Vita dei santi

Santa Maria Crocifissa Di Rosa

Tratto dal libro: RITRATTI DI SANTI di Antonio Sicari ed. Jaca Book

 

Ogni volta che tentiamo di delineare il profilo di un santo, dobbiamo ricostruire, in quanto è possibile, l'ambiente in cui egli è vissuto, le opere che ha realizzato, il volto di coloro che ne hanno condiviso il carisma e ne hanno accolto l'eredità ideale e pratica. Se è vero, infatti, che Cristo è il centro del cosmo e della storia, è altrettanto vero che i santi sono diventati tali proprio perché si son dedicati, con tutta la loro persona e la loro azione, a mostrare che Cristo era davvero il centro di quel frammento di storia e di mondo in cui essi si trovavano collocati.

Ciò spiega perché è giusto accostarsi con maggiore affetto e venerazione a coloro la cui santità ha illuminato la città dove tu stesso vivi, percorrendo le strade che tu stesso tutti i giorni percorri, frequentando le stesse chiese, guardando gli stessi antichi palazzi sentendo risuonare gli stessi nomi.

Se io oggi elencassi tutti i cognomi dei bresciani la cui storia si è incrociata con quella di S. Maria Crocifissa di Rosa, molti di voi sentirebbero risuonare il loro stesso cognome, e questo fa sempre un po' d'impressione perché mette in evidenza che la santità, anche la più eroica e generosa, accade sempre dentro la più normale quotidianità. Anche oggi i santi sono al nostro fianco.

Quando Paola di Rosa nasce a Brescia, nel 1813, siamo in un periodo storico cruciale: si sta dissolvendo tutto un passato (quello dell'Antico Regime) e le rivoluzioni socio-politiche non sono ancora concluse (anzi si è prossimi alla Restaurazione del 1815), ma ormai il processo iniziato dalla Rivoluzione Francese è irreversibile: sta nascendo l'epoca dei nazionalismi, degli Stati che cercano ognuno esasperatamente una propria " unità " e indipendenza, e si preparano alla reciproca conflittualità. Inoltre la " rivoluzione industriale" sta dando un aspetto diverso, prima impensabile, agli stili di vita, ai metodi e ai ritmi del lavoro, ai rapporti tra gli uomini.

Qualcosa di ancor più grave sta poi fermentando: sta per affermarsi e diffondersi un antico sospetto che prima era alimentato solo in alcune cerchie ristrette e che ora dilaga quasi come mentalità comune e cerca di farsi " storia " e " cultura ": l'idea che " progresso " debba significare rifiuto della Chiesa e della sua tradizione, della sua fede: che " progresso " voglia dire restituire all'uomo quelle " qualità " che egli prima attribuiva a Dio e a Cristo.

Il nuovo " credo " professa dunque che è l'umanità ad essere divina e a meritare un vero e proprio culto: e, soprattutto, è l'umanità ad essere padrona del suo proprio destino.

Quando, a metà secolo, Paola di Rosa, divenuta Suor Maria Crocifissa, morirà, Feuerbach ha pubblicato da qualche anno l'Essenza del Cristianesimo, come ha immaginato e fondato la nuova " religione dell'umanità ", Marx ha appena scritto il suo Manifesto, Darwin sta scrivendo l'origine della specie.

 

Questi riferimenti non hanno lo scopo di sottolineare rapporti di alcun genere, o dipendenze, ma piuttosto di rendere incisiva e urgente una domanda.

Mentre una critica radicale e corrosiva tentava di svuotare il cristianesimo dall'interno, " dov'era lo Spirito di Dio nel frattempo? ".

Così, qualche anno fa, il Cardinale Biffi introduceva un libro sulla storia della Chiesa dell'800, e rispondeva: " Lo Spirito di Dio che dalla materia dell'umanità, per quanto sia ottusa e ribelle, riesce sempre a trarre il prodigio della Chiesa cattolica, è all'opera anche in questo periodo: manda gli 'evangelizzatori dei poveri', che rianimano la fede delle nostre campagne, infiamma gli 'apostoli della carità' che muovono in soccorso di tutte le sventure, suscita dovunque i santi ".

Ed ecco che, nel periodo in cui in Piemonte (dove si fa l'Unità d'Italia, con forti impulsi anticlericali e massonici) operano innumerevoli santi (dal Cottolengo, a Don Bosco, al Murialdo, a centinaia d'altri di cui si è riconosciuta o si va riconoscendo la santità, nel bresciano operano contemporaneamente il Ven. Ludovico Pavoni (che il Rosmini indicò a Don Bosco come modello da Imitare), S. Maria Crocifissa di Rosa, S Bartolomea Capitanio e S. Vincenza Gerosa, le fondatrici delle Dorotee di Cemmo e delle Figlie del S. Cuore, insieme a numerosi sacerdoti in fama di santità (pensiamo anche solo ai fondatori di tutti i principali oratori che vengono realizzati negli anni dell'infanzia di Paola di Rosa.

Mentre dunque gli uomini si affannano con le loro rivoluzioni e restaurazioni e spesso segnano una triste storia di lutti e battaglia, Dio intreccia questa stessa storia con quella dei suoi santi: non due storie diverse o parallele, ma una stessa storia: quella che molti bagnano di sangue e che i santi intridono con la loro inesauribile carità offerta a tutti, e mai schierata contro alcuno.

Erano venuti dunque a Brescia i francesi rivoluzionari e giacobini i quali, in nome dei diritti dell'uomo, avevano distrutto quasi tutte le antiche strutture assistenziali, ma non avevano poi trovato tempo per costruirne di nuove.

Avevano soppresso Ordini e istituti religiosi per incamerarne i beni e pagarsi le spese di guerra. Erano poi tornati gli austriaci per ristabilire il vecchio ordine e tutto avevano restaurato meno i monasteri e i conventi e le loro opere, perché per l'imperatore d'Austria i religiosi erano troppo dipendenti da Roma.

Così, per chi faceva la " grande" storia, i poveri e i bisognosi erano, per intanto, inevitabili incidenti di percorso, destinati solo ad aumentare in numero e sofferenza, e perciò Dio costruiva per loro, al di fuori del previsto, ad opera di creature semplici e buone, la storia della Sua carità.

Veramente la famiglia di Rosa contribuiva anche a scrivere la grande storia della città, ma questo riguardava soprattutto il papà di Paola, il nobile Clemente di Rosa, che apparteneva a quel gruppetto di laici innanzitutto cattolici, fortemente impegnati sia nell'ambito socio-politico che in quello ecclesiale, che il popolino chiamava affettuosamente " i santoni ".

Nei suoi 83 anni di vita, la personalità di Clemente di Rosa segnò profondamente la storia di Brescia. Basta leggere l'elenco degli incarichi che ricoprì e delle opere cui si dedicò: Deputato della congregazione provinciale, Presidente agli Estimi civico e clericale, Amministratore dei pii luoghi riuniti, Amministratore del Monte di pietà, Direttore del Liceo, Membro della Commissione delle Scuole infantili.

Scrisse saggi sul nuovo riordino della Provincia, svolse un'opera immensa nella depurazione delle acque, per le strade provinciali, circa le controversie tra comuni e vicini. Sostenne la riforma penale cellulare, ideò e progettò la prima Cassa di Risparmio, progettò una Scuola Agraria e pubblicò numerosi studi di valore al riguardo, progettò il riordino finanziario dell'Ospedale; fu Visitatore generale nelle Scuole della Dottrina cristiana e partecipò a molte fondazioni o restaurazioni di monasteri e conventi: gli devono molto le visitandine, le orsoline, le canossiane, i filippini, i gesuiti.

E, in ogni caso, si trattò di vere occupazioni, di veri impegni cui dedicò generosamente tempo ed energie fino alla tarda vecchiaia; l'elenco serve bene a farci comprendere in quale ambiente Paola crebbe e a quale sensibilità sociale venne educata.

Eppure quest'uomo dalla fede operosa e dalla carità intraprendente non si può dire che sia stato particolarmente privilegiato dalla Provvidenza. Le disgrazie sembravano abitare nella sua casa patrizia: la moglie gli morì a 39 anni. Dei nove figli, due morirono nel primo anno di vita; una bambina gli morì a cinque anni; altri cinque figli gli morirono tra il 1833 e il 1839 (cioè in sei anni) ed erano tutti tra i 20 e 30 anni di età.

L'unica che sopravvisse al padre, ma per poco, fu la nostra Paola che pure morì anch'essa a 42 anni di età.

E a lui Dio chiese invece di vivere molto a lungo: vecchio ottantaduenne toccò a lui (quando la città fu piegata, dopo le celebri 10 Giornate) presentarsi davanti al Maresciallo tedesco che minacciava impiccagioni e condanne e dirgli fieramente: " … da parte nostra, Eccellenza, vi dispensiamo dal darci alcun spettacolo di sangue ".

Abbiamo dunque una tipica famiglia della nobiltà bresciana la cui storia scorre tra due sponde: quella di una prestigiosa presenza sociale ed ecclesiale (in cui la fede dimostra la sua robusta incisività) e quella fatta di private sofferenze, profonde e incolmabili, in alla fede è immensa capacità di abbandono umile al disegno misterioso di Dio.

E di quale preziosa materia sia fatta questa fede, lo possiamo comprendere osservando questa nobile e dolorante famiglia in quel preciso momento in cui si sta per decidere ,con un gesto totalizzante la futura santità di Paola.

Siamo nel 1836: al cavaliere di Rosa, dei nove figli ne restano soltanto quattro: una si è fatta suora visitandina, i due maschi si dedicano agli studi e al matrimonio. (Ricordo ancora che anche loro non hanno davanti a sé più di tre anni di vita).

Casa di Rosa è una casa patrizia che deve mantenete il suo tono e il suo decoro sociale, dove occorre esercitare una forte autorità e una opportuna sorveglianza sui numerosi domestici e in ambiti molteplici (dalle scuderie, alle cucine, ai granai, alle cantine, al guardaroba ecc.), ed è diretta dalla ventunenne Paola, alla quale il padre ha affidato in sovrappiù la direzione morale della filanda di Acquafredda, con le sue settanta operaie.

Ebbene, cerchiamo di immaginare concretamente questa situazione familiare e ritorniamo a quel terribile 1836 quando si sparge la voce che il colera, terribile malattia mortale fino allora sconosciuta e che nessuno sa come curare, sta per giungere a Brescia.

L'epidemia scoppia infatti violentissima e dura circa sei mesi: in sei mesi su 31.500 abitanti di Brescia, 3.200 vengono colpiti e ne muoiono 1.600, mentre moltissimi abitanti sono fuggiti dalla città.

In una lettera di un noto personaggio del tempo, l'avvocato C. Manziana, si legge: " Noi siamo inondati da questo terribile flagello che fa stragi sopra questi abitanti in ogni ceto di persone, infierisce ed ammazza in poche ore. Evvi un buon numero che sono ammalati dallo spavento. Gli abitanti sono fuggiti per una metà, alcuni alle loro campagne, altri nelle valli e per le montagne, altri per il Tirolo. Brescia pare deserta. Le botteghe più della metà sono chiuse e le case disabitate ".

I primi casi di contagio si ebbero ad aprile; a metà giugno c'era già il panico e per di più la città fu scossa da un grave terremoto.

Il 22 giugno 1836, il cavaliere di Rosa riceve una lettera dall'unica figlia che abita nella sua stessa casa:

 

Carissimo Papà,

 

21 Giugno 1836

 

Sono a pregarvi d'una grazia. Ve la chiedo in iscritto, non per mancanza di confidenza a parlarvi, ma perché non mi si chiudano le parole fra le labbra con una vostra pronta negativa. Sì, la grazia che vorrei da voi, ve la chiedo per amore di Gesù Cristo. Deh, non me la negate.

Il mio vivissimo desiderio sarebbe d'approfittare del mezzo che Iddio mi dà d'aprirmi il Paradiso col praticare l'atto di carità in assistere all'ospedale le povere colerose. Lasciate che mi dedichi al servizio di queste povere infelici. Voi, fate al Signore il sacrificio della vostra Paolina; ed io il farò della mia vita.

Riflettete, caro il mio Papà, che se voi mi deste una negativa, e che fossi presa dal colera in casa e venissi a morire, avreste il rimorso d'avermi sottratto l'ingresso in Cielo. Vorrete negarmi questa grazia? Ah no! Quel Dio che ha inspirato me, inspirerà ancor voi.

Non Consultate né la carne, né il sangue, ma la Religione sola.

Non apporterò alcun danno alla famiglia, perché vi ho riflesso, e prenderò tutte le misure che la prudenza suggerisce. Di queste ve ne parlerò a viva voce. Caro Papà accordatemi questa licenza, che mi rendete felice.

 

Vostra Affez.ma Obbli. Figlia

Paolina

 

Il colera terrorizza: Costringe a vedere persone improvvisamente assalite da spasimi intollerabili che cadono letteralmente nel loro stesso vomito e tra i propri rifiuti, mentre il corpo è scosso da crampi e da un freddo insopportabile e la temperatura scende molto al di sotto di 37 gradi.

Le descrizioni del tempo sono atroci e rivoltanti.

Nei Commentari dell'Ateneo del 1837 c'è uno studio sull'argomento che descrive con abbondanza di particolari " l'aspetto orrendo dei malati ".

Ora possiamo immaginare qual era la posta in gioco che la lettera di Paola chiedeva al padre: la sua stessa vita.

Dopo aver molto pregato, col cuore stesso di Abramo, costui non solo accettò, ma confesso che " se non m'avesse trattenuto il pensiero d'esser padre di famiglia, vorrei seguirla anch'io ".

Così eran fatti certi cristiani bresciani d'allora.

Assieme a una compagna che poi la seguirà per sempre, (un'altra nobildonna più avanti negli anni), Paola cercò un appartamentino vicino al Lazzaretto in modo da non aver più contatto con la famiglia, stese una breve regola di vita sugli orari e le norme igieniche da seguire e poi varcò la soglia di quello che lei stessa poi definirà " lo spaventoso recinto ".

L'esempio fu così travolgente che qualche altra ragazza della nobiltà la imitò.

Il lavoro era sfibrante: dovere continuamente ripulire tutto dallo sporco più ripugnante, tentare in ogni modo di riscaldare le malate con mattoni caldi, senapismi e coperte, rispondere a continue ossessive richieste di acqua, fare suffumigi, accogliere le nuove arrivate che entravano a ondate, seguire gli esperimenti dei medici che cercavano di inventare un qualche rimedio, rasserenare anche fisicamente, tenendole e carezzandole, le malate più disperate, portare via i cadaveri.

E tutto questo per far sì che, in quel regno dell'orrore che un niente sarebbe bastato a tramutare in una bolgia di disperazione e di furore, si potesse percepire sensibilmente la presente carità di Cristo: quelle giovani ragazze mentre sorreggevano le morenti e le cullavano con infinita tenerezza e serenità, avevano diritto di parlare di Lui. E quei volti atterriti e quei corpi scossi da brividi affrontavano la morte sentendosi amati, e perciò offrendosi similmente.

Quel noto personaggio del tempo, che abbiamo già udito descrivere lo scoppio dell'epidemia, raccontava in una lettera indirizzata alle Canossiane di Verona (S. Maddalena di Canossa era morta da appena un anno): " Abbiamo qui due nobili verginelle santissime di alto grado… dopo aver fatto il loro testamento si sono consacrate ad assistere e a servire le inferme di colera nell'ospedale, il che ha fatto stordir Brescia ".

Perfino un corrispondente della Gazzetta di Lodi e Cremona parlava dell'avvenimento, come per sentito dire. Ecco la corrispondenza!

" Dal giorno 16 giugno al 2 luglio siamo stati in mezzo agli orrori, ma in seno alla grande desolazione abbiamo avuto delle grandi risorse… alcune signore entrarono piene di coraggio nel reclusorio delle miserie e tra queste una nobile giovane di 22 anni... Ieri ho chiesto a un coleroso uscito dall'ospedale come fosse stato assistito da quelle pie persone e col pianto della gratitudine negli occhi mi rispose queste precise parole: 'Quelle sante persone non sono della mia sfera. Esse sono angeli'. E dopo avermi esposte dettagliatamente circostanze sulla amorosa accoglienza, finì esclamando e piangendo: Non è possibile immaginarsi tanta carità ".

Le stesse parole dicono oggi i malati di Aids curati dalle suore di Madre Teresa di Calcutta: altri tempi, altre epidemie, stessa santità che sgorga dal cuore della stessa Chiesa.

Ne' Paola ne' le sue compagne furono contagiate dal male, ma in casa di Rosa il fratello maggiore Filippo morì di colera fulminante a 27 anni, lasciando la moglie e i due bambini.

I santi non contrattano le loro opere con Dio, per essere preservati nei loro affetti.

Intanto, finita l'emergenza del colera, la vocazione di Paola va lentamente maturando verso la sua forma definitiva, man mano che lei si prende cura dei bisogni che incontra: se il Servo di Dio Ludovico Pavoni fonda una scuola per sordomuti, Paola fonda quella delle sordomute, accetta a 22 anni la responsabilità delle povere ricoverate di Casa d'Industria, poi anche quella delle ragazze che allora venivano dette " pericolanti " perché destinate, prive com'erano di ogni sostegno e istruzione, a essere usate e gettate come cose di poco conto.

Ma la preoccupazione principale del cuore resta l'ospedale dove Paola e il gruppetto di alcune amiche si dedicano per circa tre anni all'assistenza volontaria.

Non sono suore, sono ragazze di nobile famiglia che scelgono di offrire tempo, energia, affezione a chi soffre, invece di spenderlo a progettare feste, conversazioni, matrimoni; rinunciando di fatto ai facili privilegi possibili alla loro condizione sociale.

Allora l'assistenza ospedaliera era affidata a personale stipendiato, non qualificato, e in ogni senso demotivato: e negli ospedali regnava l'incuria e il sotterfugio immorale.

Quelle assistenti volontarie osservavano quel che accadeva e lentamente maturavano la loro decisione: offrirsi gratuitamente di assumere l'intera gestione dei servizi ospedalieri.

Il         personale medico e amministrativo doveva continuare come prima a gestire l'ospedale, ma loro avrebbero pensato a reclutare, formare e dirigere tutto il personale infermieristico.

E' questa l'intuizione, geniale per il suo tempo, di Paola di Rosa:

non si trattò semplicemente di fare della carità; lei appartiene alla classe sociale dirigente, sa che cosa vuol dire avere domestici, guidare una casa patrizia, gestire una filanda.

Per ora non si tratta solo di fondare una congregazione religiosa, si tratta anche di gestire cristianamente una impresa, quella del servizio infermieristico, e di farlo efficacemente, non per denaro ma per amore a Cristo e ai poveri malati.

Paola di Rosa non aveva falsi pudori sociologici; chiama a lavorare con lei, in ospedale, due classi di persone; quelle capaci di dirigere e di mettere a disposizione i loro beni dotali e quelle che possono offrire soltanto la loro robusta capacità di lavoro. Questa è la società dei tempo e da questa deve venire la soluzione al problema.

Le differenze sociali e di ruolo tra le stesse volontarie saranno convergenti e non conflittuali perché saranno superate alla radice: colei che entrerà nell'impresa progettata da Paola non lo farà per denaro, ma per amore e colei che vi si dedicherà, sia chiamata a dirigere oppure ad eseguire, avrà la stessa regola di vita, la stessa formazione interiore, la stessa esperienza spirituale, la stessa dignità vocazionale.

E' questa la genialità; Paola prende un pezzo di società del suo tempo, così come è, e lo innesta nell'ospedale e lo fa vivere come una comunità religiosa, senza pretendere di abolire quelle differenze che allora sono assai realistiche e devono essere realisticamente considerate, ma superandole dall'interno del cuore di ognuna, in vista dello scopo comune.

All'inizio non si trattò di una congregazione religiosa già costituita; fu una " pia unione " di laiche.

Quando giungerà da Roma l'erezione canonica dell'istituto delle Ancelle della Carità (e in quel giorno del 1852 esso avrà una sola suora professa, Paola, che solo allora prenderà il nome di Suor Maria Crocifissa), la " pia unione " lavora già da dodici anni. Per dodici anni, l'esperienza condotta è stata quella di un gruppetto di " Signore " e di molte " infermiere " o " serventi " che vivono assieme come " pia società " e che hanno lottato per essere riconosciute come tale dalla Imperial Regia Delegazione.

Di fatto l'ospedale cambiò faccia. In un giornale del tempo (la Gazzetta provinciale di Cremona) si racconta, come esempio, ciò che accade nell'Ospedale di Brescia e si fa questa significativa osservazione:

" la pubblica beneficenza non può con l'oro comprare agli ammalati l'amore degli assistenti...". Viceversa, da quando ci sono le Ancelle, è possibile ammirare questo permanente miracolo " in ogni inferma esse ravvisano una sorella e non vi è inferma che sia loro straniera".

Racconta quel cronista che, da quando le Ancelle sono presenti in quel luogo di cura, alle inferme, quando guariscono " non par mai loro tempo d'andarsene", tanto si sono sentite accolte, e continua con una simpatica osservazione: " Questa è tale istituzione alla quale Iddio dall'alto riguardando, prova in sé la compiacenza d'aver creato la donna ".

Quale sia il cuore che anima la nascente istituzione, quale sia la fonte del suo carisma è espresso con particolare bellezza da un episodio che segna i giorni delle origini.

Paola deve garantire davanti alla Direzione dell'Ospedale l'alloggio per tutte le sue " Ancelle " (e si tratta di più di trenta persone); occorre dunque molto denaro e ancor più ne occorrerà quando l'associazione comincerà a dilatarsi.

Così ella decide di richiedere al padre i beni destinati alla sua dote.

Ma, per questo, deve prima annunciargli il fidanzamento.

Gli scrive dunque d'aver cambiato idea di volersi sposare. Prima pensava di restare sola, ma il cuore umano è mutevole e così ha deciso di accettare " un partito assai vantaggioso ". Si dice convinta che anche il padre ne sarà entusiasta perché il fidanzato è un suo amico, di cui anch'egli ha molta stima.

Non gli dice quale sia l'età del fidanzato, perché, aggiunge, " quando ne udrete il nome, saprete anche questo ". Lo avverte intanto che probabilmente certi conoscenti troveranno da ridire su quel fidanzamento, ma, tanto, " le meraviglie durano al più tre giorni ". Si tratta dunque di un fidanzato che nessuno le ha cercato, neanche lei stessa, ma è stato piuttosto lui a volerla insistentemente.

Ci sono, è vero, quelle sue compagne con cui sta fondando una " pia unione ", ma non c'è da preoccuparsi perché loro sono contente del suo fidanzamento, anzi ne avranno vantaggio perché la sua dote andrà a loro, dato che il fidanzato è così ricco che non ne ha bisogno.

Conclude finalmente la lettera rivelandogli l'unica cosa che ancora manca: il nome del fidanzato. Eccolo:

 

Gli è Gesù di Nazareth, presso il quale desidero che mi teniate in decoro (cioè: " che mi facciate fare bella figura ") come avete già fatto e come fareste con un altro genero nell'affidargli la vostra affezionatissima Paolina.

 

Questa lettera, che ho riassunto, è un piccolo capolavoro in cui la fede, la tenerezza e l'abilità si mescolano assieme; c'è tutto l'amore per Cristo, tutta la tempra della sua stirpe, tutta la capacità imprenditoriale, mescolate assieme nel crogiolo della carità.

Gli inizi della " pia unione " furono pieni di contrasti: mentre la città si riempiva della ammirazione dei buoni e le malate si sentivano tutte riconfortate, alla Direzione dell'ospedale non pareva vero d'avere un contingente di infermiere, così disciplinato, così dedito al lavoro e, oltretutto così poco costoso, ma pretendeva d'averne il totale controllo. Paola resistette con incrollabile fermezza, giungendo fino a decidere il ritiro di tutte le sue Ancelle dall'Ospedale, se la Direzione non recedeva dalle sue pretese.

Allora un torrente di meschinità, di cattiverie, di accuse si riversò su quella nascente esperienza e, per due anni, il più becero anticlericalismo le si scagliò contro cercando di distruggerla.

In una lettera di solidarietà il Ven. Pavoni parla di mille rapporti calunniosi " fatti circolare contro quello che egli definiva addirittura " santissimo istituto delle nostre Ospedaliere ".

Le difese, anche da chi più avrebbe dovuto garantirle, furono poche:

 

Noi, scrisse Paola, siamo maltrattate, calunniate e, azzarderei dire, odiate... Il Vescovo non vuol prendere la penna in mano...

Ma accadde quel che sempre avviene nelle opere volute da Dio: la tempesta non riesce a sradicarle, piuttosto le irrobustisce.

Contro ogni speranza e contro ogni memoriale d'accusa, l'Imperial Regia Delegazione approvò la " Pia Unione ".

Una delle prime lettere di felicitazione che Paola ricevette fu quella di Santa Vincenza Gerosa: i santi si riconoscono.

L'Opera cominciò a dilatarsi: il secondo ospedale che richiese le Ancelle fu quello di Crema Seguirono poi: gli ospedali di Manerbio, Montichiari, Chiari, Travagliato, Lonato, Salò, Orzinuovi, Carpenedolo... In tutto Paola realizzò personalmente diciotto fondazioni e iniziò inoltre quelle di Varese, Desenzano, Rivolta.

Ma non si trattò solo di ospedali.

Gli sconvolgimenti sociali del 1848-49 (ricordiamo le celebri 10 Giornate di Brescia) videro le Ancelle presenti anche nei vari ospedali da campo: di volta in volta quelli dei piemontesi o quelli degli austriaci, secondo le alterne vicende, e secondo l'unico criterio politico della carità.

In quegli anni segnati dall'odio e dalle sventure che l'eroismo di alcuni e gli ideali di molti, non riuscivano comunque a riscattare non mancarono episodi in cui Paola di Rosa e le sue Ancelle divennero un simbolo. Ricordiamo tre episodi tra i più significativi.

I moti del '48 cominciarono a Brescia con l'assalto al Collegio Arici, tenuto dai gesuiti.

Accusati a torto d'essere favorevoli agli austriaci vennero additati all'odio del popolaccio: una massa di gente inferocita s'era schierata in via Cesare Arici pronta all'aggressione, quando si vide avanzare una schiera di carrozze e di carri guidati da Paola che veniva a mettere in salvo i padri, l'Eucaristia della cappella, e le robe dei religiosi: nessuno ardì ostacolarla né mancarle di rispetto. Lo sgombero durò a lungo mentre la sola persona amata di quella giovane donna bastò a tenere a freno la massa inferocita. Quando il trasloco fu finito, il collegio fu messo a sacco e spaventosamente devastato come da un'onda in piena.

Nel 1849 fu la volta degli austriaci: quando dopo le 10 Giornate gli austriaci sfondarono gli sbarramenti e si riversarono in città come belve inferocite pronte ad ogni vendetta e ad ogni saccheggio, solo l'ospedale non venne violato: sulle porte stavano schierate sei Ancelle con delle candele in mano, in preghiera attorno a un grande Crocifisso in mezzo a loro. E nessuno osò forzare quel blocco.

Il terzo episodio mostra come l'animo e il cuore di Paola si andasse trasfondendo nelle sue figlie: quando agli orrori dei combattimenti del 1849 si aggiunse nuovamente lo spettro del colera, la fondatrice riunì le sue figlie in capitolo, raccontò loro, per personale esperienza, che cosa fosse il colera e che cosa volesse dire dedicarsi ai colerosi, e poi chiese che si inginocchiassero solo coloro che accettavano di entrare in quello che lei stessa defluì " lo spaventoso recinto " Si inginocchiarono tutte.

Un carisma di fondazione si giudica da questo: da come genera attorno a sé il miracolo della comunione, della aggregazione di molti nei quali si imprime la stessa forma del fondatore.

Ma c'è una pagina di questa storia di santità che non abbiamo ancora raccontata, anzi l'abbiamo finora volutamente censurata; una pagina che può turbare e perfino disgustare, se non la si comprende nella sua mistica profondità.

Perciò prima è necessaria una premessa che richiede molta attenzione, anche se intanto non se ne comprende ancora lo scopo.

Noi crediamo in Cristo, vero Dio e vero Uomo, e crediamo che, con la Sua Incarnazione, il Figlio di Dio è disceso fino a penetrare dentro tutto l'abisso della nostra perdizione: Egli ha preso su di sé, davvero, tutti i nostri peccati, la nostra condanna.

Non è facile per noi capire come potesse Gesù sulla croce essere assieme, nello stesso tempo, nella sua unica persona, il Figlio beato di Dio Padre e il figlio dell'uomo che si sente da Lui abbandonato.

Quel Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato? è il mistero più profondo della nostra fede. Gesù ha sofferto per i nostri peccati, addossandoseli, portandone la pena e il disgusto, come se li avesse commessi Lui. Come è potuto accadere questo? Nemmeno i teologi possono spiegarlo, ma solo i santi; e non tutti i santi ma solo alcuni ai quali Cristo chiede di esperimentare personalmente qualcosa della sua passione.

Chi è chiamato a questo compito di testimonianza, vive una esperienza straziante in cui beatitudine e terrore si fondono assieme, come si fondono fede e quasi disperazione, amore purissimo e turbamento di tutto l'essere, tranquillità esteriore e angoscia interiore.

Pochi sono i santi ai quali ciò è stato chiesto con la stessa intensità e gravità con cui è stato chiesto a questa nostra Santa.

Sappiamo che Paola di Rosa solo negli ultimi tre anni della sua vita si chiamò Suor Maria Crocifissa.

Dobbiamo però comprendere questo: allora non si trattò soltanto della cerimonia formale di un cambiamento di nome (secondo l'uso di un tempo nei conventi): fu piuttosto il venire alla luce quasi di un'altra persona che da tempo conviveva, in maniera inspiegabile, con quella che tutti conoscevano e ammiravano: una vera e propria schizofrenia spirituale, nota solo al suo confessore, provocata non da malattia della psiche, ma da una azione irresistibile della grazia ai Dio.

Pensiamo dunque prima a Paola di Rosa: a tutto quello che ha fatto e costruito; al suo equilibrio umano, al suo carisma di maternità, alla sua capacità educativa, alla sua forza nelle avversità, al suo riconosciuto eroismo spirituale, ma anche alle sue opere sociali: alle fondazioni, ai contratti che deve stendere e onorare, alle pressioni cui deve resistere, a tutto ciò che deve contemporaneamente reggere e guidare. Uno storico ha detto di lei: " Ha nelle vene il sangue di una manager lombarda ". E non si può essere manager senza una vera e propria capacità imprenditoriale, tanto più se la si applica alla carità.

Ed ora pensiamo a Maria Crocifissa: non al nome che verrà tardi ma alla esperienza interiore che inizia già a 17 anni.

Dice il suo confessore: " Non ebbe giorno che fosse libera da tentazioni e non ebbe tentazioni con cui non sia stata tentata ".

E tali tentazioni riguardavano " tutto ciò che può essere atto a sconvolgere la mente e il cuore ".

A 17 anni si e consacrata verginalmente a Gesù Cristo, e da allora le tentazioni più feroci contro la castità non la abbandoneranno più. Non solo quelle ambigue e rivoltanti che si fanno immaginazione e sensazione torbida, ma quelle che pervadono tutto l'essere e dal corpo risalgono fino al cuore, fino alla mente, fino all'anima.

Le sembra di non credere a nulla, continuamente tentata di deridere Dio, la sua Incarnazione, i suoi Sacramenti la sua presenza nell'Eucaristia. Non riuscirà mai a fare la comunione senza dover superare un istintivo rifiuto che la sconvolge fino a farla star male e poi subito la paura d'aver sacrilegamente peccato. Non riuscirà mai a confessarsi senza provare ribrezzo e perfino odio verso il sacerdote che la confessa e a cui tuttavia obbedisce totalmente come a un padre.

Vuole pregare e la bocca le si riempie di bestemmie; agisce sempre con la più delicata carità e le sembra di odiare fino a desiderare di uccidere. " Viveva in uno stato quasi continuo di aridità, di desolazione, di tenebre ": e questo per tutta la vita, dai 17 anni alla morte.

Ebbe la tentazione continua della disperazione non escluso il suicidio: sensazione d'avere davanti il cielo chiuso per sempre e l'inferno aperto, tanto da rendere inutile e ridicolo il tentativo di compiere il bene, e assurda ogni opera sempre compreso lo stesso istituto da lei fondato. Avverte continuamente Satana presente che le offre la pace e la tranquillità se abbandona tutto e si affida a lui, e che finisce per percuoterla fino a lasciarle i lividi per tutto il corpo per il fatto che lei non cede.

Durante la preghiera, che pure desidera di cuore e compie fedelmente, si ritrova, senza volerlo, a pregare Dio di dannarla, a pregare per ché tutti possano odiare Dio. E quando il tormento si placa, qualcosa di ancora peggiore: " una spaventosa indifferenza per tutto ".

 

Io non credo nulla, nulla spero, nulla amo, di nulla temo... Ah! calma più tormentosa della tempesta stessa!

 

C'è, negli scritti che la riguardano, una domanda terribile che descrive bene questa esperienza indicibile:

 

Oh Dio, che differenza c'è tra me e il demonio?

 

Scrive il suo confessore (che era uno tra i più dotti e santi preti che avesse allora il clero bresciano):

" Il suo patire è così atroce che non si saprebbe come descriverlo. Sono vecchio nel ministero: ho letto vari mistici attorno ai patimenti cui Dio sottopone tal'ora un'anima, e confesso il vero che, tranne il dire come asseriscono alcuni, che l'anima soffre pene simili a quelle dell'inferno, non saprei esporlo con altre espressioni...

In una parola quest'anima è sotto il martirio di mille croci, ciascuna delle quali sarebbe capace di fare impazzire".

Tentare un'analisi sulla scorta delle scienze psicologiche non servirebbe perché in questi casi Dio agisce proprio come se consumasse la psiche e tuttavia ci mostra assieme come, da tutto questo fuoco distruggente, Egli sappia far emergere non una personalità contorta, dissociata, isterica, ma tranquilla, buona, costante, operosa, caritatevole, come era Gesù sulla croce verso il ladrone pentito.

Inoltre, anche per suor Maria Crocifissa, accade il continuo miracolo: in mezzo al tormento (" Dio mio, Dio mio perché mi abbandoni? "), il lampeggiare improvviso di un amore assoluto (" Padre, nelle tue mani io affido il mio spirito!").

Un giorno Paola Maria Crocifissa disse al suo confessore che per lei la più grande croce sarebbe stata quella di essere priva di croci, perché spiegò, " intanto che si sente il peso della croce, non si può tralasciare di stare attaccati a Dio e di pregarlo sempre ".

 

Gesù mio, pregava, tu solo mi basti. La mia vita sia crocifissa con te. Fate, o mio Bene Crocifisso, fate sì che il patire che mi donate sia intenso, desolato, profondo, che pure mi faccia svenite per la pena; solo vi prego che questo soffrire non trasparisca all'esterno.

O Dio del cuore mio! vado continuamente esclamando: non ne posso più! Allarga, allarga tu il mio cuore perché è troppo angusto e ristretto al tanto che gli fai provare.. - è un patire sì intenso che parmi un miracolo non morirne di puro dolore. Madre mia Maria, prega per me.

 

Il senso di ciò che abbiamo ascoltato mi pare possa essere reso bene con la bella immagine che Claudel usa in apertura al suo capolavoro (La scarpina di raso): un gesuita è legato all'albero di una nave che sta per affondare, come a una croce, e prega:

 

Signore, ti ringrazio di avermi così legato... Oggi non vi è modo di essere più stretto a Te di guanto lo sono io, e ho un bel verificare ogni mio membro, non ve n'è uno solo che da Te sia capace di scostarsi un poco. Ed è vero che sono legato alla croce, ma essa non è più legata a nulla. Galleggia sul mare... Io mi servo (...)di questo mare che è stato messo a mia disposizione...

 

E' ciò che Dio chiese a Paola Maria Crocifissa di Rosa: essere gettata in un mare di sofferenze, ma nella massima adesione d'amore alla croce stessa di Cristo.

Quando finalmente giunse il momento del suo incontro definitivo con Colui che le aveva chiesto un così grande amore da farle rivivere il santo mistero della sua Santa Passione, mentre ormai stava per morire, le dissero che una Messa veniva celebrata per lei al Santuario della Madonna delle Grazie. Si raccolse allora in preghiera. E quando la Messa finì, si vide il suo volto divenire splendente come per un presagio di resurrezione, come per la gioia di aria sconosciuta esperienza di totale pace. Disse soltanto sorridendo: " La grazia è fatta! " e spirò: quella figlia che Dio aveva abbandonato a condividere la lacerante passione di Suo Figlio, si ritrovava ora tutta intera nelle mani affidabili del Padre celeste.