San Giovanni Bosco
Tratto dal libro: RITRATTI
DI SANTI di Antonio Sicari ed. Jaca Book
Don
Bosco nasce quando ancora non sono passati trent'anni dalla Rivoluzione
francese, l'anno stesso in cui, con il congresso di Vienna, tramonta il mito
napoleonico (1815). Già in tutto il secolo precedente (il cosiddetto «secolo
dei lumi») la fede ha subito attacchi e irrisioni con una programmata offensiva
condotta in nome di una ragione divinizzata che pretende di lottare contro
tutto ciò che chiama «superstizione».
Nel secolo XIX l'attacco è ormai mescolato, in modo spesso assai
intricato, con le questioni sociali e con le questioni nazionali.
Non è possibile, nemmeno lontanamente, descrivere il tempo di don Bosco:
tempo di prima industrializzazione, di moti risorgimentali, di restaurazioni e
di rivoluzioni; in ogni caso di turbamenti per noi inimmaginabili. Per
facilitare soprattutto i più giovani, possiamo accostate il nome di don Bosco a
quello dei suoi contemporanei più prestigiosi.
Quando muore Hegel, il filosofo dell'idealismo, don Bosco ha 16 anni.
Comte - che vorrà fondare la nuova religione dell'umanità - ha 17 anni più del
nostro Santo. Feuerbach ha invece 11 anni di più, Darwin 6 anni, Marx 5 di
meno, Dostoevskij 6 anni, Tolstoj 13.
In Italia quando don Bosco nasce, Foscolo ha 37 anni,
Manzoni ha 30 anni, Leopardi 17, Mazzini 10, Garibaldi 8.
Pio IX, Leone XIII, Vittorio Emanuele II, Cavour,
Rattazzi, Crispi, Rosmini gli sono amici.
Casa di Don Bosco |
Lo stesso anno in cui don Bosco muore, nella stessa
città, a Torino, Nietzsche viene definitivamente colto da follia.
Molti di questi nomi don Bosco non li ha neppure conosciuti.
Il letterato più celebre che incontrò - in due colloqui segreti a
Parigi, convertendolo, secondo la testimonianza di don Bosco stesso - fu
Victor Hugo.
Ma non c'è dubbio che il mondo in cui don Bosco visse era esattamente
quello che veniva agitato da tutto questo insieme di influssi. In esso don
Bosco fece le sue scelte, coltivò certe idee e ne rifiutò altre, a volte
assunse acriticamente certe impostazioni del suo tempo. Sarebbe assurdo
immaginarlo diversamente.
In tutto questo ribollire di persone, avvenimenti, idee, progetti,
restaurazioni e rivoluzioni - tempo in cui la Chiesa è stata considerata
qualche volta alleata e più spesso nemica da opprimere, e in cui
l'anticlericalismo ha toccato punte inverosimili – si nota tuttavia un fenomeno
diverso che già allora fece piegare il capo anche ai nemici: la santità. Una
santità abbondante molteplice quella soprattutto dei cosiddetti
“evangelizzatori dei poveri”; una santità trasferita nel bel mezzo di una città
in rapida evoluzione, una santità che si trascina appresso un flusso
travolgente di esperienze e fenomeni soprannaturali.
Si può prendere un episodio della vita di don Bosco e passarlo al
microscopio trovando una documentazione non del tutto perfetta. In compenso ce
ne sono subito presenti altri mille sostenuti da decine e decine di
testimonianze d’ogni genere.
Prendiamo, ad esempio, come punto di riferimento quel 1848 che passò
alla storia come l'anno dei grandi turbamenti, l’anno della prima guerra d'indipendenza.
A Torino il seminario si svuota. Più di 80 chierici, in reazione
all'arcivescovo, durante la Messa di Natale, si sono schierati nel presbiterio
del Duomo con la coccarda tricolore sul petto e, allo stesso modo hanno
partecipato ai festeggiamenti per lo Statuto.
L’anno successivo l’arcivescovo è arrestato e imprigionato. In città si
scatenano le bande anticlericali che assaltano i conventi. I preti si dividono
in preti patrioti e preti reazionari. Il governo intanto prepara una legge per
sopprimere tutti i conventi. La legge, che sopprimerà 331 case religiose per un
totale di 4.540 religiosi, verrà firmata nel 1855.
Sono solo
alcuni gravi episodi tra mille altri; eppure in quegli stessi anni a Torino
vivono e operano contemporaneamente - amici e collaboratori tra loro - san
Giovanni Bosco, san Giuseppe Cafasso (il prete dei carcerati e dei condannati a
morte, che dirige spiritualmente san Giovanni Bosco), san Giuseppe Benedetto
Cottolengo (il prete dei malati incurabili che diceva d'essere il “manovale
della Provvidenza”). Per un certo tempo don Bosco gli dà una mano, poi seguirà
la sua strada. Il Cottolengo un giorno gli prende tra le dita un lembo della
veste e gli dice profeticamente:
«E’ troppo
leggera. Procuratevi una veste più resistente perché molti ragazzi si
appenderanno a questo abito».
C'è poi una
ragazza di vent'anni più giovane di don Bosco. Costui la incontra nel 1864:
diverrà la fondatrice delle Figlie di Maria Ausiliatrice: Santa Maria
Mazzarello.
Nel 1854
entra nell'oratorio di don Bosco un ragazzo di una rara profondità interiore. E
l'anno della proclamazione dell' Immacolata: quel bambino è innamorato
di questo mistero mariano. Diventa santo a 15 anni: Domenico Savio.
Un altro
ragazzino diventerà successore di don Bosco, anche lui proclamato beato da
poco: Beato Michele Rua.
Un altro
ancora, che passa all'oratorio 3 anni («la stagione felice della mia vita»,
quando sa che don Bosco è in fin di vita ha allora 16 anni), offre a Dio in
cambio la sua giovane esistenza. Diventerà il Beato Luigi Orione, anch'egli fondatore
di una congregazione per bambini poveri (è quel prete di cui parlò Silone in un
suo celebre racconto autobiografico). Dirà di don Bosco: «Camminerei sui
carboni ardenti per vederlo ancora una volta e dirgli grazie».
Un altro giovane
prete, don Federico Albert, predica i primi esercizi spirituali a una
cinquantina di ragazzi, tra i quali don Bosco vuol scegliere i suoi collaboratori.
Oggi anche quel predicatore è un «Beato»
Sono già otto
santi ufficialmente riconosciuti dalla Chiesa (per non dire di decine d'altri
rimasti anonimi) che si incontrano e si parlano e si capiscono come l'amico
incontra l’amico. E attorno a loro che il soprannaturale si ramifica con
manifestazioni innumerevoli e commoventi, come se Dio intendesse mostrare -
mentre la Chiesa soffre per i peccati suoi e altrui e si dibatte in problemi
intricatissimi - il sangue vivo e caldo che scorre nel suo corpo ecclesiale e
lo Spirito che l'anima dentro la sua corporea pesantezza.
Nella vita di
don Bosco s’incontra ogni tipo di fenomeni miracolosi: sogni profetici,
visioni, bilocazioni, capacità di intuire i segreti dell'anima, moltiplicazioni
di pani e di cibo e di ostie, guarigioni, perfino risurrezioni di morti.
Ricorderò solo due episodi che ebbero una gran risonanza per il loro
riflesso pubblico nella società del tempo il primo episodio è non solo triste,
ma terribile.
Quando il re
è indeciso se firmare la legge di soppressione dì tutti i conventi - legge che
gli attirerà la scomunica da parte della Santa Sede - don Bosco «sogna» che un
valletto di corte gli annuncia:
«Grandi
funerali a corte».
Ne parla a
tutti i suoi collaboratori. Scrive una lettera al re per avvertirlo “che
pensasse a regolarsi in modo da schivare i minacciati castighi, e dl impedire a
qualunque costo quella legge”.
Questa la
successione dei fatti. L’avvertimento di don Bosco e del dicembre del 1851. Il
12 gennaio 1855 muore la Regina Madre, Maria Teresa, a 54 anni. Il 20 gennaio
muore la Regina Maria Adelaide, moglie del re, a 33 anni. L'11 febbraio muore
il fratello del re, principe Ferdinando di Savoia, a 33 anni. Il 17 maggio
muore l'ultimo figlio del re, di appena 4 mesi.
Il re è
furioso con don Bosco. Il 29 maggio, consigliato perfino da alcuni preti, firma
comunque la legge.
Ognuno giudichi
come vuole, ma i contemporanei restarono allibiti.
L'altro
episodio è invece commovente: nell’estate 1854 a Torino scoppia il colera che
ha il suo epicentro a Borgo Dora, dove si ammassano gli immigrati, a due passi
dall'oratorio di don Bosco. A. Genova ha già fatto 3.000 vittime In un solo
mese, a Torino, 800 colpiti e 500 morti. Il sindaco rivolge un appello alla
città, ma non si trovano volontari per assistere i malati né per trasportarli
al lazzaretto. Tutti sono presi
dal panico. Il giorno della Madonna della Neve (5 agosto) don Bosco raduna i
suoi ragazzi e promette: «Se voi vi mettete tutti in grazia di Dio e non
commettete nessun peccato mortale, io vi assicuro che nessuno di voi sarà
colpito dalla peste» e chiede loro di dedicarsi all'assistenza degli
appestati.
Tre squadre: i grandi a servire nel Lazzaretto e
nelle case, i meno grandi a raccogliere i moribondi nelle strade e i malati
abbandonati nelle case. I piccoli in casa disposti alle chiamate di pronto
intervento.
Ognuno con una bottiglietta di aceto per lavarsi le
mani dopo aver toccato i malati. La città, le autorità, anche se anticlericali,
sono sbalordite e affascinate. L'emergenza finisce il 21 novembre. Tra agosto e
novembre a Torino ci sono stati 2.500 appestati e 1.400 morti. Nessuno dei
ragazzi di don Bosco si ammalò.
Sono solo due episodi utili a far percepire qualcosa
del clima in cui viveva don Bosco e in cui vivevano, come in qualcosa di
palpabile, i ragazzi e i collaboratori che stavano con lui, attratti non dalla
sua magia, ma dalla sua familiarità con Dio. Questa è la spiegazione cattolica.
Chi la nega per principio, poi deve necessariamente accumulare mille e una
spiegazione alternativa.
Quando nel 1884 don Bosco venne intervistato da un
reporter del Journal de Rome (è il primo santo della storia che sia
stato sottoposto a questa tecnica giornalistica inventata nel 1859 da un americano),
gli verranno poste, tra le altre, queste domande:
D Per quale miracolo lei ha potuto
fondare tante case in tanti paesi del mondo?
R Ho potuto fare più di quello che
speravo, ma il come non lo so neppure io. La Santa Vergine, che sa i bisogni
dei nostri tempi, ci aiuta...
D Permetta un’indiscrezione: di miracoli
ne ha fatti?
R Io non ho mai pensato ad altro che a fare
il mio dovere. Ho pregato e ho confidato nella Madonna...
D Che cosa pensa delle condizioni attuali
della Chiesa in Europa, in Italia, e del suo avvenire?
R Io non sono un profeta. Lo siete invece
tutti voi giornalisti. Quindi è a voi che bisognerebbe domandare che cosa accadrà.
Nessun,o eccetto Dio, conosce l'avvenire. Tuttavia, umanamente parlando, c'è da
credere che l'avvenire sia grave. Le mie previsioni sono molto tristi, ma non
temo nulla. Dio salverà sempre la sua Chiesa, e la Madonna, che visibilmente
protegge il mondo contemporaneo, saprà far sorgere dei redentori.
Ma chi era dunque don Bosco?
Per parlare di lui, bisogna cominciare a parlare
della madre: una povera contadina che non sapeva né leggere né scrivere,
rimasta vedova quando Giovanni ha due anni e che deve lottare a denti stretti,
in tempi di carestia e di disgrazia, per tenere unita la sua Famiglia. Ciò che
ella conosce é elementare: alcuni brani della Scrittura a memoria e gli
episodi del Vangelo; i principi fondamentali della vita cristiana (“Dio vede
anche nei tuoi pensieri”); il paradiso e l'inferno; il valore redentivo della
sofferenza; uno sguardo fiducioso alla Provvidenza; i Sacramenti e il Rosario.
Monumento a Margherita (Encrico
Manfrini 1992) |
Ascoltiamo però don Bosco stesso: «Ricordo che fu
lei a prepararmi alla prima confessione. Mi accompagnò in Chiesa, si confessò
per prima, mi raccomandò al confessore e dopo mi aiutò a fare il ringraziamento.
Continuò ad aiutarmi fino a quando mi credette capace di fare da solo una
degna confessione».
Ancora don
Bosco: «Nel giorno della prima Comunione in mezzo a quella folla di ragazzi
e di gente era quasi impossibile conservare il raccoglimento. Mia madre al
mattino non mi lascio parlare con nessuno. Mi accompagnò alla Sacra mensa. Fece
con me la preparazione e il ringraziamento. Quel giorno non volle che mi
occupassi dì lavori materiali. Occupai il tempo nel leggere e nel pregare. Mi
ripeté più volte queste parole: Figlio mio, per te è stato un grande giorno.
Sono sicura che Dio è diventato il padrone del tuo cuore. Promettigli che ti
impegnerai per conservarti buono per tutta la vita...».
Ed è la
stessa donna che, quando si parla di una possibile vocazione religiosa del
figlio, gli dice: «Se ti facessi prete e per disgrazia diventassi ricco, non
metterò mai piede in casa tua».
E
il giorno dell'ordinazione sacerdotale: «Ora sei prete, e sei più vicino a
Gesù. Io non ho letto i tuoi libri, ma ricordati che cominciare a dir messa
vuol dire cominciare a soffrire. D'ora in poi pensa solo alla salvezza delle
anime e non prenderti nessuna preoccupazione di me».
Quando
avrà appena incominciato a far la nonna dei nipotini datigli dall'altro figlio,
con una relativa tranquillità, Giovanni andrà da lei e le dirà: «Un giorno
avete detto che se diventavo ricco non sareste mai venuta a casa mia. Ora
invece sono povero e carico di debiti. Non verreste a fare da mamma ai miei
ragazzi?».
Mamma
Margherita risponderà soltanto umilmente: «Se credi che questa sia la
volontà di Dio...».
E
passerà gli ultimi dieci anni della sua vita (1845-1856) a fare da mamma a
decine e centinaia di figli non suoi, ma che quel figlio prete le conduce da
parte di Dio, fino a sfInirsi, prendendo forza - quando non ne può più - da uno
sguardo umile e paziente rivolto al crocifisso.
I
santi nascono e crescono cosi.
Fin
da piccolo Giovanni Bosco ha fatto un sogno che, perfino durante il sonno gli
sembrava «impossibile»: cambiare delle piccole «belve» in figli di Dio; e da
allora un impulso interiore lo spinge a dedicarsi alla gioventù abbandonata.
Per
loro ha voluto ad ogni costo diventare prete, studiando fuori età, sorretto da
una memoria prodigiosa, superando umiliazioni e fatiche d’ogni genere.
Negli
anni di studio ha trovato tempo - per mantenersi o per passione – di fare il
pastore, il giocoliere e il saltimbanco, il sarto, il fabbro ferraio, il
barista e il pasticciere, il segnapunti al tavolo deI biliardo, il suonatore di
organo e di spinetta. Più avanti farà anche lo scrittore e il compositore di
canzoni.
Ma
preoccuparsi degli altri ragazzi privi di pane, di istruzione e di fede, gli
sembrava - come egli stesso scrive – « l’unica cosa che dovessi fare sulla
Terra ». E questo « fin da quando avevo cinque anni ».
Mamma Margherita |
Torino
a quel tempo è presa dalla febbre della prima industrializzazione. Gli
immigrati si contano a decine di migliaia, nel 1850 si parla addirittura di 50.000
o 100.000 immigrati. Si cominciano a costruire case su case. La città è invasa
da bande di ragazzi che si offrono per tutti i lavori possibili (ambulanti,
lustrascarpe, fiammiferai, spazzacamini, mozzi di stalla, garzoni...) e non sono
protetti da nessuno. Si formano vere e proprie bande che infestano i sobborghi,
soprattutto nei giorni festivi in cui non si lavora.
I
primi accostati da don Bosco sono muratori, scalpellini, selciatori e simili.
Molti
ragazzi si danno al furto e finiscono, prima o poi, nelle carceri della città.
Anche
altri preti giovani del tempo hanno intanto cominciato a preoccuparsi dei
ragazzi abbandonati, ma si lasciano trascinare dai problemi politici e la loro
opera viene travolta. Uno di essi - molto noto a Torino -, persuaso di «seguire
il popolo», ha condotto i suoi duecento giovanotti a prendere parte alla
battaglia di Novara. È una
disfatta in tutti i sensi.
Don
Bosco non guarda in faccia nessuno, preoccupato solo dei suoi ragazzi. Li
raccoglie in un oratorio, se li trascina dietro nella continua ricerca di un
luogo abbastanza capace per poterne ospitare un numero sempre crescente. Deve
combattere su molti fronti contemporaneamente. I politici sono preoccupati del
potenziale rivoluzionario rappresentato da quelle bande di giovinastri che
obbediscono, a centinaia, a un solo cenno di don Bosco.
Don Bosco con I bambini. |
L'oratorio
è insistentemente sorvegliato dalla polizia. Alcuni ben pensanti «pensano» che
l'oratorio sia un centro d’immoralità. I parroci della città sono preoccupati
perché vedono distrutto il «principio parrocchiale». Se si deve fare
l'oratorio, bisogna farlo nelle parrocchie. L'accusa è: «I giovani si staccano
dalle parrocchie».
Don
Bosco è messo sotto accusa: i parroci d’altronde pensano ancora a un'epoca
tramontata, quando i giovani immigrati si presentavano con un biglietto di
raccomandazione del proprio parroco d'origine per essere accolti.
D'altra
parte gli oratori parrocchiali – quelli che esistono - sono solo festivi e don
Bosco li immagina quotidiani, con una compromissione totale del prete. Solo
questo fa sì che i parroci sospendano prudentemente il loro giudizio e la loro
offensiva.
Insistono
però almeno che don Bosco indirizzi successivamente i suoi giovani alle
rispettive parrocchie.
Ma
sono ragazzi che non si avvicinerebbero mai a una parrocchia, e per di
più - cosa ancora più seria e sempre
difficile da capire per chi sta al di fuori - l'oratorio di don Bosco è solo
secondariamente una struttura o un luogo. Sostanzialmente l'oratorio è don
Bosco stesso, la sua persona, la sua energia, il suo stile, il suo metodo educativo:
e questo non lo si può trasportare da una parrocchia all'altra. Per fortuna
l'Arcivescovo decide di visitare personalmente l'Oratorio. Passa una giornata
piena d'allegria e si diverte di gusto («non ho mai riso tanto in vita mia», dirà).
Dà la Comunione a più di trecento ragazzi e poi la Cresima, fiero di tanta
gioventù, anche se alzandosi con tutta la mitria picchia energicamente il capo
sul soffitto della bassa costruzione.
Per
sua decisine tutti i verbali delle cresime vengono raccolti dalla Curia e
invitati successivamente ai rispettivi parroci: così l'Oratorio è praticamente
accettato come “la parrocchia dei ragazzi che non hanno parrocchia”.
Con
una significativa sottolineatura teologica, don Bosco dice che l'abate Rosmini
- suo entusiasta Sostenitore - « paragonava la nostra opera alle missioni
che si aprono in terra straniera ».
Un
altro versante di lotta per don Bosco è con i cosiddetti «preti patrioti», che
tentarono gravemente di politicizzare i suoi ragazzi, per lanciarli nelle lotte
risorgimentali.
“Nell’anno
1848 – scrisse - ci fu un tale pervertimento di idee e di opinioni che non
potevo più nemmeno fidarmi dei collaboratori domestici. Ogni lavoro casalingo
doveva quindi essere fatto da me. Toccava a me fare cucina, preparare a tavola,
spazzare la casa, spaccare la legna, confezionare camicie, calzoni,
asciugamani, lenzuola e rammendarli quando si strappavano. Sembrava una perdita
di tempo invece trovai in quell’attività una possibilità d'aiutare i giovani
nella loro vita cristiana. Mentre distribuivo il pane, scodellavo la minestra,
potevo con calma dare un buon consiglio, dire una buona parola”.
Su
un altro versante ancora, la lotta era contro coloro che (ed erano tanti, a un
certo punto furono perfino gli amici) si convinsero che don Bosco era veramente
e irrimediabilmente impazzito.
Mentre
con i suoi ragazzi traslocava ripetutamente da un misero luogo all'altro, don
Bosco parlava loro con assoluta convinzione di vasti oratori, chiese, case,
scuole, laboratori, ragazzi a migliaia, preti numerosissimi a disposizione.
I
ragazzi gli credevano, ripetevano le sue parole. Al contrario, perfino i più
affezionati amici lasciavano cadere le braccia: «Povero don Bosco, si è
tanto infatuato dei giovani che gli ha dato di volta il cervello».
Tutta
Torino parlava del “prete pazzo”. Si cercò perfino di internarlo, con uno
stratagemma.
L'
amico più intimo del Santo, un altro prete, piangeva: «Povero don Bosco, è
proprio andato!».
“Tutti
- scrive don Bosco - si tenevano lontani da me. I miei collaboratori mi
lasciarono solo in mezzo a circa quattrocento ragazzi”.
Ciò
che sconvolgeva era soprattutto una cosa: a chi gli obiettava che la realtà era
infinitamente lontana dalle sue descrizioni “case, scuole, chiese ecc.” ed
esasperato gli diceva: « ma dove sono
queste cose? », rispondeva: « Non lo so, ma esistono, perché io le vedo ».
Intanto
i ragazzi crescevano e preoccupavano sempre di più.
« “Devo
riconoscere - scrive don Bosco - che l'affetto e l' obbedienza dei miei
ragazzi toccavano vertici incredibili ». Ma questo rafforzava la voce che
don Bosco, con i suoi giovani, poteva da un momento all'altro dare inizio a una
rivoluzione.
Bisogna
riportarsi al clima politico di allora. Ma d'altronde non aveva quell’uomo
straordinario portato fuori dal carcere, sulla parola e senza nessuna sorveglianza,
per un giorno di sollievo, più di trecento giovani carcerati, riconducendoli a
sera senza che ne mancasse nemmeno uno.
Bisogna
anche capire chi era don Bosco per loro. Un episodio lo rivela
sufficientemente.
Nel
luglio deI 1846 egli ebbe uno sbocco di sangue e svenne, dopo una massacrante
giornata passata all'Oratorio.
In breve: è in fin di vita e riceve l'estrema
unzione. Resta otto giorni tra la vita e la morte.
In quegli otto giorni ci furono ragazzi che,
sotto il sole rovente lavorando sulle impalcature, non toccarono una goccia d'acqua,
per chiedere a Dio la sua guarigione. Si davano il cambio notte e giorno al
Santuario della Consolata per pregare per lui, dopo aver fatto le consuete
dodici ore di lavoro. Alcuni promisero di recitare il rosario per tutta la
vita. Altri di restare a pane e acqua per mesi, per un anno, qualcuno per
sempre.
I medici dicevano che quel sabato don Bosco
sarebbe certamente morto. Gli sbocchi di sangue erano ormai continui, Don Bosco
guarì, impensabilmente.
Li ritrovò tutti - pallidissimo e senza forze
- in una cappella. Disse solo: «La mia vita la devo a voi. D'ora in poi la
spenderò tutta per voi». E passò il resto della giornata ad ascoltarli uno
per uno per cambiare in cose facili e possibili le promesse smisurate che essi
avevano giurato a Dio per la sua guarigione.
Non era solo un'affezione romantica, e
idealizzata, era frutto di una vita spesa in opere e opere.
Impossibile descriverla. Possiamo solo
elencare alcuni dati.
Nel 1847, quando già centinaia di ragazzi
frequentano l'Oratorio, alcuni tra loro, che non sanno dove andare perché non
hanno casa, cominciano a vivere stabilmente con don Bosco e mamma Margherita.
I primi ospiti sono alloggiati in cucina.
Saranno sei alla fine dell'anno; trentacinque nel 1852; centoquindici nel 1854;
quattrocentosessanta nel 1860; seicento nel 1862, fino ad un tetto di
ottocento.
Nel 1845 don Bosco fonda la scuola serale,
con una media di trecento alunni ogni sera.
Nel 1847 un secondo oratorio.
Nel 1850 fonda una società di mutuo soccorso
per operai.
Nel 1853 un laboratorio per calzolai e sarti.
Nel 1854 un laboratorio di legatoria di
libri.
Nel 1856 un laboratorio di falegnameria.
Nel 1861 una tipografia.
Nel 1862 una officina di fabbro ferraio.
Intanto nel 1850 è nato anche un convitto per
studenti, con dodici studenti che diventano centoventuno nel 1857.
Nel 1862 dunque l'oratorio conta seicento
ragazzi interni e altrettanti esterni.
Oltre i sei laboratori ci sono scuole
domenicali, scuole serali, due scuole di musica vocale e strumentale, e trentanove
salesiani che con don Bosco hanno dato inizio a una congregazione religiosa.
Santuario Maria Ausiliatrice (1915-1918-Giulio Valotti, architetto) |
Nel frattempo – a seminario diocesano chiuso -
egli ha curato anche le vocazioni sacerdotali. Al termine della sua vita
(1888), da Valdocco saranno uscite diverse centinaia di preti «nuovi» perché
provenienti dalle classi povere.
Nel frattempo ancora - sempre per i suoi
ragazzi - don Bosco è diventato scrittore: scrive una storia sacra ad uso delle
scuole, una storia ecclesiastica, una storia d'Italia, molte biografie e opere
educative. Una cinquantina di titoli. Ha scritto perfino un volumetto sul
«sistema metrico decimale ridotto a semplicità»: tale nuovo sistema doveva
entrare in vigore nel 1850 e doveva essere insegnato nelle scuole a partire dal
1846, ma il governo non aveva preparato nessun testo. Considera ogni volumetto
«un atto di amore» per la Chiesa e per i suoi ragazzi. Un suo manuale di formazione
per giovani, piuttosto voluminoso, raggiunse nel 1888 la 118a
edizione.
Abbiamo seguito intanto don Bosco fino agli
inizi degli anni '60: manca ancora un quarto di secolo alla sua morte. Per
allora avrà inoltre curato la pubblicazione di 204 volumetti di una «Biblioteca
della gioventù italiana» (con testi latini e greci), avrà aperto i primi cinque
collegi, fondato una congregazione femminile, avrà costruito il Santuario di
Maria Ausiliatrice e la chiesa del Sacro Cuore a Roma, avrà fondato 64 case
salesiane in sei nazioni e missioni in America Latina, e avrà 768 salesiani.
Avrà compiuto viaggi apostolici trionfali in Francia e Spagna, paesi in cui
tutti vorranno conoscere «l’uomo della fede» (titolo con cui è universalmente
noto).
In
Francia resterà quattro mesi, nel 1883, viaggiando dovunque. Quando giunge a
Parigi, Le Figaro scrive che davanti alla sua casa «file di carrozze
stazionano tutto il giorno già da una settimana». Il Cardinale Lavigerie Io
chiama «il San Vincenzo de' Paoli dell'Italia».
Un
particolare significativo: nel 1883 la tipografia di don Bosco era quella
meglio attrezzata di Torino. Nel 1884 alla «Esposizione nazionale
dell'Industria, della Scienza e dell'Arte», don Bosco ebbe a disposizione una
galleria speciale sul cui ingresso si leggeva a caratteri cubitali la scritta:
DON
BOSCO: FABBRICA DI CARTA, TIPOGRAFIA, LEGATORIA E LIBRERIA SALESIANA
Tempio a don Bosco (1961) |
Fu il primo prete espositore in una Esposizione nazionale dedicata
al lavoro. Dice lo storico che chi leggeva la scritta, prima rideva, pensando
di trovare dentro il solito bazar di robe da sacrestia, poi entrava e restava
allibito di poter assistere dal vivo all’intera catena di lavoro. Non era mai
avvenuto a nessuno di poter assistere a tutto il processo con cui dagli stracci
per fare la carta si arriva all’uscita del volume, illustrato con centinaia di
incisioni e ben rilegato. Un giornale di Reggio Emilia scrisse che la galleria
di don Bosco era una delle poche sempre affollate.
Quest'attività
impressionante pone veramente la domanda sul significato storico dell'opera di
don Bosco.
Oggi chiunque può
permettersi, senza rischio, qualunque banalità e qualunque brutale giudizio
quando parla di cose e persone di Chiesa, tanto molti cristiani accettano tutto
e condividono tutto: hanno paura di essere trionfalistici; ogni critica e ogni
deprezzamento della loro storia va loro bene. A volte si fustigano anche da
soli, tanta è la voglia di apparire moderni. Caso mai, se si esagera, sorridono
un po’. Dagli oratori salesiani, in questi 125 anni di storia della
nostra nazione, sono usciti, formati in tutti i sensi, milioni di italiani. Ma
milioni di uomini appaiono «patetici» alle idee di qualcuno, dato che San
Giovanni Bosco non aveva posizioni politiche avanzate ne’ intelligenti analisi
sociali progressiste.
Semplicemente vedeva il
bisogno e interveniva. Ma interveniva su uomini concreti, quelli che la storia
la fanno tutti i giorni anche se sembrano «patetici» di fronte alle grandi
sintesi storiche dei professori.
In un promemoria che lo
stesso don Bosco scrisse a Francesco Crispi si legge:
«Dal registro consta che
non meno di centomila giovinetti, assistiti, raccolti, educati con questo sistema,
imparavano la musica, chi le scienze letterarie, chi arte e mestieri, e sono
divenuti virtuosi artigiani, commessi di negozio, padronI di bottega, maestri
insegnanti, laboriosi impiegati e non pochi coprono onorifici gradi nella
milizia. Molti anche, forniti dalla natura di un non ordinario ingegno,
poterono percorrere i corsi universitari e si laurearono in lettere, in matematiche,
medicina, leggi, ingegneri, notai, farmacisti e simili».
Davanti a don Bosco qualcuno
storce il naso perché in politica - in una situazione politica complessa e
violenta - preferì astenersi da un lato (gli bastava, come diceva, “la
politica del Pater noster”), e dall'altro scelse il principio apparentemente
facile di stare col Papa.
Nell'epoca in cui tutti -
anche gli anticlericali - gridavano: “Viva Pio IX”, perché speravano in un
Papa liberale, don Bosco insegnava ai suoi ragazzi che bisognava invece gridare
“viva il papa”
Egli era, secondo la sua
espressione, attaccato al pontefice “ più che il polipo allo scoglio”.
Interrogato sulla questione
romana, perché prendesse posizione, don Bosco rispondeva:
« lo sono col Papa, sono cattolico,
obbedisco il Papa ciecamente. Se il Papa dicesse ai piemontesi: Venite a Roma,
allora io pure direi: Andate. Se il Papa dice che l’andata dei, piemontesi a
Roma e un furto, allora io dico lo stesso. Se vogliamo essere cattolici,
dobbiamo pensare e credere come pensa il Papa ».
Le questioni e i personaggi
in questione, allora non erano mitizzati come lo sono oggi nei nostri libri dì storia:
apparivano come erano con tutta la loro ambiguità, meschinità. D'altra parte
ancora, l'opera di quei preti che allora si schierarono politicamente «col
popolo, per l'unità» resta nella storia assolutamente irrilevante.
D'altra
parte ancora, don Bosco fu l'uomo di cui tutti, Chiesa e Stato, re e pontefice,
ministri e cardinali, sapevano di potersi servire quando bisognava
assolutamente trovare un accordo.
Quando
bisognò risolvere la questione delle diocesi italiane dopo l'unificazione
(sessanta diocesi erano senza vescovo), le lunghe trattative ebbero don Bosco
come intermediario.
Un altro
episodio significativo: fu proprio il ministro Rattazzi che spiegò
spontaneamente a don Bosco come fondare una congregazione religiosa, nonostante
la soppressione degli ordini religiosi da lui stesso decretata (la famosa legge
Rattazzi del 1855). « Rattazzi - disse don Bosco - volle con me combinare
vari articoli della nostra Regola, riguardanti il modo dì comportarci rispetto
al Codice Civile e allo Stato ».
In pratica
gli insegnò abilmente a fare una congregazione che al suo interno fosse
governata dalle normalI leggi ecclesiastiche e che al suo esterno - rispetto
allo Stato - fosse governata secondo le
leggi civili che regolano le diverse associazioni di mutuo soccorso o altro
genere. L'intuizione geniale di «creare una società religiosa che davanti allo
Stato fosse una società civile» gliela diede Rattazzi stesso. L'idea sorprese
perfino i Vescovi. Nasceva dall'affetto che Rattazzi, anticlericale convinto,
aveva per don Bosco.
Ancora, davanti a don Bosco si
storce il naso perché egli non contestò l'assetto sociale del suo tempo e le
divisioni in classi, ma aiutò i poveri restando dentro quel sistema. Cioè:
chiedendo l'elemosina ai ricchi. Anche questa critica significa ragionare solo
con i principi e non con i fatti. Certo, mentre don Bosco fondava il suo secondo
oratorio, Marx scriveva il Manifesto. Don Bosco aveva un suo giudizio
abbastanza preciso sulla situazione, anche se non rifletteva scientificamente sulla
vastità internazionale del fenomeno pauperista e dei rivolgimenti che si
preparavano.
Ma egli rifiutò di
fare il «prete sociale» e il politico perché sentì che la sua vocazione era
l'intervento immediato, l'amore che subito si rimbocca le maniche e sì mette al
lavoro. C'è chi è chiamato a battersi contro le cause dell'ingiustizia e chi è
chiamato a battersi subito contro i suoi effetti. Ad ognuno la sua vocazione:
tutte sono importanti, quella di chi riflette e prepara analisi e progetti e
quella di chi intanto deve amare, deve accogliere, deve salvare perché i poveri
non possono attendere le grandi analisi e i grandi progetti. «Lasciamo agli
altri ordini religiosi più formati di noi, diceva, le denunce, l'azione
politica. Noi andiamo diritti ai poveri».
D'altra parte, perfino
Pertini scrisse di aver imparato nelle scuole salesiane «un amore senza
limiti per tutti gli oppressi e i miseri: la mirabile vita del vostro Santo mi
ha iniziato a questo amore».
Ed è interessante ancora
sapere che alcuni dei primi contratti d’apprendistato fatti in Italia - con
vere e rivoluzionarie novità sociali - sono scritti e firmati da don Bosco.
Un ultimo aspetto non era
stato finora mai rimproverato a don Bosco: la sua capacità educativa.
Oggi c'è anche chi accusa don
Bosco d'aver avuto una pedagogia «funebre», «regressiva», «un disegno pedagogico
quasi ossessivo».
Nel 1920 un celebre
pedagogista anticlericale e non credente ma onesto, Giuseppe Lombardo Radice,
scriveva ai suoi: «Don Bosco era un grande che dovreste cercare di
conoscere. Nell’ambito della Chiesa…egli seppe creare un imponente movimento di
educazione, ridando alla Chiesa il contatto con le masse che essa era venuta
perdendo. Per noi che siamo fuori della Chiesa e da ogni Chiesa, egli è pure un
eroe, l'eroe dell'educazione preventiva e della scuola-famiglia. I suoi
prosecutori possono essere orgogliosi».
E ancora: «Don Bosco? Il
segreto e in un idea! Le nostre scuole: molte idee. Molte idee può averle anche
un imbecille, prete o non prete, maestro o non maestro. Un’idea e difficile;
un’idea vuol dire un'anima»
Dopo sessant’anni, quelli
che contestano don Bosco hanno evidentemente «moltissime idee». Nel 1877 don
Bosco diede alle stampe un breve fascicolo intitolato: Il sistema preventivo
dell’educazione della gioventù.
Anzitutto
la prima prevenzione era la persona stessa dell'educatore, la sua assoluta
dedizione.
«Ho
promesso a Dio che fino l'ultimo mio respiro sarebbe stato per i miei poveri
giovani - diceva don Bosco. Io per voi studio, per voi lavoro, per voi vivo,
per voi sono anche disposto a dare la vita»
«Fate
conto che quanto io sono, sono tutto per voi, giorno e notte mattina e sera,
in qualunque momento».
La
prevenzione comincia a questo livello di dedizione totale del educatore,
dedizione che don Bosco intendeva nei termini più concreti possibili, fino a esigere
che anche i direttori delle sue case stessero in mezzo ai ragazzi in tutti i
momenti, anche ricreativi: dovevano essere visibili, percepibili, incontrabili,
familiari.
Allora, in
un regime educativo fondato sull'autoritarismo, era una vera e propria
rivoluzione, un'impostazione capovolta. La disciplina non doveva essere
ottenuta col castigo, ma con la persuasione e non aveva bisogno di «schieramenti»:
non aveva cioè come ideale la fila ben ordinata, ma l'assembramento intorno
all'educatore.
Il
corrispondente di un giornale francese (Pèlerin) nel 1883 scrisse in un
suo articolo:
« Noi
abbiamo visto questo sistema in azione. A Torino gli studenti formano un
grosso collegio, in cui non si conoscono file, ma da un luogo all'altro si va a
mo' di famiglia. Ogni gruppo circonda un insegnante, senza chiasso, senza
irritazione, senza contrasti. Abbiamo ammirato le facce serene di quei ragazzi
né ci potevamo trattenere dall'esclamare: qui c'è il dito di Dio! ».
L'allegria
doveva essere la molla naturale che agganciava il soprannaturale: «Devi
sapere - spiegava il piccolo Domenico Savio a un compagno appena arrivato - che
qui facciamo consistere la santità nello stare molto allegri».
L'imposizione
doveva essere abolita anche là dove era consacrata dall'uso e dall'importanza
della questione: allora non c'era ambiente educativo giovanile in cui non
fossero obbligatorie la confessione e la comunione.
Don Bosco
confessava e comunicava tutti i ragazzi, ma nessuno era tenuto a farlo. Anzi
raccomandava sempre di non annoiarli con gli obblighi. Solo incoraggiarli.
Semplicemente gli dimostrava che, senza la pace del cuore, non potevano essere
veramente felici, veramente ragazzi.
D'altra
parte don Bosco era profondamente convinto che senza familiarità con Dio, senza
«religione», non è possibile educare.
«L'educazione,
diceva, è cosa del cuore e Dio solo ne è il padrone e non potremo riuscire a
niente se Dio non ci dà in mano la chiave di questi cuori». E aggiungeva:
«Soltanto il cattolico può con successo applicare un metodo preventivo».
Riusciva a
convincere di questo perfino qualche protestante che andava a trovarlo per imparare.
Le espressioni che possono sembrare «intolleranti» fanno parte appunto di
quell’«idea» totalizzante che fa un vero educatore. L'idea che don Bosco ha
dell’educatore è totale, totale l'idea della sua attività, totale l’idea del
bisogno educativo.
Non c'è un
aspetto che egli ritenta di dover trascurare o che sia indegno dell'educatore,
sia che si tratti di far da mangiare, o di tagliare un abito, o partecipare a
un gioco o insegnare un mestiere, o istruite, o far musica, o pregare o
predicare, o confessare, o dare l’eucaristia.
Nel 1884,
quando il santo era ancora vivente usci una biografia di don Bosco, scritta da
un autore francese. Diceva: « Fino ad ora i fondatori di Congregazioni e di
Ordini religiosi si sono proposti un fine speciale in seno alla Chiesa essi vi
hanno praticato la legge che gli economisti moderni chiamano la legge della
spartizione del lavoro. Don Bosco sembra aver concepito I’idea di far compiere
alla sua umile comunità tutto il lavoro ».
Ragione,
religione, amorevolezza era d trinomio su cui don Bosco intendeva fondare la
sua opera preventiva.
All'educando
bisognava offrire tutto intero lo spazio della vita. Soprattutto - amorevolezza
aveva una connotazione particolare. Si può infatti amare molto e combinare
poco.
Scriveva in una
sua celebre lettera da Roma, nel 1884: «Ma i miei giovani non sono amati
abbastanza? Tu sai se io li amo. Tu sai quanto per essi ho sofferto e tollerato
nel corso di ben quarant'anni e quanto tollero e soffro anche adesso. Quanti
stenti, quante umiliazioni, quante opposizioni, quante persecuzioni per dare ad
essi pane, case, maestri, e specialmente per procurare la salute delle loro
malattie.
Ho fatto
quanto ho saputo e potuto per coloro che formano l'affetto di tutta la mia
vita... Che cosa ci vuole ancora dunque?».
E la
risposta era: «Che i giovani non solo siano amati ma che essi stessi sappiano
di essere amati».
Ai tempi
di don Bosco ciò era talmente vero che un suo ragazzo - divenuto adulto -
rispondeva a chi lo interrogava: «Noi vivevamo d'affetto».
Questa è
la genialità di don Bosco: non basta amare, bisogna far vedere che si ama,
renderlo percepibile: «Un amore che si esterna in parole, atti e perfino
nell'espressione degli occhi e del volto».
E questo
esige un'ascesi profonda, un coinvolgimento totale o quotidiano.
Nel 1883
andò a trovarlo un pretino lombardo, incuriosito di ciò che sentiva dire di
lui. Diventerà Papa Pio XI, colui che proclamerà «Santo» don Bosco.
Dovette
aspettare, perché don Bosco aveva radunato i direttori delle sue case e parlava
con loro. Intanto il pretino osservava. Quasi cinquant’anni dopo - ormai Papa -
raccontava così quel!' incontro:
« C'era
gente che veniva da tutte le parti, chi con una difficoltà chi con un'altra. Ed
egli in piedi come se fosse una cosa di un momento, sentiva tutto, afferrava
tutto, rispondeva a tutto. Un uomo che era attento a tutto quello che accadeva
attorno a lui e nello stesso tempo si sarebbe detto che non badava a niente,
che il suo pensiero fosse altrove. Ed era veramente così: era altrove, era con
Dio. E aveva la parola esatta per tutti, così da meravigliare. Questa la vita
di santità, di assidua preghiera che don Bosco conduceva tra le occupazioni
continue e implacabili ».
Ma questa
era appunto una capacità educativa - su di sé e sugli altri - divenuta ormai
santità.
Negli ultimi mesi si trascinava a fatica: «Dove andiamo, don Bosco?»
gli dicevano. Rispondeva: «Andiamo in Paradiso»
Fu proclamato Santo alla
chiusura dell’anno della Redenzione, il giorno di Pasqua del 1934.
E fu il primo Santo della
storia per il quale, il giorno dopo la canonizzazione, anche la Stato tenne
una celebrazione in Campidoglio con discorso del ministro della Pubblica
Istruzione.
Era anche questo un riconoscimento di come ormai don Bosco
appartenesse a tutti. Fino a oggi.