Vita dei santi

Santa Francesca Saverio Cabrini

Tratto dal libro: RITRATTI DI SANTI di Antonio Sicari ed. Jaca Book

L'anno giubilare del 2000 non è solamente un tempo a cavallo fra il secondo e il terzo millennio, ma celebra anche il centocinquantesimo anniversario della nascita di Santa Francesca Saverio Cabrini avvenuta a Sant'Angelo in provincia di Lodi e il cinquantesimo anniversario della sua proclamazione a patrona di tutti gli emigranti del mondo (17 settembre 1950) da parte di papa Pio XII, che l'aveva canonizzata nel 1946.

In una biografia della Madre Cabrini, detta «la Santa degli Ita­liani in America», si leggono testualmente queste parole: «In quell’ 800 americano, madri e nonne, volendo intimorire il proprio frugolino troppo irrequieto, invece di nominare l’orco, gridavano: ‘Ecco un italiano!’ e subito il bimbo correva a cercare riparo nel loro grembo».

Sembra una annotazione di colore, ma sono tra le righe più tristi che siano state scritte sulle tragiche vicende dei nostri emigrati, tra la fine del secolo scorso e i primi decenni di questo secolo.

È l’epoca in cui i bar delle città americane espongono cartelli per avvertire che l’ingresso è vietato «a negri e italiani», dato che questi ultimi vengono considerati come «negri bianchi».

Tra il 1876 e il 1914 (alle soglie della prima guerra mondiale) emigrarono circa quattordici milioni di italiani, dicono le nostre sta­tistiche; «diciotto milioni!», ribattono i paesi che furono invasi dalle turbe dei nostri poveri. E l’intera popolazione italiana non superava allora i trenta milioni.

Nei testi di storia si parla delle grandi migrazioni dei popoli e dei tempi in cui intere popolazioni venivano ridotte in schiavitù, ma si sorvola sul fatto che in tutto simile fu allora la storia dei nostri emi­grati.

 


Italo Balbo ha scritto che tutti quei nostri connazionali - in­ghiottiti nelle miniere di carbone, nelle imprese di sterramento per le strade ferrate, nei pozzi di petrolio, nelle officine dell’industria si­derurgica, nei capannoni dell’industria tessile, nei cantieri per la co­struzione dei porti, nelle piantagioni di cotone e di tabacco - erano «l’Italia di nessuno», «un popolo anonimo di schiavi bianchi», «ma­teriale umano mercanteggiato a migliaia di capi».

Si calcola che nelle miniere il numero degli italiani superasse, a un certo punto, quello di tutti gli altri immigrati messi assieme. Giungevano a centinaia di migliaia all’anno, insidiati già alla parten­za e all’arrivo da loschi procacciatori che ne sfruttavano l’ignoranza e il bisogno, privi di ogni protezione, disponibili a tutto; e diventa­vano letteralmente il materiale umano su cui - come su detriti neces­sari, ma senza valore - si costruiva la potenza economica americana.

Vivevano in condizioni di incredibile degrado, affollati in alveari umani (fino a ottocento persone stipate in un piccolo edificio di cin­que piani), in condizioni di abbrutimento fisico e spesso anche mora­le. Col loro stesso genere di vita sembravano accreditare l’idea dell’i­taliano come di un semi-selvaggio, pronto alla rissa e alla violenza.

Vivevano senza scuole, senza ospedali, senza chiese, chiusi nelle loro «piccole italie», quartieri che proliferavano ai margini delle grandi città. E quasi sempre non erano nemmeno «piccole italie», perché i vari campanilismi le frazionavano e mettevano rissosamente i vari gruppi regionali gli uni contro gli altri. I ragazzi crescevano sul­le strade. Un destino di strilloni o Iustrascarpe attendeva i bambini (quando non diventavano procacciatori e guide di clienti ai vari bor­delli) e spesso un destino ancora più equivoco attendeva le ragazzi­ne. Quand’anche qualcuno li avesse voluti aiutare, l’impossibile co­municazione (quasi tutti erano analfabeti e si esprimevano solo in stretto dialetto) rendeva vano ogni tentativo di solidarietà.

Quelli che riuscivano a far fortuna (e molti cominciarono con ne­gozi di frutta e verdura o organizzandosi in cosche malavitose) si guardavano bene dal mescolarsi con i propri disprezzati connaziona­li, cercando piuttosto di far dimenticare la comune origine.

Un giorno del 1879 un deputato osò leggere al parlamento italia­no la lettera di un colono veneto: «Siamo qui come bestie: viviamo e moriamo senza preti, senza maestri, senza medici». I politici italiani chiudevano però gli occhi. Affrontavano il problema dell’emigrazio­ne dal punto di vista dell’ordine pubblico, con qualche provvedi­mento di polizia, ma senza nessuna intelligenza volta a immaginare forme di tutela economica e sociale.

Alcuni anni dopo - quando la Cabrini avrà fatto da sola, per amore di Cristo, quello che l’intero governo non aveva mai saputo fare - i politici, guardando indietro ai loro pseudo-provvedimenti le­gislativi, confesseranno: «Abbiamo sbagliato tutto».

Nemmeno la Chiesa cattolica d’America poteva fare qualcosa. Allora in tutta New York non vi erano più di venti preti che capisse­ro un po’ di italiano. E, ad aggravare le cose, i nostri emigrati trova­rono un costume, ad essi estraneo, che legava la frequenza alla chiesa con l’obbligo, già all’entrata, di contribuire economicamente al so­stegno delle attività parrocchiali. Erano già poveri e un simile costu­me sembrava loro ingiusto (chiamavano quell’elemosina: «la doga­na»). Per non dire poi che le sole organizzazioni italiane attive sul posto erano i circoli «Giordano Bruno», che avevano come unica preoccupazione quella di diffondere e mantenere un acceso anticleri­calismo.

Così finivano per non andare più in chiesa e per perdere anche gli ultimi brandelli di dignità spirituale e morale.


La casa di Francesca Saverio Cabrini a Lodi (Italia)

In Italia il problema era avvertito dal papa Leone XIII (che af­frontava il problema anche nella celebre enciclica Rerum novarum) e dal vescovo di Piacenza, Scalabrini, che aveva fondato una congre­gazione per la cura dei migranti.

Francesca Cabrini era una lodigiana che aveva desiderato fin da bambina la vita missionaria, sognando ad occhi aperti quando in ca­sa il papà leggeva ai figli, nelle lunghe sere, gli Annali della Propaga­zione della Fede. La piccola sognava allora la Cina misteriosa. Aveva perfino cominciato a non mangiare più dolci, quando s’era convinta che in Cina non ce ne fossero, e doveva dunque prepararsi.

Era divenuta, dopo numerose traversie, fondatrice di una picco­la congregazione religiosa con finalità missionarie, un progetto allora strano per un istituto femminile, e si sentiva pronta per dare inizio al suo antico sogno di fanciulla.

Incontrò il vescovo Scalabrini che cercò di farle cambiare idea descrivendole la condizione miseranda degli emigrati in America.

Confusa, Francesca decise di rimettere la decisione al papa Leo­ne XIII, che l’ascoltò a lungo, poi le disse con decisione: «Non in Oriente, Cabrini, ma in Occidente!». Fu per lei la parola stessa di Dio che le indicava la Sua volontà.

Aveva 39 anni, era malata ai polmoni e i medici le avevano pro­nosticato non più di due anni di vita.

Partì con sette compagne; sulla nave, su cui compì il primo viag­gio, c’erano in terza classe 900 emigranti.

Giunse a New York alla fine di marzo del 1889, sapendosi attesa dall’arcivescovo Corrigan e da una nobildonna americana (moglie di un conte italiano che era divenuto direttore del Metropolitan Mu­seum of Art); ma i due avevano intanto litigato, per divergenza di ve­dute e di programmi, e avevano scritto in Italia affinché la partenza delle suore venisse sospesa.

Risultato: nessuno attendeva le suore. Sbarcarono mentre piove­va a dirotto e giunsero, come Dio volle, fradice di pioggia e di stan­chezza, alla povera casa dei padri scalabriniani, i quali non sapevano proprio come ospitarle. Finirono in una sordida pensione vicino al quartiere cinese, dove i letti erano così luridi che non ebbero nem­meno il coraggio di coricarsi: restarono a rabbrividire sedute per ter­ra, con le spalle appoggiate al muro.

Quando, a giorno fatto, l’arcivescovo le ricevette, consigliò loro sbrigativamente di tornarsene là da dove erano venute. «Questo mai, Eccellenza - ribatté la Cabrini - Io sono qui per ordine della Santa Sede, e qui devo restare».

Alla fine, e con l’aiuto della contessa, la madre riuscì ad aprire un piccolo educandato per poche orfanelle, che chiamò: «Casa dei santi angeli».

Questo per la contessa. Per obbedire all’arcivescovo, invece, or­ganizzò una grande scuola per i bambini italiani. Era una scuola sui generis. I ragazzi giungevano a decine e decine; non c’era altro luogo per ospitarli che la povera chiesa degli scalabriniani e lì, tra una fun­zione e l’altra, in spazi ricavati nella cantoria, nella sacrestia, in an­goli di chiesa recintati con tende, si costituirono le classi. Le panche servivano da banchi, gli inginocchiatoi da cattedre.

L’insegnamento delle suore cominciava spesso col lavare e pettinare quelle schiere di ragazzini sudici e arruffati. Al pomeriggio c’e­ra la «dottrina», seguita dal gioco in un cortiletto affondato tra case alte e scure.

Nelle ore libere e fino a tardi, la Cabrini percorreva poi le viuzze fangose del quartiere italiano, alla ricerca di quei genitori che altri­menti non avrebbe mai conosciuto.

In un trafiletto del New York Sun, in data 30 giugno 1889, si leg­ge: «In queste ultime settimane, alcune donne, vestite come suore di carità, vanno percorrendo i quartieri italiani del Bend e della Little Italy, arrampicandosi per irte e strette scalinate, scendendo in spor­chi scantinati e in certi antri in cui nemmeno i poliziotti di New York osano entrare da soli».

Nonostante l’iniziale aiuto della contessa, il problema principale restava quello del denaro. Le suore si diedero allora a percorrere la città in lungo e in largo per cercare aiuti, rifiutando per principio ogni discriminazione.

In un ambiente dove regnava la divisione (tra gli stessi italiani separati per gruppi di famiglie e di campanili), dove i cattolici irlan­desi consideravano gli italiani come neopagani e dove i «nativi» si as­sociavano per organizzare «la protezione etnica», quelle suore si mossero con la dignità e la cordialità dell’amore.

Furono accolte oltre ogni speranza: bottegai d’ogni razza e reli­gione si affacciavano alla porta per chiamarle e riempirle di provvi­ste; uomini d’affari si decisero a staccare qualche assegno; i padroni dei mercati diedero ordini perché nessuno fermasse o maltrattasse quelle suorine coraggiose; perfino un falegname tedesco di religione ebraica cedette gratuitamente i mobili che servivano per arredare scuola e orfanotrofio; i nazionalisti irlandesi esigettero che i poliziot­ti fermassero il traffico, quando passavano le suore con le loro mas­serizie, perché «rappresentano il Papa»; e degli sconosciuti in tram mettevano loro in mano furtivamente qualche dollaro.

Intanto la «Casa dei santi angeli» s’era ingrandita e la frequenta­vano anche bambine negre, cinesi, mulatte.

Il 17 luglio 1889, per le vie di Little Italy sfilò una ordinata pro­cessione di trecentocinquanta bambini e bambine: queste con il velo e le coroncine; i ragazzi con il bracciale dell’associazione; a gruppi di trenta, con i loro bravi stendardi di san Luigi, sant’Agnese, sant’An­tonio.

Chi ancora ricorda certe processioni che un tempo si tenevano nelle nostre parrocchie, quando le associazioni erano fiorenti, può farsi un’idea della tenerezza di un simile quadro; ma mai potremo immaginare l’impressione di irlandesi e protestanti che vedevano sfi­lare in silenzio e decoro proprio quei ragazzi che erano abituati a considerare come ladruncoli sporchi e disordinati.

La prima battaglia era vinta, ma si era appena agli inizi.

Nello stesso mese Francesca tornò in Italia, per prendersi cura delle novizie della sua Congregazione. A Roma la raggiunse la noti­zia che i gesuiti d’America vendevano a buon prezzo una grande te­nuta in West Park, sulle sponde dell’Hudson, a 150 miglia da New York.

Tornò con altre sette suore e riuscì a mettere insieme i cinquemi­la dollari necessari per la caparra. Agli altri diecimila avrebbe pensa­to Dio. Fondò così la casa di formazione per l’Istituto, un collegio e perfino un ospizio per ragazze affette da tisi, la malattia che allora faceva strage tra i poveri.

La domanda nasce spontanea: ma come faceva a trovare il dena­ro? Si potrebbero dare mille risposte, fino a raccontare che se un be­nef attore si decideva a firmarle l’annuale assegno di trecento dollari, Francesca era capace di fermargli la mano sull’ultimo zero, con un sorriso, e poi - come era abituata a fare con i bambini - gli guidava la mano fino a tracciarne ancora uno. Non bisognava forse insegnare la carità come si insegna a leggere e scrivere?

Ma c’è un episodio che è giusto anticipare perché dà la misura del suo stile e della sua fede.

A New Orleans, nel 1892, la Madre incontra un ricchissimo av­venturiero siciliano che aveva fatto fortuna con navi, fabbriche di birra, compagnie d’assicurazione, imprese edilizie, ed era proprieta­rio inoltre di circa sedicimila ettari coltivati a cotone e a limoni.

Riassumiamo da una relazione del tempo, riportata nella biogra­fia di G. Dell’Ongaro.

 

 - «La sua visita mi onora, Madre Cabrini, di lei parla ormai tut­ta l’America. In cosa posso esserle utile?».

 - «In niente. Vorrei io essere utile a lei».

 - «Io non ho bisogno di nulla. Non chiedo nulla a nessuno, desi­dero solo che mi lascino fare in pace i miei affari...».

 - «Io invece non mi interesso di affari. Ma mi interessa la sua felicità. Mi hanno detto che lei è sposato, da molti anni. Non avete figli però. E triste».

 - «Purtroppo è così, mi piacciono i bambini, ma...».

 - «Peccato. Proprio peccato. Con tutte queste belle cose, nean­che un figlio a cui lasciarle... Si è mai chiesto, lei, il motivo di tanti doni piovutili dal cielo? Un motivo ci deve essere. Sono certa che il Signore ha formulato un bel progetto sul suo conto. Non sa quanta gioia possano dare i bambini!».

A questo punto l’uomo le rivela d’aver pensato qualche volta a una adozione, ma di averci sempre rinunciato per timore di trovarsi in contrasto con la moglie, e conclude:

 - «Mi lasci pensare, lasci che ne parli a mia moglie, e se Maria è d’accordo allora la chiamo e lei ci porta il bambino».

 - «Il bambino? chi ha parlato di un bambino solo? Perché uno solo?».

 - «E quanti me ne vorrebbe dare, Madre?».

 - «Cosa ne direbbe di sessantacinque, tanto per incominciare?».

 

L’uomo d’affari finì per finanziare un intero orfanotrofio. E quando, alcuni anni dopo, questo divenne troppo piccolo, le regalò ancora sessantacinquemila dollari, una cifra enorme per quei tempi.

Fondata la casa di West Park, la Cabrini tornò nuovamente in Italia, dove continuava a dirigere la sua Congregazione missionaria in rapido sviluppo. Vi restò alcuni mesi e ripartì ancora con altre ventotto suore, decisa ad accettare una nuova fondazione in Nicara­gua. Aprì così un collegio a Granada che, dopo quattro anni, venne spazzato via da una delle tante rivoluzioni centro-americane.

Da lì passò agli Stati Uniti meridionali dove l’attendeva l’impat­to più terribile. In Virginia, Carolina, Louisiana, emigravano nume­rosi italiani provenienti principalmente dalla Sicilia, che trovavano ad attenderli gente abituata agli odi razziali. La schiavitù era stata abolita ufficialmente solo da trent’anni e gli americani non si intene­rivano certo per quei «negri dalla pelle chiara» che erano per loro i nostri emigrati.

Ma i siciliani non erano passivi come i negri. Le cosche mafiose dei fratelli Matranga e dei fratelli Provenzano dominavano e si con-tendevano il «fronte del porto».

Nel 1890 il capo della polizia di New Orleans cadde in un aggua­to e diciannove italiani vennero incriminati. Non c’erano prove, ma alcuni cronisti, prima che il commissario spirasse all’ospedale, l’ave­vano udito mormorare: «m’hanno sparato i dagos» (termine dispre­giativo per «meridionale»).

Il processo tenne col fiato sospeso la nazione, ma i boss mafiosi, difesi dagli avvocati migliori, vennero tutti assolti nel marzo del 1891.

Ma se avevano abbastanza potere per difendere i loro picciotti dalla giustizia, i boss non ne avevano abbastanza per difenderli dal­l’odio popolare. Prima che fossero liberati, una folla inferocita di cir­ca diecimila persone, guidata dal vice-sindaco, aggredì le carceri e linciò i prigionieri: due vennero impiccati, due finiti a colpi di spran­ga, altri abbattuti coi fucili. I corpi vennero appesi agli alberi e ai lampioni.

Quasi metà dei giornali dell’Unione approvò il massacro e la ten­sione salì al punto che l’Italia ritirò il suo ambasciatore da Washing­ton. In seguito altri linciaggi si ebbero in altre due città della Loui­siana.

Nella città di New Orleans, lacerata da questi odi implacabili, Madre Cabrini giungeva il martedì santo del 1892. Comprese subito che bisognava partire dalle nuove generazioni, dare un altro volto e un’altra speranza a quelle torme di ragazzi che aspettavano di in­grossare le schiere della malavita, costringere la città a riconoscere la dignità di quella gente umiliata e temuta.

Le occorrevano almeno un orfanotrofio, una scuola e un convit­to. E almeno cinquantamila dollari, per cominciare.

Paradossalmente a New Orleans erano molti gli italiani che ave­vano fatto fortuna, divenuti capitani d’industria e padroni di azien­de; ma non ci tenevano affatto a farsi riconoscere come italiani. Cer­cavano, anzi, di far dimenticare in ogni modo le proprie origini.

        Francesca andò a scovarli uno per uno: il Rocchi, armatore mila­nese, i bresciani Marinoni, banchieri e proprietari di piantagioni di cotone, il napoletano Astrada, proprietario di famosi ristoranti, l’il­lustre clinico Formenti, la signora Bacigalupo, grossista di alimenta­ri, i Bevilacqua e Monteleone, negozianti di calzature di lusso, e quel ricchissimo capitano Pizzati, siciliano, di cui abbiamo già parlato.

Sono solo alcuni nomi che abbiamo voluto citare, tra molti altri, proprio perché risuonano ancora nelle nostre terre; quasi tutti com­-
    presero e apprezzarono l’intento della Cabrini: dimostrare, a quella città che apprezzava l’Italia (la sua musica, i suoi artisti), ma odiava
    gli italiani (ritenuti tutti mafiosi o potenziali delinquenti), che il vero problema era il disinteresse sociale in cui tutti quegli adolescenti ve­-
    nivano lasciati, senza nessuna cura e nessuna protezione.
       L’orfanotrofio di Saint Philip Street divenne un centro sociale, sia per i ragazzi che vi erano ospitati, sia per altre centinaia che lo utiliz­zavano come oratorio, sia perfino per decine di ragazzi di ogni altra razza e colore.
       La cappella dell’istituto divenne la chiesa degli italiani e, anche in questo caso, fu una superba e ordinata processione in onore del
    Sacro Cuore - di quelle all’antica, che anche gli abitanti di New Orleans amavano molto - a sancire una ritrovata dignità; una processione con molti canti religiosi, e con tanto di «Va’, pensiero» che commosse perfino i bianchi «padroni», anche se in città ormai impe­rava il jazz.
       Per la prima volta sfilavano insieme i circoli, le società, le federa­zioni e gli altri gruppuscoli in cui gli italiani erano da tempo divisi e lacerati.
       Nel 1905 scoppiò in città una epidemia di febbre gialla. Gli im­migrati di ogni razza e colore, nella loro ignoranza, rifiutavano medi­cine, trasgredivano ogni misura di igiene e di prevenzione, non volevano abbandonare case e luoghi infetti. Le suore di Francesca si assunsero il compito - girando casa per casa, rischiando la vita, e sacri­ficandola davvero in qualche caso - di convincerli di ciò che veniva disposto per il loro bene.
       Delle suore tutti si fidavano, e - quando l’epidemia fu vinta – a loro andò il pubblico ringraziamento non solo dell’intera città di New Orleans, ma perfino del governo degli Stati Uniti e di Roma.

Torniamo a New York.

Un settore della vita in cui la tragedia degli emigrati poteva esse­re quasi toccata con mano era il problema sanitario.

Poiché li consideravano come materiale umano, nessuno si preoccupava molto né di coloro che si ammalavano per le disumane condizioni di vita, né delle vittime di quella che venne chiamata «strage industriale» (centinaia e centinaia di feriti sul lavoro), né del fatto che non esistessero ospedali dove gli emigranti potessero essere accolti.

C’erano sì ospedali a pagamento, ma anche avendone la possibi­lità economica, nessuno voleva andarci. Quale ne era l’utilità per gli ammalati che non riuscivano nemmeno a farsi capire quando cerca­vano di spiegare i sintomi del male in quel gergo che mescolava assie­me - spesso per assonanza - il dialetto originale e lo slang dei bassi­fondi americani?

Ai ricoverati sembrava d’entrare prima del tempo in una prigio­ne o in obitorio - tutto era così freddo e asettico! - e spesso perdevano perfino la speranza senza la parola di conforto di una suora o di un prete.

Preferivano morire nelle loro casupole, senza cure né pulizia, ma con un po’ di tenerezza.

Certo, mettendo assieme le forze, gli italiani avrebbero potuto avere un ospedale per loro; lo stesso governo americano li avrebbe aiutati e anche il governo italiano era disposto a fare qualcosa.

I progetti non mancavano, e si può dire che l’argomento fosse di quelli che teneva più banco nei sogni e nelle discussioni di tutti, ma ogni tentativo era miseramente fallito: ci sarebbe voluto un ospedale per i siciliani, uno per i napoletani, uno per i calabresi, uno per i lom­bardi e via di questo passo. A ognuno importava solo dei suoi corre­gionali, quando non ci si fermava ai soli compaesani.

A dire il vero, si era riusciti ad aprire un «Ospedale Giuseppe Garibaldi» - nella speranza che l’Eroe dei due mondi mettesse tutti d’accordo - ma il Commissario generale per l’Emigrazione dovette riconoscere, sconfortato, che là dentro «i dottori italiani litigavano dodici mesi all’anno» e i soldi raccolti per mantenere l’ospedale in at­tività si volatilizzavano inspiegabilmente.

Francesca sentiva, con un certo fastidio, che gli occhi e le spe­ranze si volgevano verso di lei, ma non si sentiva tagliata per quel compito.

D’altronde ne aveva già abbastanza di pensare a scuole e orfano­trofi!

Poi accaddero due episodi che nella sua coscienza lei percepì co­me due voci - una dalla terra e una dal cielo - che le chiedevano am­bedue obbedienza alla volontà di Dio.

La voce terrena le giunse dal racconto di due suore che erano an­date a fare una visita all’ospedale cittadino e s’erano sentite chiama­re da un ragazzo che, gettato lì da alcuni mesi, s’era messo a piangere sentendole per caso parlare nella sua lingua. Da tre mesi aveva sotto il cuscino una lettera dall’Italia, ma era analfabeta e nessuno gliel’a­veva potuta leggere. Anche le suore, del resto, solo con molta fatica, riuscirono a leggere la lettera che annunciava al ragazzo che la mam­ma, al paese, era morta all’improvviso.

E per tre mesi lui aveva posato il capo su quella notizia che non riusciva a farsi voce.

Francesca pianse a lungo. Poi la notte sognò - e fu la voce prove­niente dal cielo - una corsia d’ospedale in cui una dolce e bellissima signora si aggirava tra i letti, con incredibile tenerezza, e accarezza­va i malati e rimboccava le coperte. Capì subito, nel sogno (o nella visione, chissà!), che era la Vergine Santa e si precipitò ad aiutarla. Non toccava a lei, la Regina del cielo, fare l’inserviente dei malati! Ma la Madonna - sempre nel sogno - l’aveva guardata con un po’ di tristezza in fondo agli occhi e le aveva detto: «Faccio io quello che non vuoi fare tu!».

La mattina dopo Francesca aveva già deciso di destinare a quel compito dieci delle sue suore.

In un primo tempo cercò di rilevare e far funzionare un ospizio cui avevano già messo mano gli Scalabriniani, ma che navigava in cattive acque.

Quando s’accorse che con quella gestione ci avrebbe rimesso molto denaro, fece un colpo di mano. Affittò due case, comprò alcu­ni letti, mise le suore all’opera per confezionare dei materassi, e poi trasferì di nascosto i malati (ognuno con le sue posate nascoste sotto le coperte) e qualche flacone di medicinali nella nuova sede. Le suore avrebbero dormito su materassi posti a terra, avvolte nei cappotti.

Cominciò così - nel 1892, centenario della scoperta dell’Ameri­ca - il Columbus Hospital, con due medici americani che prestavano gratuitamente la loro opera, affascinati com’erano dal coraggio di quella donna. Il mantenimento fu sempre più garantito da mille rivo­li di carità che Francesca sapeva fare emergere e scorrere senza inter­ruzione, fin quando non vennero anche le sovvenzioni statali.

In pochi anni le cabriniane furono conosciute dovunque come «le suore di Colombo». Nel 1896 si potevano contare seicentoquin­dici ricoveri gratuiti; nei primi trent’anni di vita l’ospedale si prese cura di circa centocinquantamila ammalati.

«Ma questo è Italia!», esclamò allibito il Commissario del Gover­no italiano per l’Emigrazione, vedendo il clima meridionale che re­gnava in quella casa di cura: poi attese che gli presentassero la Ma­dre, con tutto il sussiego di una persona importante, venuta per «rendersi conto della situazione e riferire a chi di dovere».

Restò impressionato dagli occhi penetranti, indagatori, di lei e da una specie di energia indomabile che emanava da quella figura ap­parentemente fragile. Ma ancor più lo fu quando si sentì dire con una franchezza che non ammetteva replica: «Voi discutete troppo! Non è necessario discutere molto sulla necessità di proteggere gli emigrati: questa protezione bisogna farla! Io non discuto; trovo che un bene dev’essere fatto? Mi metto subito all’opera col mio piccolo istituto e non dispero mai di trovare i mezzi, perché ho fiducia che in un modo o nell’altro li troverò sempre».

Qualche anno dopo lo stesso Commissario, divenuto ormai un amico e un entusiastico ammiratore, le dirà: «Madre Cabrini, fa più lei per gli emigrati italiani che tutto il Ministero degli Esteri messo assieme».

Nel 1903 costruì un altro ospedale a Chicago, adattando un al­bergo di lusso acquistato per centoventimila dollari, quando era in grado di versarne solo un acconto di diecimila, raccolti tra gli italiani dell’intera città.

Lasciò in mano la ristrutturazione ad alcune sue suore che furo­no ingannate da impresari senza scrupoli, che le coinvolsero in lavori inutili e malfatti e provocarono debiti paurosi.


Basilica Cabriniana

Francesca tornò dopo dieci mesi, quando ormai tutto sembrava perduto. Ma lei non si perse d’animo, licenziò imprenditori, archi­tetti, muratori, e si mise a rifare tutto ingaggiando, ai suoi diretti co­mandi, nuove schiere di muratori, falegnami, idraulici. Si scontrò con le cosche mafiose dell’Illinois: ricevette minacce e avvertimenti. Era d’inverno quando le tagliarono i tubi dell’acqua, sì che il pian­terreno si coprì di un tale strato di ghiaccio che ci vollero i picconi per romperlo; le incendiarono gli scantinati, poi minacciarono di far saltare tutto con la dinamite. Quando nessuno ancora se lo aspetta­va, perché i lavori non erano conclusi, ci trasferì dentro gli infermi:

«Vediamo - disse - se faranno saltare in aria i malati!». La lasciaro­no stare. Ebbe partita vinta e prima di ripartire poté perfino dettare un regolamento per il servizio interno di medici e infermieri.

Sembrava indistruttibile al punto che le avevano dato l’affettuo­so nomignolo di «Suor moto perpetuo».

Un giorno che viaggiava in ferrovia, nel Colorado infestato di banditi, il treno venne attaccato. Un proiettile penetrò nello scom­partimento di Francesca e sembrava dirigersi dritto verso di lei, ma deviò senza colpirla: «Non vi colpirebbero neanche se vi sparassero in faccia», le disse ammirato un ferroviere. Ed era proprio l’impres­sione che dava ogni volta che affrontava una difficoltà o un pericolo.

Dobbiamo rinunciare a raccontare tante storie che colpiscono l’immaginazione solo ad accennarle.

Ecco soltanto alcuni nomi e date principali.

1896: fonda un collegio a Buenos Aires, dove arriva dopo aver attraversato le Ande salendo a dorso di mulo fino ai quattromila me­tri; 1898: apre tre nuove scuole a New York, un collegio a Parigi e uno a Madrid; 1900: altre fondazioni a Buenos Aires e un collegio a Rosario de Santa Fè; una scuola a Londra e una casa a Denver nel Colorado; 1903: oltre al Columbus Hospital di Chicago, dà inizio a un orfanotrofio a Seattle; 1905: apre un orfanotrofio a Los Angeles; 1907: fonda un collegio a Rio de Janeiro; 1909: apre un altro ospeda­le a Chicago; 1911: apre una scuola a Philadelphia; 1914: un orfanotrofio a Dobs Feny in New York; 1915: un sanatorio a Seattle. Per non nominare le fondazioni italiane, come l’Istituto Superiore di Magistero a Roma, e un collegio a Genova e a Torino, tra un viaggio e l’altro.

Il tutto, in numeri: trentasette anni di attività con la fondazione di sessantasette istituti; percorrendo quarantatremila miglia per ma­re (scherzando sulle sue origini contadine, Francesca chiamava l’A­tlantico: «la strada dell’orto») e sedicimila per terra.

Ma i numeri nulla dicono ancora dell’ampiezza dell’apostolato delle cabriniane. Basta ricordare che Francesca ne condusse alcune fin dentro le miniere di Denver, a novecento piedi di profondità, preparandole con accorata dolcezza: «Non sarà difficile parlare ai minatori del Paradiso, dato che all’inferno ci sono già!».

E da allora destinerà sempre alcune delle sue figlie al servizio di coloro che erano «senz’aria e senza famiglia».

Come ne condusse altre fino a Sing Sing, dove non pochi con­dannati italiani - incapaci di difendersi, come i malati di spiegare le loro malattie - si maceravano nell’odio e nella disperazione.

Le suore si preoccuparono soprattutto di mantenere i legami, al­trimenti impossibili, tra i prigionieri e le loro famiglie.

E i carcerati piansero quando seppero che Francesca si era dispe­ratamente battuta per ottenere il rinvio dell’esecuzione capitale di un ragazzo, figlio unico, che non voleva morire senza avere rivisto la mamma e senza averle chiesto perdono d’averla abbandonata sola al paese; Francesca l’aveva fatta venire dall’Italia, pagando le spese del lungo viaggio, conducendo con infinita tenerezza quella povera don­na avvolta nel suo scialle nero di contadina.

Ci è mancato intanto il tempo di raccontare di che tempra fosse­ro quelle intrepide suorine che la Madre conduceva con sé, a gruppi sempre più folti, ogni volta che tornava da un viaggio in Italia.

Ci basti, per intuirlo, un solo episodio: sul molo, in attesa di im­barcarsi per l’America, una suora spiega piamente ai parenti accorsi a salutarla: «Faccio volentieri questo grave sacrificio di partire per l’America!». Francesca è li accanto e l’interrompe di botto: «Iddio non vuole importi sacrifici così gravi, figliola, resta!». E la sostituì immediatamente con un’altra.

Durezza? No: realismo. Lo stesso realismo che non riteneva nul­la impossibile, le diceva che nulla si poteva intraprendere senza una dedizione piena di gioia e senza essere completamente distaccati da sé, anche dai propri vezzi spirituali.

 

Perciò aveva un sistema pedagogico molto sicuro: «Quando visi­to qualche nostra casa e vedo delle facce lunghe, e noto una certa aria di abbattimento, di svogliatezza e di malumore, non chiedo al­l’una o all’altra: ‘Che hai o che non hai?’, metto in piedi qualche opera nuova che obblighi le suore a uscire da se stesse».

 

Dio solo sa cosa accadrebbe, e come si rinnoverebbero certi isti­tuti, se i rispettivi superiori e superiore trovassero il coraggio di adottare un simile criterio pedagogico!

Ci resta un’ultima cosa da dire. A volte certi «laici» amano ripe­tere con scherno che «non si governa con i padrenostri», e nemmeno con la «dottrina sociale» della Chiesa.

E tuttavia ci sono pagine di storia in cui la fede e la preghiera si dimostrano capaci di una operosità così concreta e multiforme, di una genialità sociale così sollecita (Sollicitudo rei socialis) e anticipa­trice da renderci certi che è proprio la mancanza di preghiera - e più a monte la mancanza di una vera fede - che lascia gli uomini nel più tragico egoismo, proprio quando vogliono governare i loro simili e inventare ricette di progresso sociale.

Un egoismo soprattutto «intellettuale», di una mente cioè inevi­tabilmente costretta a baloccarsi con se stessa e con i propri pregiu­dizi, e con il proprio piccolo «partito», per quanta estensione si im­magini di dargli. E, per necessaria conseguenza, anche una inevitabi­le ristrettezza mentale nel comprendere i problemi e nell’affrontare i bisogni, la ristrettezza di una mente priva dell’infinito respiro della preghiera e della fede.


Sant'Angelo Lodigiano:
Statua di Enrico Manfrini sul monumento dedicato a Santa Francesca Saverio Cabrini

«E troppo piccolo il mondo - diceva Francesca Cabrini - vorrei abbracciarlo tutto!». E non temeva - riesumando certi ricordi di scuola - di confessare: «Non mi darò pace finché sull’Istituto non tramonti mai il sole!».

E tuttavia - con la stessa identica verità - usava dire, come tanti altri Santi prima di lei: «Dio è tutto e io sono nulla».

La differenza - che veniva dai suoi «padrenostri» - era tutta qui: che lei immaginava di portare il suo Istituto in ogni angolo del mon­do, fino a che il sole non potesse mai tramontare su di esso, senza mai pensare né a se stessa né ai suoi progetti, ma solo desiderando di fare il possibile perché non ci fosse spazio alcuno dove non splendes­se quel Cristo che le struggeva il cuore.

«Gesù - usava ella dire con espressione bellissima - è per noi una beata necessità».

E credeva tutto possibile, perché ripeteva con san Paolo: «Io posso tutto in Colui che mi dà forza!».

Ai cristiani di allora e di oggi ella ricorda: «Senza industriarsi, non si combina mai nulla. Che cosa non fanno i business-men nel mondo degli affari! E perché noi non facciamo almeno altrettanto per gli interessi del nostro amato Gesù?».

Quando, stremata di lavoro e di gioia, morì nel 1917, a Chicago, nell’Ospedale da lei stessa fondato, i nostri emigrati dissero con af­fetto e infinita riconoscenza che «l’italiano Colombo aveva scoperto l’America, ma solo lei, Francesca, aveva scoperto gli italiani in Ame­rica».

Ha scritto giustamente Divo Barsotti: «La vita di Francesca Ca­brini sembra una leggenda. Una storia della Chiesa che ignori questa fragile donna è gravemente manchevole; una storia d’Italia che non voglia parlarne è settaria».