Vita dei santi

San Vincenzo de’ Paoli

Tratto dal libro: RITRATTI DI SANTI di Antonio Sicari ed. Jaca Book

Se si volesse scegliere un’epoca e un luogo in cui la più grande miseria si è incontrata col più grande splendore — dal punto di vista cristiano   forse si dovrebbe indicare la prima metà del secolo deci­mosettimo in Francia. E un tempo in cui la nazione viene devastata dalla guerra dei trent’anni, una feroce guerra civile, e poi subito do­po dalle ribellioni contadine e urbane organizzate in un pauroso mo­vimento chiamato «La fronda», un lontano anticipo della Rivoluzio­ne francese.

L’aspetto che qui più ci interessa non è evidentemente quello po­litico, ma quello umano delle tristissime e misere condizioni in cui si trovarono allora le folle innumerevoli dei derelitti.

Possiamo descrivere la situazione servendoci di una lettera che proprio san Vincenzo de’ Paoli scrisse al Papa Innocenzo x per chie­dergli di intervenire a placare quelle laceranti discordie:

«Oserò esporle lo stato miserabile e certamente degnissimo di pie­tà della nostra Francia? La casa reale divisa da dissensi; il popolo scis­so in opposti partiti; le città e le province rovinate dalle guerre civili; le borgate, i villaggi e i castelli abbattuti, rovinati e bruciati; i contadi­ni messi nell’impossibilità di raccogliere quello che hanno seminato e di seminare negli anni futuri. I soldati si permettono impunemente tutte le angherie. Il popolo è esposto non solamente alle rapine e al brigantaggio, ma anche agli assassinii e a ogni sorta di torture da parte dei soldati: i contadini sono torturati o messi a morte; le vergini sono

da essi disonorate; le religiose stesse esposte alloro libertinaggio e al loro furore; le chiese profanate, saccheggiate, distrutte; quelle rimaste in piedi sono per lo più abbandonate dai loro pastori, e quindi il popo­lo è quasi privo dei sacramenti... E poco udire o leggere queste cose, bisogna vederle e constatarle con i propri occhi».

 

La Chiesa non sembrava in grado di opporre la sua forza umana e spirituale a tanto sfacelo.

I decreti di riforma del Concilio di Trento erano rimasti quasi lettera morta: molte sedi episcopali restavano ancora in mano a fami­glie nobiliari che se le tramandavano come eredità e senza alcuna preoccupazione d’ordine spirituale.

D’altra parte la designazione dei candidati all’episcopato spetta­va al consiglio reale che se ne serviva spesso come riserva di favori e di contrattazioni.

Quando Vincenzo de’ Paoli sarà chiamato a intervenire autore­volmente proprio in questo settore dirà con amarezza e forza: «Te­mo che questo dannato traffico di vescovi attiri la maledizione di Dio su questo regno!».

La situazione del clero era ancora più preoccupante: dove non c’era immoralità, c’era una invincibile pigrizia e una ignoranza al li­mite del credibile: certi preti non sapevano nemmeno leggere e scri­vere, altri non sapevano come celebrare i sacramenti.

Lo stesso Vincenzo de’ Paoli raccontava d’aver conosciuto un prete che, dopo aver ascoltato la confessione, biascicava qualcosa perché non sapeva la formula dell’assoluzione e un altro che per ogni circostanza recitava l’Ave Maria, l’unica preghiera che conoscesse.

Conventi e monasteri erano spesso appesantiti da abituali inos­servanze, da tradizioni corrotte e comportamenti riprovevoli.

Molte cose si spiegano sapendo che allora i nobili — per usare la colorita espressione di uno storico   «affidavano alla Chiesa i figli e le figlie in soprannumero che occorreva in qualche modo collocare decorosamente». (Siamo nello stesso tempo descritto dal Manzoni).

D’altra parte, a molti giovani di bassa condizione sociale la Chie­sa appariva come l’unico varco possibile per uscire in qualche modo dalla miseria e dal triste anonimato.

Così molti, quasi ragazzi, assolutamente privi della benché mini­ma vocazione, si facevano consacrare preti da vescovi compiacenti.

Lo stesso Vincenzo de’ Paoli divenne prete probabilmente a di­ciotto anni, ordinato irregolarmente da un vescovo vecchissimo e quasi cieco.

Eppure guardiamo ora l’altra faccia della medaglia: il secolo XVII francese è dominato in apertura dall’affascinante personalità di san Francesco di Sales che con il suo «umanesimo devoto», con la sua azione pastorale e con i suoi splendidi libri, ha iniziato il rinnova­mento della vita cattolica.

Dopo di lui dominerà la figura di colui che sarà chiamato: «il dot­tore di tanti dotti e il maestro di tanti santi», il celebre Cardinale Pietro de Bérulle, che reggerà le fila di una vasta opera di riforma spirituale e culturale.

I fermenti e gli apporti sono innumerevoli: potremmo contare quasi 27 santi che percorrono la Francia e iniziano, nei più diversi settori, l’opera di risanamento.

La scuola spirituale carmelitana e quella gesuita penetrano nei ceti più colti e in quelli umili, tanto che gli studiosi parlano di «gran­de invasione mistica».

H. Brémond, che ha scritto un’opera ritenuta fondamentale, La storia del sentimento religioso nella Francia del secolo XVII, ha riempito undici grossi volumi, lamentandosi d’essere stato incompleto.

Inoltre   pur da altri punti di vista   non dobbiamo dimenticare che è anche il secolo di Corneille, Molière, Cartesio, Pascal, Bos­suet.

Tra tutte le personalità comunque il primato spetta a colui che seppe tradurre quella «mistica grande invasione» in una operosità multiforme, ai limiti dell’incredibile, tanto che tutto quello che negli ultimi tre secoli la Chiesa ha saputo costruire di socialmente rilevan­te trova in Vincenzo de’ Paoli il precursore e il maestro.

Nei giorni del suo instancabile lavoro lo chiamarono con rispetto e affetto: il Signor Vincenzo, Monsieur Vincent. A tutt’oggi gli sono state dedicate circa 1500 biografie.

Il piccolo Vincenzo   che si trovava dotato di una intelligenza veramente geniale   crebbe con la voglia di uscire dal mondo di mi-

seria che gli era toccato in sorte: un villaggetto di cinquanta case d’argilla, sperduto tra le paludi, una famiglia di contadini nella quale il suo compito   fin dai sei anni   era quello di guardare i porci.

La fortuna venne con un signorotto locale, di passaggio per le sue terre, che osservò la particolare intelligenza di quel fanciullo e convinse il padre a farlo studiare presso un prete in un collegio della città più vicina.

Vincenzo se ne andò dunque intestardito a dimenticare le sue origini e a farsi strada. Un giorno che il papà si presentò al collegio dove studiava il figlio, per una rara visita, il ragazzo si rifiutò sde­gnosamente di scendere in parlatorio perché si vergognava che i compagni lo vedessero trattare con un poveraccio.

Divenuto ormai vecchio e santo, non riuscirà a dimenticarsene e piangendo racconterà lui stesso più volte l’episodio: «Io non volli an­dare a parlargli e commisi perciò un grande peccato». Allora sarà di­venuto il prete più stimato e ricercato di Francia, ma a chiunque egli si premurerà di rivelare: «Non sono che un povero contadino e sono stato guardiano di porci. Mia madre faceva la serva».

Prima però di incontrare con amore e fierezza la povertà di Cri­sto e la sua stessa povertà, Vincenzo si lascerà irretire   come lui stesso dirà poi — in una «tela di ragno» fatta di ambizioni e di furbi­zie, pur di costruirsi una promettente carriera.

Dopo quella discutibile ordinazione sacerdotale di cui abbiamo parlato, c’è nella sua vita un periodo oscuro con strane avventure. Lo ritroviamo infine, chissà come, al seguito del Legato pontificio che lo conduce con sé a Roma, il centro della cristianità, di cui egli percepisce soprattutto l’importanza strategica.

A Roma infatti conosce l’ambasciatore di Francia e con lui torna a Parigi, dopo qualche anno, in buona confidenza, tanto da ottenere le credenziali per avere una udienza dal re Enrico iv. Così riuscì fi­nalmente a farsi assegnare un piccolo beneficio ecclesiastico.

Non era granché. Ma intanto gli era riuscito anche di entrare nella cerchia dei cappellani della regina Magherita di Valois.

Proprio qui il Signore lo attese. I cappellani ricevevano a volte delle elargizioni o delle dotazioni a scopo di carità: ed ecco che un giorno qualcuno depositò nelle mani di Vincenzo la somma per lui favolosa di 15 mila lire-oro, corrispondente a parecchi milioni di oggi.

Che cosa accadde nel suo cuore di povero che sognava di maneg­giare denaro e che pure manteneva una sua irriducibile inclinazione alla solidarietà tra i poveri? Non lo sappiamo. Sappiamo però che il giorno dopo il Signor Vincenzo si presentava al vicino Ospedale dei Fatebenefratelli e lasciava, ai malati e agli invalidi, l’intera somma.

Non fu certo l’unico «sì» che Vincenzo disse al suo Dio, ma fu il sì più espressivo: quello con cui Vincenzo accoglieva una vocazione che gli era riservata da tutta l’eternità.

Comprese di dover anzitutto diventare veramente un prete: si mise sotto la direzione spirituale di de Bérulle e costui lo spinse a im­pegnarsi generosamente nel ministero sacerdotale, facendogli asse­gnare una parrocchia alla periferia di Parigi. E per la prima volta, do­nandosi ai suoi poveri parrocchiani, Vincenzo conobbe cosa fosse la felicità.

«Sono felice — scriveva — perché ho attorno a me un popolo tanto buono, tanto obbediente a quello che gli dico... Neppure il Papa è felice quanto me!».

Ma i disegni di Dio erano misteriosi. Fu proprio il de Bérulle a esigere che Vincenzo abbandonasse la sua parrocchia per diventare precettore nella nobile famiglia dei Gondi.

Era una delle famiglie più illustri e potenti, discendenti da anti­chi banchieri italiani venuti in Francia al seguito dei Medici: Filippo Emanuele de Gondi comandava la flotta del regno in qualità di gene­rale delle galere, suo fratello era arcivescovo di Parigi, la moglie era una delle più illustri dame del Regno, e donna di alta levatura spiri­tuale.

Nel comodo castello di Montmirail, Vincenzo, che ha ormai 32 anni, che dovrebbe curare soltanto la formazione dei tre figli, diven­ta piuttosto il ricercato consigliere spirituale di tutta la famiglia. Per compensare un suo segreto disagio, egli si dedica però anche a inse­gnare il catechismo ai poveri contadini delle vaste tenute dei suoi si­gnori.

E un giorno, vinto dal bisogno dei poveri, segretamente fuggì dal castello per farsi parroco d’una misera e abbandonata comunità a Chatillon les Dombes.

Non riuscì a restarvi a lungo, ma è qui che accadde un altro degli episodi che segnarono in maniera decisiva la sua strada.

Un giorno egli sta per iniziare la Messa domenicale, ed ecco ven­gono a dirgli che, in un casolare sperduto, un’intera famiglia se ne muore nella più assoluta indigenza: si sono ammalati tutti gravemen­te e nessuno riesce a dare aiuto all’altro.

Vincenzo sale sul pulpito e racconta: e affida al cuore dei suoi cristiani quella famiglia abbandonata. Ma ecco quello che accadde, raccontato con un certo umorismo da Vincenzo stesso, che aveva po­tuto muoversi personalmente solo al pomeriggio: «Dopo Vespro, presi con me un brav’uomo, un borghese defla città, e ci mettemmo in cammino per andare a trovare quei poveretti. Lungo la strada, in­contrammo delle donne che ci avevano preceduti e un po’ più avanti altre che tornavano indietro. E siccome era estate e faceva caldo, quelle buone donne si sedevano lungo la strada per riposarsi e rinfre­scarsi: ce n’erano tante che avreste detto che era una processione».

C’era da commuoversi, ma Vincenzo si irritò anche un po’: la ca­rità era grande, ma non era organizzata. A tutta quella abbondan­za — di cibo e di aiuti — sarebbero succeduti ben presto giorni di tra­scuratezza e di privazioni.

Così egli decise di riunire tutte le sue «signore» in associazione. Diede loro una regola che, secondo gli storici, era «un piccolo capola­voro di organizzazione e di tenerezza», nella quale era previsto tut­to: come accostare la famiglia bisognosa, come e con quale ordine ga­rantire un servizio a rotazione, come procurarsi gli aiuti necessari e tenerne la contabilità, come servire gli ammalati per amore di Gesù, come dar loro da mangiare, come utilizzare intelligentemente il tem­po disponibile...

Chiamò questa prima associazione laicale (in anticipo di secoli su certe realizzazioni di oggi!) con un nome cristianamente bruciante:

«Carità». Quel nome, che nella dottrina cristiana serve a indicare Dio stesso e la virtù teologale dell’amore che Egli infonde nei nostri cuori, servì a Vincenzo (secondo una tradizione che risale al medioe­vo) come nome comune, «familiare», per chiamare le sue associazio­ni. E in breve la Francia si trovò significativamente disseminata di gruppi chiamati semplicemente «le carità».

Ma intanto i de Gondi premevano per riavere il loro precettore. Intervenne l’arcivescovo di Parigi, intervenne nuovamente il de Bé­rulle, intervennero altre personalità del regno, e Vincenzo dovette cedere: voleva stare coi poveri e doveva abitare coi ricchi. E para­dossalmente proprio da qui passava la sua missione.

Nella casa dei ricchi, egli imparò a diventare responsabile dei po­veri. Gli avvenne intanto di poter incontrare Francesco di Sales e, dalla amicizia con questo santo, portò con sé per tutta la vita l’imma­gine e il desiderio di una santità piena di pace, di cortesia, di ener­gia, di forza indistruttibile ma dolce.

Aveva ormai più di quarant’anni e un’unica decisione in cuore: fare la volontà di Dio e non essere impaziente davanti al progressivo manifestarsi di questa volontà: «le opere di Dio non si fanno quando lo desideriamo noi — diceva — ma quando piace a Lui. Non bisogna saltare avanti alla provvidenza». E ancora: «Bisogna donarsi a Lui in modo che Egli si possa servire di noi». Più tardi, quando avrà ormai molti figli e collaboratori, Vincenzo insisterà: «Quando sarete vuoti di voi stessi, allora Dio vi riempirà». Così infatti gli accadde. Egli si lasciò riempire dalla grazia di Dio e Dio trasse da lui energie e opere in numero incalcolabile. Non aveva programmato nulla.

Un tempo aveva voluto arrivare in alto per potersi «accomodare» nella vita, e Dio lo mise in alto, in un castello, perché da lì egli potes­se preparare un posto ai poveri.

Divenne abile a utilizzare tutto — amicizie con nobili e regnanti, leggi dello stato e libere elargizioni, acquisto e riadattamento di im­mobili — per obbedire alla vocazione che Dio gli aveva assegnato.

Ecco come lo descrisse uno storico:

«Sottomesso alle circostanze, adattandosi agli ambienti nei quali lavora, cavando sempre il maggior profitto dagli uomini e dalle circo­stanze; è esatto, prudente, previdente; sa che non si è mai così bene aiutati da Dio come quando ci si aiuta da sé. Cura con lo stesso ordi­ne rigoroso tutti gli interessi, grandi e piccoli che siano. S’impone e impone regole che non lasciano nessuno alla sprovvista. Si vieta e vieta agli altri i rischi inutili, le imprese mal preparate, in cui troppo

spesso accade che falliscano le generose imprese religiose. Come un vero capo ha, ad un tempo, il senso delle grandi sintesi d’insieme e dei particolari che bisogna controllare».

Anzitutto — la prima grande opera — sono quegli amici, meglio quei figli e figlie, che Dio gli dona perché partecipino al suo carisma, perché «si muovano» nella terra di Francia e poi in tutto il mondo per rivitalizzare la Chiesa.

La Francia può allora dirsi scristianizzata, attaccata contempora­neamente da tre nemici: il protestantesimo serpeggiante (le «guerre di religione» non sono ancora concluse!), l’ignoranza religiosa larga­mente stagnante, e — tra i fedeli più fervorosi — il nascente gianseni­smo (rigorismo teologico e morale) ancor più grave perché va a intac­care le forze vive della Chiesa, gettandole in un moralismo tragico.

I «figli» di Vincenzo de’ Paoli furono da lui chiamati «preti della missione». Comincia lui stesso, con tre amici, a immaginare un nuo­vo stile di azione pastorale: in maniera organica, a rotazione, percor­rono i villaggi che sono privi di assistenza religiosa (anche se a volte vi abitano numerosi preti infingardi), si fermano 15 giorni, e vi pre­dicano «le missioni» (secondo uno stile che è rimasto fino ai nostri giorni).

«Io — diceva Vincenzo — facevo dappertutto una sola predica che voltavo e giravo in mille modi: la predica del timore di Dio..., e Dio intanto faceva quello che aveva previsto da tutta l’eternità: benedi­ceva il nostro lavoro».

Avvenivano conversioni commoventi, a volte in massa; la gente disabituata alla Parola di Dio ne riascoltava l’eco con una nostalgia umile e intensa: per la prima volta aveva l’impressione di rivedere gli apostoli in quei preti poveri, decisi e appassionati, e li riconosceva... Le missioni erano attese; si giungeva perfino a sospendere i mercati. «Le anime — racconta Vincenzo — che sembravano dure come pietra, diventavano di fuoco».

Vincenzo sorvegliava la sua nascente congregazione: non ammet­teva che predicassero secondo lo stile allora in vigore (siamo nel ‘600!): «pavoneggiarsi in un bel discorso — diceva — significa com­mettere sacrilegio, sacrilegio!». Il re fu così impressionato dell’opera di questi nuovi preti che volle far predicare una «missione» anche al­la sua corte, e poi nei quartieri più malfamati di Parigi.

Alla morte di Vincenzo saranno state predicate 840 missioni e il santo avrà a disposizione 25 case, 131 preti, 44 chierici e 52 coadiu­tori.

Ma questo non bastava, si trattava anche di scuotere gli altri pre­ti e di formarli; e così Vincenzo — in un tempo in cui non si era anco­ra riusciti a creare dei seminari — iniziò dapprima l’opera degli Eser­cizi per Qrdinandi che i suoi preti predicavano nelle varie diocesi, compensando spesso, con alcuni giorni di intensa formazione asceti­ca e teologica, la mancata preparazione di coloro che dovevano esse­re ordinati sacerdoti. Per dare a questi inizi una certa continuità, Vincenzo stesso si impegnò nelle Conferenze del Martedì che egli per­sonalmente tenne per tutta la vita, tutte le settimane, quasi senza in­terruzione; conferenze nelle quali raccoglieva i preti che lo desidera­vano. E da questa libera scuola verranno tutti i migliori preti di Francia (tra cui anche il Bossuet che disse poi: «Sembrava che Dio si esprimesse per bocca sua!»).

Si giunse infine (per la prima volta da quando quasi un secolo prima il Concilio di Trento li aveva raccomandati) alla fondazione del Grande e del Piccolo Seminario.

Le figlie di san Vincenzo invece furono all’inizio delle signore della nobiltà o della borghesia e si chiamavano «Dame della Carità». Vincenzo ne aggregò attorno a sé un numero notevolissimo: da esse riceveva tutti gli aiuti economici di cui aveva bisogno, e ad esse chie­deva tutta quella «carità» anche operativa di cui esse erano capaci, ben sapendo tuttavia che la società del tempo non permetteva loro l’esercizio di tutto quel lavoro manuale di cui i poveri avevano vera urgenza. Nè Vincenzo sdegnava il fatto che nascesse anche qua e là una certa «moda della carità». Ciò non toglie che tra le sue Dame che imboccavano i poveri negli ospedali ci fossero duchesse e principesse e perfino la regina Anna d’Austria e la principessa Maria di Gonza­ga, futura regina di Polonia.

In quel periodo Molière attaccava le «preziose ridicole» che ozia­vano nei salotti, piene di riccioli e di cosmetici, ma se egli avesse giu­dicato il suo tempo senza prevenzioni avrebbe potuto conoscere an­che centinaia di nobildonne che curavano con le loro mani i poveri pidocchiosi del quartiere: e con quella carità fresca e bruciante che indica sempre uno sgorgare vivo della fede, anche nei momenti più superficiali della storia.

I problemi comunque non mancavano e la soluzione dipese da uno di quegli incontri che segnano la storia.

Verso la fine del 1624 una giovane vedova di trentatré anni, di famiglia nobile, si presentava a Vincenzo per chiedergli la sua dire­zione spirituale: veniva controvoglia. Era stata tra le penitenti di san Francesco di Sales fino alla morte di lui, ma non aveva trovato la pa­ce. Era una creatura tormentata, piena di angosce e di dubbi, con al­le spalle un’esistenza problematica. Neppure il santo vescovo di Gi­nevra era riuscito a pacificarla, e ora Francesco di Sales era morto, e le veniva indicato quel «povero pretino tozzo, un contadino con de­gli occhi penetranti, vestito troppo poveramente». Madamigella de Marillac — vedova Legras — aveva provato un senso di ripugnanza, ma aveva obbedito.

Neppure Vincenzo voleva saperne di guidare spiritualmente una nobildonna piena di problemi psicologici, ma non seppe rifiutare.

La annoverò tra le sue dame di carità e la osservò attentamente, senza parere. Ed ecco che scoprì qualcosa di strano: quella donna piena di rigidezze e di angosce spirituali, e dal sistema nervoso scos­so, quando è a contatto coi poveri diventa dolce, tenera come una madre, serena. Allora Vincenzo puntò su questo tutta la sua attività di direzione spirituale e le insegnò a «dilatare il cuore prendendo su di sé il fardello degli altri».

Madamigella de Marillac divenne così la sua più stretta collabo­ratrice nel servizio dei poveri e a lei Vincenzo si rivolse per attuare la più sorprendente invenzione: oggi la Chiesa la venera come santa Luisa de Marillac.

Fino a quel tempo, nella Chiesa, una donna che voleva consa­crarsi a Dio aveva una sola strada aperta davanti a sé: la vita mona­stica di religiose consacrate, con la sua clausura, le sue grate, l’abito religioso, i chiostri, le lunghe preghiere.

L’attività apostolica era allora considerata inadatta alle donne, perché avrebbe esposto le religiose a un eccessivo, pericoloso contat­to col mondo. Prima di ridere di questo bisogna saper leggere la sto­ria col realismo che essa esige. Basta pensare che perfino il celebre san Francesco di Sales aveva tentato di immaginare un nuovo stile di vita religiosa femminile fondando l’istituto delle «Visitandine»: co­me dice il nome, le ragazze che lo sceglievano avrebbero dovuto imi­tare la Vergine Santa che «visita» caritatevolmente la cugina santa Elisabetta.

Ma le difficoltà erano state tanto grandi e insormontabili che le «visitandine» erano diventate anch’esse suore di clausura (e lo sono anche oggi!). Con un certo umorismo, ma non senza tristezza san Francesco di Sales diceva: «Non so perché tutti mi chiamino fonda­tore, dato che ho disfatto quello che volevo fondare!». Era la società del tempo che non accettava alternative.

Eppure Vincenzo riuscì in ciò che nessuno era riuscito a realizza­re: assieme a Luisa de Marillac radunò alcune ragazze del popolo che intendevano consacrarsi al Signore, pur restando nel mondo, a com­pleto servizio dei poveri e dei derelitti: nacquero così «le figlie della carità» che vennero chiamate popolarmente le «suore grigie».

Sono celebri — per il cambiamento epocale che esse significano —  le parole con cui Vincenzo delineò la loro nuova e allora inaudita struttura giuridica: «Esse avranno per monastero le case degli amma­lati e quella dove risiede la superiora. Per cella, una camera d’affitto. Per cappella, la chiesa parrocchiale. Per chiostro, le strade della cit­tà. Per clausura, l’obbedienza. Per grata, il timor di Dio. Per velo, la santa modestia. Per professione, la confidenza costante nella divina Provvidenza e l’offerta di tutto il loro essere».

Anche san Vincenzo e santa Luisa dovranno poi parzialmente istituzionalizzare le loro «suore», ma essi han posto l’inizio non solo di tutte le congregazioni moderne di vita attiva, apostolica, ma an­che di tutti i moderni Istituti secolari e delle «associazioni laicali» di vergini, che oggi nascono all’interno dei «movimenti».

Che cosa questo volesse dire in concreto nella complessa e vio­lenta società del tempo lo potremo capire solo vedendole al lavoro.

Anticipiamo soltanto un giudizio assai significativo: si racconta che un giorno Napoleone si trovò ad ascoltare un gruppo di filosofi che ragionavano su come l’Illuminismo avesse prodotto un vero at­teggiamento filantropico. L’imperatore si mostrava sempre più infa­stidito finché a un certo punto sbottò: «Tutto questo è bello e buo­no, ma fatemi una suora grigia!».

Vincenzo e Luisa facevano appunto, a centinaia e centinaia, «le suore grigie» e le mandavano là dove l’intera nazione e poi il mondo più producevano sofferenza e orrore.

Cominciarono con l’Hòtel-Dieu, l’enorme cupo ospedale posto come una piaga nel cuore della città: 20 sale capaci ognuna di 50 po­sti, ma in qualche stanza si ammucchiavano in realtà fino a 250 per­sone. Ci sono descrizioni grottesche di sei malati per giaciglio, tre da un verso e tre dall’altro, in una mescolanza di vivi rissosi e moribon­di rantolanti.

Questo nei momenti migliori, che diventavano un inferno quan­do si diffondeva il contagio o giungeva la peste, come accadde nel 1636.

Le religiose incaricate della gestione dell’ospedale erano appunto (ecco il paradosso di cui parlavamo!) di clausura e dovevano dirigere a «distanza». Si era tentato di mobilitare tutte le comunità religiose maschili di Parigi senza molto successo.

Vincenzo dapprima vi inviò centinaia di Dame della carità (fino a 620, compresa la regina) per un servizio organizzato ma tempora­neo, a turni, poi aggregò stabilmente all’ospedale le sue «figlie della carità» che cominciarono a gestirlo totalmente dal di dentro.

Come se non bastasse, diede contemporaneamente inizio all’O­pera dei bambini trovatelli: ogni anno sono centinaia nella sola Parigi i bambini che vengono abbandonati per miseria o per colpa sulle por­te delle chiese o alla Couche, una istituzione ufficiale che, priva di grandi mezzi, gestisce l’emergenza in modo abominevole. Le assi­stenti usano dare ai piccoli pillole di laudano o un po’ d’alcol per far­li dormire. A parte quelli che comunque muoiono o vengono lasciati morire, ci sono molti che vengono venduti.

Scrive Vincenzo: «Li vendevano per Otto soldi ai mendicanti che rompevano loro le braccia e le gambe per eccitare la gente alla pietà e li lasciavano poi morire di fame».

Se nel 1638 le suore grigie possono raccogliere 12 bambini, essi saranno 820 nel 1647. E l’opera sarà così gravosa che si rischia più volte di dovervi rinunciare.

Non dobbiamo immaginare le cose in modo romantico. E una marea di piccoli «tanto sudici e tanto strilloni, nati da cattive ma­dri», come dice Luisa de Marillac, nonostante tutta la sua passione materna. Siamo in un tempo in cui accostarsi ai «figli della colpa», come venivano chiamati, è già considerato indecoroso e sconvenien­te. E non si tratta solo di accoglierli in fasce, ma di farli crescere fino a quando diventano autonomi. Ma ecco, splendente come l’oro, l’e­ducazione di Vincenzo che iniziava dicendo alle suore che destinava a questo incarico: «Somiglierete alla Madonna, perché sarete madri e vergini al tempo stesso. Vedete, figlie mie — spiegava — quel che ha fatto Dio per voi e per loro? Sin dalla eternità ha stabilito questo tempo per ispirare ad alcune signore il desiderio di prendersi cura di questi piccini che Egli considera suoi: sin dall’eternità ha scelto voi, figlie mie, per servirli. Che onore è questo per voi! Se le persone del mondo si tengono onorate a servire i figli dei grandi, quanto più do­vete sentirvi onorate di servire i figli di Dio!».

E raccontava loro la gustosa scenetta a cui aveva assistito quel mattino: la carrozza del figlio del re (che allora aveva cinque anni) s’era incontrata con quella del Cancelliere del Regno. La governante aveva detto al principino di dare la mano al Cancelliere, ma costui era arrossito e aveva esclamato, facendo una grande riverenza, di non essere degno di toccare la mano del piccolo re, aggiungendo:

«Non sono mica Dio!».

E concludeva: «Vedete, figlie mie! Ha detto così perché si tratta­va del figlio del re, re egli pure. E se il signor Cancelliere che è uno dei primi ufficiali del regno non osa toccargli la mano, quale senti­mento dovete avere voi quando servite questi piccini che sono figli di Dio!».

Ancor oggi i genitori cristiani possono capire quanto avrebbero da imparare da questo modo di ragionare nei riguardi dei loro figli! Vincenzo questo modo lo usava tranquillamente anche per dei picco­li «bastardi».

E questo in un tempo in cui — a detta di uno storico — «la crudel­tà verso i neonati, esposti o no, causò più vittime di tutte le guerre combattute in quel secolo». Non possiamo scandalizzarci troppo, se pensiamo che oggi, nonostante tutti i mezzi che abbiamo, facciamo ben di peggio: facendoli morire a milioni con l’aborto.

Dopo i trovatefli ci furono i carcerati e i galeotti. Non le nostre carceri di oggi, ma antri pericolosi e maleodoranti, dove i prigionieri marcivano vivi, attendendosi ogni giorno la sorte più crudele, quan­do sarebbero stati in numero sufficiente per formare una «catena»:

una fila cioè di prigionieri incatenati l’uno all’altro, diretti al porto di Marsiglia dove sarebbero diventati «galeotti»: inchiodati con una catena ai banchi di legno fissati lungo i corridoi della nave — cinque uomini per ogni remo di cinquanta metri — «ridotti (come dice uno storico) a bielle viventi, per far correre la nave al ritmo cadenzato di una frusta a nodi di ferro».

Vincenzo diventa dunque cappellano capo di tutte le galere del Regno e vi invia le sue «figlie della carità» per le quali fa costruire piccole case accanto alle prigioni.

Ed ecco come spiega loro questa nuova «opera» e come «ra­giona»:

«Avendo noi preso le ‘carità’ delle parrocchie, Dio ci ha ricom­pensato con l’Hòtel-Dieu (l’ospedale); allora, contento di noi, per ri­compensarci ci ha affidato l’opera dei trovatelli; poi, avendo visto che noi abbiamo accettato tutto con tanta carità, ha detto: ‘voglio dar loro un altro incarico!’. Sì, sorelle mie, è stato Dio a darcelo sen­za che noi ci pensassimo, neanche Madamigella de Marillac, né tanto meno io. Ma qual è questo incarico? È l’assistenza dei poveri forzati! Oh, sorelle mie, che felicità servire quei poveri forzati abbandonati in mani senza pietà! Io ho visto quei poveretti trattati come bestie, per questo Dio ne ha avuto compassione!».

 

Il motivo per cui Dio continua a scegliere loro — secondo Vincen­zo — è questo: chi dice «figlie della carità» dice «figlie di Dio», e Dio vuole che i più poveri siano serviti proprio dalle sue figlie.

Anche per descrivere questa impresa non ci deve mancare l’im­maginazione: Vincenzo esige dalle sue «figlie» che tra servizi mate­riali e spirituali non ci siano compartimenti stagni: ripulire le carceri, lavare la biancheria dei forzati, preparare loro la zuppa quotidiana, confortarli, curare i malati, fasciare le piaghe, accompagnarli nella via crucis verso le navi e lì, al porto, ricominciare da capo in una assi­stenza, la più completa possibile.

Il tutto senza falsi pudori e senza atteggiamenti schifiltosi: si tratta di entrare in ambienti innominabili, subire linguaggi grossola­ni e inviti sconci (da parte di guardie e forzati), patire angherie e ca­lunnie, e di sapersi preservare con intelligenza e prudenza (e Vincen­zo dà regole molto precise!).

In una parola — egli dice — : «essere come i raggi del sole che si posano continuamente sopra l’immondizia, e nonostante questo non si sporcano».

A tale cura dei galeotti si aggiungerà poi quella dei soldati, du­rante le periodiche guerre. Le figlie della carità sono mandate sui campi di battaglia «a riparare in qualche modo quello che gli uomini han voluto distruggere, a conservare la vita là dove gli uomini vo­gliono sopprimerla».

Nelle terre e nei villaggi devastati Vincenzo stabilisce centri di soccorso, di raccolta e smistamento di generi alimentari e di sussi­stenza, con un giro d’affari che divenne di gran lunga maggiore di quello gestito dai ministri della Corona. Ma ciò ancora non bastava. Alla periferia di Parigi si raccoglievano stuoli di vecchi malvissuti, di asociali, di storpi, di colpiti da mal caduco, di alienati: insomma, tut­ti coloro che in quel tempo venivano definiti, con sentenza somma­ria, «pazzi».

Scriveva Vincenzo senza illusioni: «Sono tutte persone folli e alienate, spiriti estremamente malfatti che vivono l’uno contro l’al­tro. Sono liti continue».

Senza vacillare egli ripete ancora la sua predica e il suo solito ra­gionamento, credendoci totalmente: «Ah, sorelle mie, ve lo dico an­cora una volta, non c’è stata mai una compagnia che debba lodare Dio più della nostra! Ce n’è forse qualcuna che si occupa dei poveri pazzi? No, non ce n e nessuna. Ed ecco che questa fortuna tocca a voi! Oh, figlie mie, quanto dovete essere grate a Dio!».

 

Una sola volta Vincenzo rifiutò con durezza la sua opera: fu quando il Grand Bureau des Pauvres (il Grande Ufficio dei Poveri) tentò di risolvere l’immane problema dei mendicanti che infestava­no la città e vi insediavano le «corti dei miracoli», veri centri di de­linquenza organizzata. Il Grand Bureau varò il progetto della «Gran­de Reclusione», secondo cui tutti i mendicanti o coloro che non tro­vavano fisso lavoro dovevano essere rinchiusi in grandi «ospedali ge­nerali».

Si sarebbero avute così due «città»: da un lato quella degli uomi­ni rispettabili, dall’altro quella degli uomini-belve.

I primi sarebbero stati difesi nel loro egoismo invece di essere pungolati nel dovere della carità. I secondi sarebbero stati abbando­nati in preda alla loro stessa violenza.

Vincenzo si oppose. Non aveva soluzioni globali da offrire, ma tentò anzitutto di indicare profeticamente nuove strade possibili.

Tra la massa dei poveri, molti anziani erano ex artigiani ridotti alla mendicità dalla disoccupazione e dalle disgrazie. Scelse quelli che più gli apparivano di «buona reputazione» e «non fannulloni» (venti uomini e venti donne) e aggregò ad essi degli operai che li aiu­tassero a riprendere il mestiere e a ritrovare il gusto del lavoro, un la­voro compatibile alla loro età, dal quale potessero comunque trarre un guadagno. Vi stabilì perfino dei «consigli di amministrazione».

Nacquero così delle case che erano veri «centri di riabilitazione al lavoro», dove Vincenzo amava spesso passare qualche ora di ripo­so discutendo con i suoi vecchietti ritornati efficienti operai.

Non era certo possibile generalizzare la «ricetta», ma era per la società d’allora un punto di giudizio, di chiarezza sociale e ideale.

Con lo stesso criterio soccorse quelli che più sarebbero stati dan­neggiati dalla ospedalizzazione forzata: quelle persone anziane che, benché mendicanti, mantenevano legami familiari e che sarebbero stati separati a forza, smistati per legge in differenti reparti (maschili e femminili).

Vincenzo organizzò per loro l’opera delle «piccole case» in cui mendicanti, marito e moglie, avessero il diritto di vivere assieme.

Anche questa iniziativa non risolveva il grande problema, ma da­va indicazioni, dava speranza, mostrava l’intelligenza della carità.

Per tutti gli altri Vincenzo si batté in ogni modo per tenere aper­to il varco tra le due società: un varco che molti attraversarono spinti dalla sua carità, per soccorrere i miseri.

Non si trattava solo di volontariato: Monsieur Vincent divenne di fatto quasi un ministro del regno che interloquiva con re e regine, con Richelieu e Mazarino, con i responsabili delle province e delle città, e che organizzava dovunque associazioni di uomini e donne destinati a ogni tipo di interventi e urgenze.

Così Vincenzo meritò d’essere chiamato — ancora vivente — «il padre della Patria».

Quando il re Luigi xiii, detto il Re Giusto, fu sul letto di morte nel 1643, lo fece chiamare e gli disse: «Ah, Monsieur Vincent, se ri­torno in salute, voglio che tutti i vescovi stiano tre anni in casa vo­stra». Vincenzo lo aiutò a morire come un santo.

Alla morte del re, la regina Anna d’Austria lo scelse come Consi­gliere e così Vincenzo divenne un potente personaggio pubblico, una specie di Ministro per l’assistenza sociale, ed egli si servì di ciò senza pudori per rafforzare tutte le sue opere: moltiplicare le missioni, fon­dare seminari, dotare ospedali e opere caritatlve.

Ma difese anche la Verità cattolica: nominato membro e segreta­rio del cosiddetto Consiglio di coscienza (una specie di ministero per gli affari ecclesiastici del Regno di Francia, dove per nove anni si trovò faccia a faccia col cardinale Mazarino), influenzò come poté la nomina dei vescovi, mirando al buon andamento delle diocesi, e con­dusse una lotta senza quartiere contro l’eresia allora dilagante: il giansenismo.

Dicono gli storici che la condanna di questa deviazione da parte di Papa Innocenzo x fu opera di Vincenzo.

E un particolare interessante: l’uomo che era tutto immerso nel­le questioni della carità considerava ancor più decisive le questioni dell’ortodossia.

«Fin da quando ero piccolo — scrisse — ho sempre avuto un segre­to timore nell’anima mia e niente mi ha tanto spaventato come po­termi trovare per disgrazia impigliato in qualche eresia che mi trasci­nasse via e mi facesse fare naufragio nella fede».

Questa era la grandezza di quei tempi pieni di miseria e di turba­mento: che la fede restava l’orizzonte entro cui tutti, ricchi e poveri (Richelieu che lottava per il potere e Vincenzo che lottava per la ca­rità), tutti restavano dentro un ultimo fondamentale orizzonte rap­presentato da Cristo e dalla sua Chiesa e dalla salvezza che in essi abita.

Scrisse Brémond: «Non è stata la carità di Vincenzo de’ Paoli a fare di lui un santo, ma è stata la sua santità che lo ha reso veramente caritatevole».

E santità vuol dire appunto appartenenza a Cristo e alla Chiesa.

L’osservazione è di una profondità sconcertante. Si diffonde spesso tra i cristiani l’idea che quel che importa è fare del bene al prossimo e che questo, in ultima analisi, lo può fare chiunque, anche chi non crede in Cristo e chi non appartiene alla Chiesa, e perciò con chiunque si può fraternizzare al di là delle appartenenze dettate dal­la fede, che anzi rischiano d’essere motivo di divisione. Perfino Vol­taire, equivocando, chiamava Vincenzo de’ Paoli, «il mio Santo»:

l’unico che gli andasse bene.

Ma Vincenzo de’ Paoli non si sarebbe lasciato catturare così fa­cilmente. Nel film Monsieur Vincent viene rappresentato il santo mentre dà le istruzioni a una «figlia della carità» che inizia la sua missione. Le parole non sono storiche nella loro materialità, ma sono una giusta interpretazione dello stile e del cuore di Vincenzo:

«Piccola Jeanne — le dice — ho voluto vederti. So che sei corag­giosa e buona. Tu vai domani dai poveri per la prima volta. Non ho sempre potuto parlare a quelle che andavano dai poveri per la prima volta. Eh, non si fa mai ciò che si dovrebbe! Ma a te, la più giovane, l’ultima, debbo parlare, perché è importante. Ricordati bene, ricor­datene bene, sempre! Tu ti accorgerai presto che la carità è un far­dello pesante. Più pesante del secchio della minestra e del cesto del pane. Ma tu conserverai la tua dolcezza e il tuo sorriso. Non è tutto dare il brodo e il pane. Questo lo possono fare anche i ricchi. Ma tu sei la piccola serva dei poveri, la figlia della carità sempre sorridente e di buon umore. Essi sono i tuoi padroni, padroni terribilmente su­scettibili, ed esigenti. Lo vedrai. Allora più saranno ripugnanti e su­dici, più saranno ingiusti e grossolani, più tu darai loro il tuo amo­re... E sarà solo per questo tuo amore, per questo amore soltanto, che i poveri ti perdoneranno il pane che tu darai loro».

Per un film è una bella pagina di sceneggiatura, ma nella realtà Vincenzo spiegava anche di che cosa dovesse ardere questo amore che riscattava la stessa «opera di carità».

Diceva: «Il fine principale per il quale Dio ci ha chiamati è per amare Nostro Signore Gesù Cristo... Se ci allontaniamo anche di po­co dal pensiero che i poveri sono le membra di Gesù Cristo, infalli­bilmente diminuiranno in noi la dolcezza e la carità».

 

La carità infatti nasce dallo sguardo che non si distrae mai, nem­meno per un attimo, dall’essere proteso a Gesù vivo, riconosciuto, amato.

«E ‘Gesù! ‘ — dice il suo biografo — fu l’ultima parola che Vincen­zo pronunciò prima di entrare nei rantoli dell’agonia».