e tutto si svolse, da parte dei protagonisti della vicenda, a spron battuto: poi la pratica s'impigliò naturalmente fra le strette burocratiche, ma, anche qui, per breve tempo, Nel complesso, le cose andarono bene. Evidentemente, il soffio della Provvidenza spirava.

 

Il 3 febbraio 1866 quattro suore, guidate dalla vicaria generale, accompagnate dagli auguri delle consorelle e dalle benedizioni del fondatore, si mossero da Udine per arrivare a Fonzaso. « A Fonzaso - aveva scritto don Sartori -sarò io con treno asinario (...e che fuga in Egitto!) ».

Gli auguri, la benedizione erano stati commossi, e le partenti si sentivano un po' simili agli astronauti di oggi: ci volevano, allora, quasi tre giorni interi per trasferirsi da Udine a Primiero.

Il primo giorno in treno fino a Treviso, e lì pernot­tarono: il secondo giorno, in diligenza fino a Feltre, ove presero il « veloce » per Fonzaso: e giunte qui, pernottarono un'altra volta. Il terzo giorno, risveglio e inizio di avventura.

Ricercarono il « pedone », cioè la guida alpina che le avrebbe pilotate, a piedi, o a dorsi di asini o muli su e giù per le montagne.

Direttore di quest'ultima aerea parte del viaggio, sareb­be stato don Sartori provvisto di animali da basto.

Le suore camminarono finché poterono, e scambiandosi occhiate, senza far commenti: dove andavano? Il paesaggio si apriva e poi si richiudeva dinanzi a loro, stupendo, petri­gno ed anche prativo, impennandosi a un tratto: le buone suore guardarono in su, poi si guardarono tra loro...

Il « treno asinario », cioè i muli, seguivano l'esiguo corteo, e quando la comitiva si trovò a piè dell'erta, venne il momento delle grandi decisioni: si trattava di scegliere ciascuna il proprio animale.

Naturalmente, nessuna delle cinque suore aveva mai cavalcato: e quel debutto, lì, in piena salita a confine con un burrone che faceva male alla fantasia, non era incoraggiante.

Qualcuna volle continuare a piedi, altre si fecero coraggio: viaggiavano per il Signore, lo facevano proprio per lui solo, egli le avrebbe protette.

Così, un pensiero di amor divino ridestò in esse un gran coraggio e il buon umore scoppiò all'improvviso, da quelle anime candide. In fondo, tutto ciò che le circon­dava, si accordava col fondo vero della loro condizione di spirito: quei monti parevano di cristallo, come erano cristalline le loro intenzioni. Anche le privazioni grosse a cui andavano incontro - ormai avevano capito l'antifona, e come non capirla a veder certi paesini, lassù, tra rocce e nuvole? - anche le privazioni, diciamo erano proprio quelle che ci volevano. Il Signore, lo si ama meglio a fatti che a parole, ed era arrivato il momento di sacrificarsi. Perciò, coraggio e letizia, soprattutto letizia, e a guardarsi una l'altra, tutte amazzoni improvvisate in bilico sulla sella e sullo strapiombo, scoppiarono a ridere come fanciulle in gita di ricreazione. E su, su, a suon di risate fresche come l'aria che respiravano.

Il decano era incantato. Quell'annuncio di caratteri e di spiriti, quel primo sgomento seguito dall'accettazione generosa fino alla gaiezza, riempì anche a lui l'animo di speranza. Nonostante tutto il suo innato buon umore, don Sartori aveva vissuto giorni di trepidazione: « Che diranno - aveva pensato - queste suore avvezze alla città, veden­dosi tra i nostri monti ove manca tutto? », e si era raccomandato alla Provvidenza. Ora la Provvidenza rispondeva, perché le suore erano proprio quelle che ci volevano: e il buon parroco, il quale aveva l'occhio fino e molta espe­rienza, risalì col pensiero alla figura di quel fondatore, Luigi Scrosoppi, il quale era riuscito a plasmare e radunare anime come quelle, evidentemente aperte, anzi, spalancate al sacri­ficio. Lodò il Signore, e mandò, in cuor suo, un grazie grande grande a don Luigi.

Finalmente, dopo tante acrobazie, arrivarono al con­fine austriaco, e recuperarono una strada. Allora si senti­rono regine perché si trovarono installate in carrozzelle che le trascinarono attraverso dei paesi chiamati Imer e Mez­zano. Come per incanto, le popolazioni si riunirono sul loro passaggio, e spararono mortaretti mentre le campane suonavano a festa: i buoni montanari non avevano mai visto suore di carità, e le festeggiavano con un entusiasmo commovente.

Quando entrarono in Primiero, trovarono archi trion­fali di verde e scritte di augurio: un'accoglienza del genere non se l'aspettavano davvero.

La gente era schierata da due parti e, mentre il grup­petto attraversava il paese fino all'ospedale, i volti dei paesani sorridevano, e chi era rimasto in casa, usciva, salu­tava, faceva ‘evviva’. Le ospiti dovettero ben sorridere con gli occhi pieni di lacrime.

Finalmente, l'ospedale. Non c'era nulla. Parlare di pagliericci, coperte, lenzuola, sarebbe stato una utopia, per non dire una gaffe: e, invece, tutto si risolse in quat­tro e quattr'otto. La buona gente del luogo, forse incre­dula, fino allora, che le suore ci venissero, a vedere ora che c'erano davvero, si misero in quattro: per le prime sere si disputarono l'onore di ospitare le religiose, e intanto allestirono tutto l'occorrente. In men di otto giorni le nuove arrivate furono in grado d'installarsi nell'ospedaletto-tugu­rio, fornito almeno dello stretto necessario.

Trovarono quattro degenti e l'unico assistente. Gli ammalati si sentirono allargare l'animo a dismisura, a vedersi intorno cinque suore desiderose di curarli: c'era di che guarire per la contentezza. E il garbo, la dolcezza, la pazien­za!... Ebbe inizio, per quel rifugio, un'era nuova. Don Sartori espletò rapidamente le pratiche con l'amministra­zione, le spese necessarie per trasformare le povere stanze in un ospedaletto in piena regola, e, a poco a poco, gli aiuti finanziari affluirono. Ci vollero degli anni, ma il mira­colo si avverò: i sei o sette posti letto si trasformarono in sessanta, e tutti occupati.