La Civiltà Contro l'Uomo
La nostra storia vista prendendo Darwin sul serio
di Michele Vignodelli



Dalla povertà alla miseria

Dalla povertΰ alla miseria

   Sono ancora diffusi molti pregiudizi sulla vita degli uomini preistorici, secondo cui vivevano come dei bruti privi di ogni moralità, in una strenua lotta contro belve feroci, fame, malattie e avversità d'ogni genere, interrotta soltanto da una morte precoce. Ma le ricerche archeologiche ed etnologiche ci forniscono oggi un quadro completamente diverso. Tra i cacciatori-raccoglitori le società erano praticamente egualitarie, la criminalità era quasi sconosciuta, mentre la solidarietà interpersonale era estremamente sviluppata, in un contesto etico di profondo rispetto e comunione con la natura. Il cibo era abbondante, vario e facile da procurarsi (è stato calcolato che una media di due ore di piacevole lavoro al giorno era più che sufficiente); tanto che nel passaggio all'agricoltura si osserva sempre una drastica diminuzione della statura media, indice di un forte peggioramento qualitativo della dieta. Intorno all'8000 a.C. la statura media dei cacciatori-raccoglitori in Grecia e Turchia era di ben 178 cm per gli uomini e di 168 cm per le donne. Con l'arrivo dell'agricoltura la statura calò nettamente, raggiungendo nel 4000 a.C. un valore di soli 160 cm per gli uomini e di 155 cm per le donne. I greci e i turchi contemporanei non hanno ancora recuperato l'altezza dei loro lontani progenitori. Una situazione analoga è stata riscontrata in ogni parte del mondo. Questo benessere spesso non era così evidente nelle ultime popolazioni dedite ancora a questo stile di vita, ma solo perché erano state relegate negli ambienti più inospitali e meno produttivi del globo, come i deserti, la tundra artica o foreste paludose. “Mentre gli agricoltori si concentrano nella produzione di piante ricche di carboidrati, come il grano e le patate, la varietà di piante e animali selvatici che figurano nella dieta dei cacciatori-raccoglitori fornisce più proteine e un equilibrio ottimale delle altre sostanze nutritive. Gli agricoltori si procuravano calorie a buon mercato, pagandone però il prezzo con una nutrizione povera di molti elementi essenziali. Inoltre essi erano soggetti a carestie periodiche, dato che dipendevano da pochi tipi di piante” (J. Diamond). La carie dentaria, il cancro e il diabete erano pressoché inesistenti; tutte le grandi malattie infettive non esistevano, essendosi diffuse solo attraverso le mandrie di animali domestici e la densa promiscuità urbana. Questi flagelli colpiscono solo società affollate e sedentarie, formate da individui malnutriti, i cui membri continuano a contagiarsi a vicenda, anche attraverso le acque di rifiuto. Nelle piccole popolazioni una malattia come il morbillo si estingue da sé una volta che abbia immunizzato la maggior parte dei potenziali ospiti; può mantenersi sempre attivo solo in popolazioni numerose, con almeno qualche centinaio di migliaia di individui. Tali epidemie di massa non avrebbero potuto persistere in piccole bande sparse di cacciatori, che levavano spesso il campo per trasferirsi in altre zone alla ricerca di nuove risorse. In origine queste malattie non erano quindi proprie della specie umana, ma di animali che già vivevano da milioni di anni in densi branchi, come gli erbivori ungulati. Una volta addomesticati buoi, maiali, cavalli e pecore gli uomini cominciarono a vivere a stretto contatto con loro e i loro agenti patogeni, che in breve tempo si modificarono in ceppi specificamente adattati al genere umano. Tubercolosi, lebbra, malaria e colera dovettero attendere l'avvento dell'agricoltura, mentre vaiolo, peste e morbillo apparvero solo negli ultimi millenni con l'origine delle città, dove esistevano condizioni di affollamento e sporcizia ancora peggiori. Bisogna attendere l'inizio del nostro secolo per poter considerare le città europee autosufficienti dal punto di vista demografico; fino ad allora un flusso costante di immigranti dalle campagne era necessario per bilanciare l'altissimo tasso di mortalità dovuto alle malattie infettive. Oltre alla malnutrizione, alla morte per fame e alle malattie epidemiche, l'agricoltura portò all'umanità un'altra maledizione: la divisione in classi. I cacciatori-raccoglitori accumulavano ben poche risorse e non possedevano fonti di cibo concentrate, quali possono essere un frutteto o una mandria di bestiame: vivevano invece delle piante commestibili e degli animali selvatici che riuscivano a procurarsi ogni giorno, e tutti – esclusi i bambini piccoli e i vecchi – partecipavano alla raccolta o alla caccia. Non potevano quindi avere re, né professionisti a tempo pieno, né classi di parassiti sociali che si ingrassino sul lavoro degli altri. Le loro semplici società erano praticamente egualitarie; come si è potuto osservare in quelle sopravvissute fino a tempi recenti, solo in situazioni di emergenza un membro particolarmente abile ed esperto assumeva un ruolo di guida, ma finita l'emergenza rientrava immediatamente nei ranghi, visto che questo ruolo non solo comportava un notevole impegno, ma in tempi normali generava anche impopolarità e ostracismo.
   Per queste ed altre ragioni, l'aggressione tra gruppi era un fenomeno modesto e limitato. Le bande di cacciatori talvolta si scontravano, ma i vincoli ecologici alla densità di popolazione ne rendeva il numero esiguo e, soprattutto, piuttosto equilibrato; dato il livello praticamente uguale di tecnologia e di dimensione dei gruppi, le probabilità di successo erano all'incirca le stesse, e quindi l'aggressione non esercitava che una moderata attrattiva. Se a queste condizioni limitative si aggiunge l'assenza di beni immagazzinati e bestiame che valesse la pena rubare, l'attrattiva del saccheggio doveva essere alquanto limitata.
   A causa dell'equilibrio di forze, il conflitto era quasi sempre incanalato in forme altamente ritualizzate, che lo rendevano più simile a una competizione sportiva che a una guerra in senso moderno. Con l'agricoltura la pratica bellica ebbe invece un vero e proprio decollo, sia qualitativo che quantitativo: la drastica riduzione dei vincoli ecologici alla dimensione delle società favoriva le più grandi e rigidamente organizzate, che potevano avvantaggiarsi dei beni immagazzinati dagli sconfitti e soprattutto della loro riduzione in schiavitù. Gli stati, le classi dominanti, la schiavitù, i soldati di professione, le corti e tutti gli altri annessi e connessi della tirannia si rinforzavano a vicenda, e cominciò così una folle rincorsa verso società sempre più grandi e tirannicamente organizzate per combattere battaglie sempre più immani e frequenti. Il principio che giustificava la tirannia interna fu la difesa dall'aggressione esterna, e più gli stati crescevano in dimensioni e potenza, più coercitive e parassitarie divenivano le loro classi dominanti nei confronti delle popolazioni che governavano. Mentre i cacciatori-raccoglitori mantenevano la loro popolazione più o meno stabile, sia passivamente, praticando un allattamento assai prolungato, che attivamente, con semplici pratiche anticoncezionali, nelle bellicose società agricole, già popolose di per sé, si faceva di tutto per aumentare ancora la natalità, arrivando a vietare severamente il sesso non riproduttivo. La loro spinta espansionistica richiedeva infatti eserciti sempre più numerosi e potenti.
   Lo stato di guerra quasi permanente ebbe una sgradevole conseguenza: le donne diventarono prigioniere dei maschi. “Le ragioni della schiacciante superiorità dei maschi nelle società caratterizzate da guerre frequenti sembrano relativamente chiare. La vita dei membri del gruppo dipende in gran parte dai maschi e dalla loro esatta valutazione delle condizioni sociali e politiche. I compiti dei maschi durante i periodi di guerra sono semplicemente più importanti per la sopravvivenza del gruppo di quelli svolti dalle femmine. Inoltre, l'aggressività maschile e l'uso della forza esercitata in guerre e combattimenti rendono l'opposizione delle femmine alle decisioni dei maschi non solo inutile ma anche pericolosa” (B. Hayden). “Le società organizzate in villaggi e dipendenti almeno in una certa misura da una forma elementare di agricoltura sono spesso caratterizzate da guerra e supremazia maschile a un livello molto più elevato di quello delle società organizzate in bande che vivono di raccolta. Per rendere chiaro questo contrasto si possono prendere a esempio gli Yanomami, una popolazione molto studiata che abita nelle zone di confine tra Brasile e Venezuela. I ragazzi yanomami iniziano molto presto a esercitarsi nella guerra.[…] Data la necessità di mantenere questa intensa attività guerresca, le relazioni fra gli uomini e le donne yanomami sono molto gerarchizzate e androcentriche. I mariti picchiano le mogli se sono disobbedienti, ma soprattutto in caso di adulterio, quando arrivano a mutilarle.” (M. Harris). Come sappiamo, all'apice di questo processo di schiavizzazione le donne furono trasformate letteralmente in beni mobili, che potevano essere venduti, scambiati e uccisi per minime colpe. La condizione femminile è decisamente migliorata, sotto questo aspetto, dove la pratica bellica è fortemente diminuita a causa dello sviluppo di armi sempre più apocalittiche. Questa stessa tecnologia, inoltre, ha affievolito parecchio, in ogni campo, l'importanza della forza fisica maschile. Ma per le donne sono sorti nuovi problemi, forse persino più devastanti psicologicamente, per l'impossibilità di conciliare la loro irriducibile vocazione materna e “sociale” con le richieste di una società tecnologicamente iperspecializzata e altamente competitiva.
   Il rapporto tra i sessi in tutte le società post-agricole, anche primitive, contrasta vivamente con quello dei raccoglitori. Gli ultimi raccoglitori veramente “puri” tuttora esistenti, i Sentinelesi delle Andamane, un centinaio di individui viventi su una piccola isola nell'Oceano Indiano, furono contattati dagli antropologi per la prima e finora unica volta nel 1991; in quell'occasione mostrarono, oltre a perfette condizioni fisiche (sembra che non conoscano nemmeno il raffreddore) una profonda intimità tra i sessi, con uomini e donne che si tenevano continuamente abbracciati. Una solidarietà simile era diffusa in molti altri popoli di raccoglitori. Essi evidentemente erano ancora immuni non solo al raffreddore, ma anche alla feroce ideologia del “guerriero”, lungamente assente dalla famiglia per le sue campagne di conquista, spietato con i nemici e con le mogli cronicamente infedeli.
   Nelle società primarie esisteva un'ampia libertà sessuale: i giochi sessuali dei bambini venivano incoraggiati, i genitori si accoppiavano apertamente di fronte a loro e gli adulti, fin dalla pubertà, avevano non di rado più di un rapporto sessuale al giorno. Tutto questo era in piena sintonia con l'evidente ipersessualità umana, che ha un notevole parallelo nello scimpanzé nano o bonobo, noto anche per la sua abilità nell'uso di simboli e la capacità di camminare in posizione semi eretta. I membri di questa specie si accoppiano diverse volte al giorno nelle più svariate posizioni, per tutto l'anno; come le femmine umane, quelle di bonobo hanno un grosso clitoride e sono perennemente ricettive, anche quando non sono fertili, mentre i maschi, come gli uomini, hanno un pene insolitamente grande. La loro intensa attività erotica, molto promiscua (ma con un attento evitamento dell'incesto), costituisce il vero cemento delle loro piccole società.
   Ciò che ci distingue da loro è la maggiore importanza del ruolo paterno nell'allevamento dei figli, che fa sì che noi abbiamo dei legami sessuali più intensi e personalizzati. Ma gli studi sulle società di raccoglitori più integre sopravvissute fino a tempi recenti mostrano che questi legami non venivano presi così terribilmente sul serio come sarebbe avvenuto in seguito: gli uomini avevano una spiccata tendenza alla poligamia, mentre le donne erano sessualmente molto libere ed estroverse (anche se più prudenti e selettive degli uomini) e tendevano anch'esse a concedersi a più uomini, per avere più fonti di cibo e protezione. Da questo si capisce che una certa conflittualità amorosa è per noi del tutto naturale, anche se nelle società primarie non comportava mai l'oppressione e la segregazione delle donne. I legami affettivi tra tutti i membri del gruppo erano molto forti, così i bambini godevano di cure e attenzioni da parte di tutti i membri della piccola società, senza che la volatilità dei legami coniugali producesse alcun trauma. La forte solidarietà tra le donne del gruppo è confermata dalla perfetta sincronizzazione del ciclo ovulatorio (come accade tuttora nelle piccole comunità femminili tipo collegio), volta a vincolare i maschi a una certa fedeltà coniugale (durante l'ovulazione le donne sono sessualmente più intraprendenti e risultano più attraenti per i maschi), facilitate in questo anche da un numero di occasioni e partner potenziali di gran lunga più limitati che nelle società urbane.
   D'altra parte, la scoperta recente che anche gli spermatozoi umani, come quelli di scimpanzé, mostrano una strategia difensiva di barriera contro l'eventuale arrivo di spermatozoi estranei (evidentemente un'eventualità non infrequente) dà una solida conferma fisiologica della relativa promiscuità sessuale umana in condizioni naturali. La società umana ancestrale era certamente più simile a quella degli scimpanzé nani che a quella rigorosamente monogamica dei gibboni, e in realtà lo è sempre stata, anche sotto la pesante spada di Damocle di una morale disumana e oppressiva. Più precisamente, gli esseri umani sono tipici rappresentanti di quella che viene chiamata dagli etologi “strategia riproduttiva mista”, una monogamia “flessibile” insolita tra i primati, ma comune in altri gruppi, come gli uccelli.
   In seguito all'esplosione demografica neolitica l'adulterio maschile diventò molto più frequente di prima: la sua incontrollabile espansione si deve essenzialmente alla incredibile quantità di nuove ed esotiche “bellezze” che ogni maschio incontra quasi ogni giorno, lontano dall'occhio attento della consorte e dei suoi parenti. Successivamente alla rivoluzione neolitica sono quindi intervenute ovunque pesanti restrizioni, volte a impedire che in società più vaste, numerose e geneticamente disperse si arrivasse alla totale disgregazione della famiglia e all'abbandono di figli dalla paternità troppo incerta, con l'inevitabile segregazione delle donne. Inoltre, lo stato di crisi cronica e il conseguente condizionamento ideologico militarizzava la cultura con una “sublimazione” delle energie verso obiettivi condizionati legati alla conquista, al potere, al successo, indispensabile per sostenere l'escalation bellica e competitiva legata allo sviluppo dell'agricoltura. Così solo in remote società di raccoglitori o pescatori, spesso confinate su piccole isole come quelle del Pacifico meridionale, ha potuto conservarsi fino all'arrivo dei missionari una naturalezza sessuale simile a quella ancestrale. In tutto il resto del mondo la frequenza della masturbazione tra i maschi e le femmine ha presto raggiunto livelli riscontrabili solo tra i primati segregati negli zoo o nei laboratori, mentre la prostituzione, lo stupro, la clausura delle donne, la castità sacrificale dei guerrieri, dei sacerdoti e degli atleti sono diventati fenomeni universali.
   Un altro disastro è stata la sostituzione della famiglia estesa con quella nucleare, una conseguenza dell'urbanesimo e dell'inseguimento del “successo” personale, che esige libertà dai vincoli di parentela. La grande famiglia tradizionale rappresenta il legame con il passato, che per la nostra cultura utopistica è il “male” per definizione, a cui fuggire in ogni modo per inseguire nuove, radiose mete di progresso (come non ricordare le parole di Gesù: “chi non odia sua padre, sua madre e i suoi fratelli non è degno di me”, o la dura esortazione rivolta al discepolo che voleva andare al funerale di suo padre: “lascia che i morti seppelliscano i loro morti. Tu segui il Regno di Dio”).
   La ricerca del “partner dei sogni” con cui vivere un eterno idillio romantico a due non è che un altro tra i molti lavaggi del cervello che abbiamo subito da parte della cosiddetta “civiltà” per renderci più disponibili allo sradicamento dal tradizionalismo della comunità familiare: l'idea che esista una sola persona al mondo con la quale sia possibile essere uniti a tutti i livelli. La sua personalità viene idealizzata al punto da far scomparire qualsiasi difetto e contraddizione, per farsi travolgere da un'ossessione totalizzante quanto effimera. Il risultato è il dipolo claustrofobico della coppia, in cui finiscono per esplodere tutte le infinite frustrazioni dell'uomo civilizzato: un teatrino privato della crudeltà, in cui si recita ogni sera la tattica e la strategia della presa di potere, la stessa che si vive nel mondo esterno, nella lotta spietata per il successo. Tra tutti i cacciatori-raccoglitori sopravvissuti fino a tempi recenti non esisteva l'assurda aspettativa culturalmente indotta dell'eterna infatuazione romantica, così quando una donna non era più soddisfatta della sua unione con un uomo lo lasciava semplicemente senza ulteriori problemi. Le coppie non costituivano una famiglia, e quindi l'eventuale separazione dei genitori non creava nessun trauma sui figli, abituati a chiamare “papà” e “mamma” tutti i membri adulti della piccola società familiare.
   Uno dei principali elementi di attrazione della metropoli è stata anche la apparente possibilità di trovare “l'anima gemella” tra migliaia di partner potenziali; oggi però sappiamo bene da numerosi studi che i migliori risultati matrimoniali si realizzano tra persone geneticamente e culturalmente simili, quindi le migliori possibilità di trovare una persona giusta si avevano proprio nelle piccole comunità ancestrali. Nella nostra attuale società geneticamente e culturalmente dispersiva è diventato enormemente più difficile.
   Il rapporto tra i sessi sta avviandosi a un vero e proprio disfacimento, con conseguenze gravissime, già ben visibili, sul nostro equilibrio esistenziale. Ciò è dovuto in ultima analisi al fatto che le differenze fisiche e psichiche tra maschi e femmine non hanno più alcun senso funzionale. La società agricola tradizionale era fondata sulla schiavizzazione domestica delle donne, ma almeno i ruoli erano ancora chiari e funzionalmente coerenti, sia pure in modo deforme e paradossale; oggi invece la società impone a tutti la stessa sfrenata competitività, così che le donne sono costrette ad assumere l'atteggiamento predatorio di tipo “maschile”. D'altra parte il surplus maschile di forza fisica è diventato del tutto inutile. Ciò che conta è solo la rincorsa drogata degli estremi più spettacolari, con la continua promozione attraverso i media di donne e uomini superlativi e artefatti, insieme a donne che sembrano uomini e uomini che sembrano donne. Si capisce perciò come sia sempre più difficile e penoso vivere la propria identità di genere, che sa sempre più di “vecchio” e stantio. Ciò ha effetti pesantissimi sulla nostra vita affettiva. Il pieno godimento dell'attrazione uomo-donna era basato su una solida identità di genere, radicata in una intera esperienza di vita in sintonia coi nostri corpi e le nostre fondamentali attitudini di maschi e di femmine. Oggi che questa sintonia non c'è più, che siamo solo delle caricature umane attaccate alle macchine, siamo avviati inesorabilmente verso una frammentazione onanistica del sesso, fatta di effimere suggestioni estemporanee, perverse, drogate, mediate sempre più dalla tecnologia e dalla logica del consumo.

   La comparsa di alcuni degli aspetti più feroci dell'umanità è strettamente connessa all'agricoltura: oltre alla guerra, le rare pratiche del cannibalismo, della caccia alle teste, dei sacrifici umani si riscontrano esclusivamente in società agricole o proto-agricole. Il cannibalismo veniva praticato spesso nelle società agricole primitive, già aggressive ma non ancora sufficientemente grandi e organizzate per il controllo e lo sfruttamento degli schiavi, dove si soffriva a causa di una penuria cronica di proteine. La comparsa dei sacrifici umani coincide con la tendenza dei popoli giunti a uno stadio agricolo più avanzato a credere in dei volubili che devono essere adorati e placati; si tratta di uno sviluppo chiaramente associato con l'esperienza dell'istituzione di un capo tribù e della disuguaglianza sociale, oltre che dei ricorrenti fallimenti delle colture. La religiosità ancestrale era di tipo panteistico, espressione di una totale integrazione dell'uomo nella natura, in cui il divino si nascondeva in ogni roccia, in ogni albero; con l'agricoltura il mondo naturale diventa un nemico, che spesso distrugge i raccolti con siccità e inondazioni, o comunque li infesta con erbacce e parassiti; Dio diventa così una proiezione celeste del Capo, ben distinto dal mondo naturale, che assume una connotazione demoniaca. La sottomissione nei suoi riguardi si esprime piegando il capo, stringendo insieme le mani in un gesto di preghiera, inginocchiandosi, fino a una prosternazione completa accompagnata da lamenti; lo stesso repertorio di sottomissione rituale che è preteso dai sovrani.
   Anche tutte quelle forme estreme di deformazione o mutilazione dei corpi che la nostra cultura identifica immediatamente con il “primitivo”, come dischi labiali, scarnificazione, deformazione del cranio, non si riscontrano mai tra i cacciatori-raccoglitori, mentre sono caratteristiche degli agricoltori primitivi, spesso associati a cruenti “riti di passaggio” in cui diventano l'esibizione permanente dello speciale coraggio, bellicosità o sottomissione richiesti da queste società aggressive e maschiliste. Verso l'esterno sono esibizioni della loro superiorità “civile” e della loro ferocia rispetto ai rozzi raccoglitori loro vicini che ne sono privi. Questi segnali di status, di imposizione aggressiva e di sottomissione sono ben visibili anche nel nostro abbigliamento, soprattutto nella giacca maschile dalle spalle squadrate (imposizione) e nel collare della cravatta (sottomissione). Non a caso le spalle imbottite furono subito assunte dalle donne quando fecero il loro ingresso nel mondo altamente competitivo degli affari. Il profondo, cronico malessere giovanile sta facendo ritornare di moda persino le più classiche forme di mutilazione esibizionistica. Tutte le forti modificazioni dell'aspetto fisico sono divise militari, sono l'espressione delle forze oppressive che irreggimentano i popoli “civili” coltivando il loro narcisismo, trasformando i loro membri in feroci mastini e insieme pecore obbedienti.

   Il fatto che i cacciatori-raccoglitori fossero dei perfetti amministratori delle risorse naturali è confermato da innumerevoli resoconti che mostrano l'attenzione e il rispetto sacrale nei confronti di tutti gli animali e le piante (persino verso i predatori). Stiamo cominciando solo ora a renderci conto di quanto fossero raffinate le politiche conservazionistiche dei popoli cosiddetti “primitivi”, osservando ad esempio come le indicazioni dei nostri tecnici agronomi per la “razionalizzazione” del pascolo hanno distrutto habitat millenari in Africa e altrove.
   Così raccontava uno di questi “primitivi”: “è nostro costume che, se un giorno un cacciatore uccide un piccione in una direzione dal villaggio, attenda una settimana prima di andare di nuovo a caccia di piccioni, e poi vada nella direzione opposta”. Quando gli europei arrivarono in Nord America trovarono immensi branchi di erbivori oculatamente sfruttati dalle popolazioni locali: i bisonti formavano un peloso tappeto sulle praterie, i fiumi brulicavano di castori e le colombe migratrici oscuravano il cielo con stormi di milioni di individui (diversi osservatori lo descrissero come uno spettacolo incredibile e impressionante). Nel giro di qualche decennio i bisonti furono ridotti a poche centinaia e le colombe migratrici (l'uccello più abbondante del mondo, con una popolazione di diversi miliardi di individui concentrata negli Stati Uniti orientali) si estinsero del tutto. In Africa, nella terra dei boscimani, non era difficile trovarsi in situazioni incredibili come quella descritta nel 1888 da dei naturalisti inglesi: “Partimmo all'alba, e ben presto ci trovammo sommersi in un vero mare di antilopi. Il dottor Gibbons capì subito che era impossibile contarle, ma stimando che in un ettaro potessero esserci ventimila animali, arrivò a calcolare che in cinquemila ettari gremiti di antilopi ci sarebbero stati cento milioni di animali: “Quanti ce ne saranno, dunque, nelle miglia e miglia che vediamo gremite in tutte le direzioni, fin dove arriva la vista?”. Nell'impossibilità di fare il calcolo, desistette dal proposito. Dopo colazione ripartimmo, e per più di quattro ore e mezza cavalcammo in mezzo alle antilopi, che si spostavano solo di quel tanto che bastava per lasciarci passare…”. Talvolta capitava che persino dei leoni venissero calpestati a morte dalle orde migranti degli erbivori.
   È noto però che anche i cacciatori paleolitici potevano portare all'estinzione delle specie animali: questo accadeva esclusivamente quando raggiungevano delle isole remote o dei continenti isolati dove incontravano una fauna sconosciuta e impreparata all'impatto con un predatore efficiente come l'uomo, che in questo non è diverso da tutti gli altri predatori. Quando si sollevò l'istmo di Panama i predatori placentati del Nord raggiunsero il Sudamerica e provocarono l'estinzione di molte tra le più grosse specie locali, in modo simile a quello che accadde quando l'uomo arrivò per la prima volta nelle Americhe, in Australia o in Sardegna. Questi fenomeni erano comunque eccezionali e circoscritti; l'equilibrio doveva ristabilirsi rapidamente. Inoltre, colpivano soltanto le specie più grandi e vistose, lasciando indenne l'ecosistema nel suo insieme, differenziandosi in questo profondamente dall'impatto dell'uomo agricoltore, che ha trasformato gran parte della Terra in un deserto ambientale o in un deserto e basta.
   Alle soglie della rivoluzione neolitica anche la rapida diffusione culturale di nuove tecniche di caccia portò un'ondata generalizzata di estinzioni, ma questo coincise proprio con l'origine dell'agricoltura e di tutti i nostri grandi problemi, come vedremo.

   Tutte queste nuove acquisizioni ridanno una notevole attualità alle antiche speculazioni sulla perduta Età dell'Oro, fin qui ritenute per lo più delle ingenue idealizzazioni alienate. Molte chiaramente lo furono, soffermandosi su aspetti favolosi, paradisiaci e sovrumani; ma altre, più equilibrate, appaiono ora come ricostruzioni incredibilmente precise e quasi profetiche:
   “ La terra allora non era coltivata, ma era come Dio l'aveva ornata, e portava spontaneamente ciò da cui ciascuno traeva sostentamento. Nessun re né principe aveva ancora strappato criminalmente il bene altrui. Tutti erano eguali e non avevano nulla in proprio; conoscevano bene la massima che l'amore e l'autorità non si fecero mai compagnia e non abitarono mai insieme; essi sono disuniti da colui che domina.
   Gli antichi si tenevano compagnia, esenti da ogni catena o costrizione, tranquillamente, onestamente, e non avrebbero dato la loro libertà per l'oro dell'Arabia o della Frigia… Tuttavia Inganno venne, lancia in resta, con Peccato e Disgrazia che non si curano di Sufficienza; Orgoglio, che la disdegna egualmente, apparve con il suo seguito: Cupidigia, Avarizia, Invidia e tutti gli altri vizi. Fecero uscire Povertà dall'inferno, dove era rimasta per tanto tempo che nessuno sapeva niente di lei. Maledetto il giorno esecrando in cui Povertà venne sulla Terra!…
   Ben presto quei maligni, forsennati di rabbia e di invidia nel vedere gli uomini felici, invasero tutta la Terra, seminando discordie, liti, controversie e conflitti, querele, dispute, guerre, maldicenze, odi e rancori, e siccome andavano pazzi per l'oro, fecero scavare la terra per trarne dalle sue viscere i tesori nascosti, metalli, pietre preziose…
   Appena il genere umano fu in preda a questa banda, cambiò la sua prima maniera di vivere; gli uomini non smisero di far male; diventarono falsi e truffatori, si affezionarono alle loro proprietà, divisero perfino il suolo e per la divisione segnarono dei limiti, si combattevano fra loro togliendosi quello che potevano; i più forti ebbero le parti maggiori…
   Allora si dovette cercare qualcuno che sorvegliasse le capanne, arrestasse i malfattori e rendesse giustizia a coloro che si lamentavano, e al quale nessuno osasse contestare l'autorità; allora si riunirono per eleggerlo. Scelsero fra loro un grande contadino, il più forte che potessero trovare, e lo fecero principe e signore. Questi giurò di salvaguardare la giustizia e di difendere le loro capanne, se ciascuno personalmente gli avesse dato di che vivere sui propri beni, ed essi acconsentirono… Si dovette riunire di nuovo il popolo e imporre la taglia a ciascuno, per fornire dei sergenti al principe. Essi accettarono allora la taglia in comune, gli pagarono rendite e tributi e gli concessero vaste terre. Questa è l'origine dei re, dei principi terrieri…
   Da quel momento gli uomini ammassarono dei tesori. Con l'oro e l'argento, metalli preziosi e malleabili, fabbricarono vasellame, monete, fibbie, anelli, cinture; con il ferro resistente forgiarono armi, coltelli, spade, alabarde, lance e cotte di maglia per combattere i loro vicini. Nello stesso tempo innalzarono torri e palizzate e mura con pietre tagliate; fortificarono città e castelli e costruirono grandi palazzi scolpiti, poiché quelli che erano in possesso di ricchezze avevano paura che fossero loro rubate furtivamente o con la forza. Da allora furono molto più da compiangere quegli uomini sventurati, poiché non ebbero più alcuna sicurezza dal giorno in cui si appropriarono per cupidigia di ciò che prima era in comune come l'aria e il sole” (Roman de la Rose, XIII secolo).

   La prova più convincente della superiorità della vita pre-agricola, perfino sulla nostra post-industriale, è nel fatto che tutto il nostro corpo e la nostra mente sono profondamente adattati a quel genere di vita, che abbiamo condotto per un tempo immensamente più lungo della breve parentesi successiva, del tutto insignificante sul piano evoluzionistico. Tutte le nostre attitudini e disposizioni emotive, affettive e appetitive nascono lì, e lì trovano la loro espressione più propria e più piena. Ciò significa senza ombra di dubbio che quella vita, per quanto a noi viziati occidentali possa apparire “rozza” e scomoda, era di gran lunga più appagante emotivamente di qualsiasi altra, storicamente data o anche solo ipotizzabile. Il corpo e la mente umana, nonostante i dolori e i pericoli (anzi, anche per quelli) sono perfettamente adattati a quel mondo ancestrale, e questo è il motivo per cui troviamo nella natura una bellezza incomparabile a quella di qualsiasi artefatto tecnologico. In questo senso l'Homo sapiens è conforme a un principio fondamentale dell'evoluzione organica, noto come “selezione dell'habitat”: tutte le specie preferiscono l'ambiente nel quale i loro geni si sono assemblati. Solo che, come vedremo in seguito, la civiltà tecnologica non è composta dalla sola specie Homo sapiens. È questa l'unica ragione logicamente sostenibile per cui ci troviamo intrappolati in un ambiente così estraneo e disumano.
   L'abitante della metropoli, per quanto profondamente suggestionato e ipnotizzato possa essere dalle realizzazioni dell'astrazione e della costruzione di strumenti, trae ancora i suoi piaceri più profondi dalle attività più semplici e ancestrali: mangia, fa all'amore e partecipa a feste in cui può ridere, ballare, fare smorfie e pettegolezzi. Quando va in vacanza, sale sulla sua auto e, strappandosi per qualche giorno al mondo dei manufatti più incredibili e formidabili, va a cercare le foreste, i monti o la riva del mare, dove può far rivivere il suo passato nella ricerca di attività semplici e spartane come camminare, arrampicarsi, nuotare nell'acqua fredda, spesso in un contesto egualitario in cui i simboli di status per cui lotta faticosamente tutto l'anno sono soppressi o ridotti, fino alla nudità della spiaggia e alla tenda – ombrellone o al “villaggio turistico”, dove viene ricostruito un elementare spazio domestico in cui la vita familiare è totalmente messa in comune, nell'ambito di effimere società elementari. Visto oggettivamente, c'è qualcosa di bizzarramente ironico nel superare a volo migliaia di chilometri su una macchina che costa decine di milioni e dotata di incredibili comfort soltanto per dormire male in una tenda, mangiare cibo in scatola e passare qualche mattina alla ricerca di conchiglie in una caletta sabbiosa.
   Esiste un diffuso luogo comune sull'evoluzione umana, secondo cui la condizione più naturale per l'uomo è costituita dal mondo moderno e (appunto) “evoluto”, dalle grandi città, dal telefono, dalle leggi e dagli aerei. In questa vulgata i nostri antenati paleolitici già pienamente umani (e addirittura, come dimostrano acquisizioni recenti, cerebralmente più dotati di noi) vengono rappresentati come esseri ancora sostanzialmente scimmieschi e comunque avviati irrimediabilmente verso il dominio tecnologico del mondo. Dimenticando che, tra l'altro, senza la nostra espansione predatoria a suon di fucili buona parte dell'umanità vivrebbe ancora nello stesso identico modo di allora, senza alcun segno di “progresso” tecnologico.
   Questa visione, che deriva dalla nostra profonda fede nel Progresso, per cui il futuro è sempre meglio del passato, è assolutamente falsa, e a dircelo è proprio la natura dell'evoluzione biologica. In primo luogo, l'evoluzione non ha alcuna tendenza “finalistica”, cioè non tende “inesorabilmente” verso un astratto “progresso” fisiologico o psicologico.
   Se fosse così la Terra sarebbe popolata solo da specie immensamente complesse e intelligenti, in formidabile gara tra loro per il primato. Invece la vita sul terzo pianeta è tutt'oggi largamente dominata dai batteri e dalle piante, organismi decisamente semplici, esattamente come un miliardo di anni fa (per “dominare” intendo l'importanza assoluta che questi organismi rivestono nell'ecosistema globale e la loro formidabile “resilienza”, che rende semplicemente impensabile l'estinzione totale); quasi tutti i numerosi esperimenti verso forme più complesse sono andati incontro a un'estinzione più o meno rapida. Tra gli animali il gruppo più affermato è rappresentato dai minuscoli insetti. Le crisi serie spazzano via per prime tutte le forme più sofisticate, mentre quelle più semplici sopravvivono, proprio come successe 65 milioni di anni fa con la caduta di un asteroide nello Yucatan. Se possedere sofisticate capacità di risposta fisiologica e comportamentale fosse inevitabilmente “meglio” di non averle, come sembra, non saremmo certo l'unica specie con un cervello così grosso. Avere un corpo complesso e un grande cervello comporta dei costi: i muscoli, le ossa e i vari apparati anatomici implicano un dispendio energetico notevole, che diventa altissimo per il tessuto cerebrale, di gran lunga il più energivoro di tutti. Inoltre l'aumento di dimensioni incrementa drasticamente l'inerzia evolutiva. Infine aumenta il rischio di errori di costruzione e di guasti: una struttura complessa è evidentemente più delicata. Non c'è mai stato nulla di più fragile e precario dell'attuale immenso superorganismo tecnologico (basta togliere la corrente elettrica per dodici ore a New York e c'è il caos in tutto il pianeta).
   L'evoluzione dell'intelligenza va vista perciò come un'incredibile stranezza, non come qualcosa di ovvio e inevitabile. Il nostro cervello si è sviluppato rapidamente solo per un periodo assai breve, in cui si è verificata evidentemente una congiuntura davvero insolita, dove a fronte di una rilevante disponibilità energetica si aveva nel contempo, paradossalmente, una forte pressione selettiva: da un lato il protolinguaggio e i primi utensili avevano trasformato i nostri antenati in foraggiatori efficienti, ma essi erano ancora facile preda dei loro più forti rivali carnivori. A un certo punto, quando l'evoluzione della cultura è partita per la tangente staccandosi dalla simbiosi con il genoma, questa congiuntura si è dissolta, e l'encefalizzazione umana si è assestata su un livello leggermente superiore all'attuale.
   (Con questo non voglio arrivare a negare l'esistenza di un “progresso” nell'evoluzione, come fanno certi biologi radicali: tutta la storia evolutiva che ha portato alla nascita dell'uomo, anche se molto tortuosa e ben diversa da una inesorabile marcia trionfale verso un astratto “meglio”, non può essere vista che come progresso, per una sola, ma decisiva ragione: il fatto che siamo esseri umani.)
   Ma la cosa più importante che ci insegnano i principi più solidi della biologia evoluzionistica è che l'ambiente naturale dell'uomo non può essere la civiltà tecnologica. “La selezione naturale, intesa come sopravvivenza e riproduzione differenziale di forme genetiche diverse, prepara gli organismi al solo scopo di fronteggiare le necessità. L'abilità biologica si evolve finché un organismo raggiunge il massimo grado di idoneità per la nicchia che occupa, ma non va oltre. Ogni specie, ogni tipo di farfalla, di pipistrello, di pesce e di primate, incluso l'Homo sapiens, occupa una nicchia distinta. Ne segue che ogni specie vive in un suo mondo sensoriale. Nel dare forma a quel mondo, la selezione naturale è esclusivamente guidata dalle condizioni della storia passata e dagli avvenimenti che si verificano di momento in momento. Poiché le falene sono troppo piccole e indigeribili per costituire un cibo energeticamente efficace per i grandi primati, l'Homo sapiens non ha mai sviluppato l'ecolocazione necessaria per catturarle. E poiché non viviamo in acque buie, la possibilità che la nostra specie sviluppi organi elettrici non è mai stata presa in considerazione. In breve, la selezione naturale non anticipa bisogni futuri. Ma questo principio, che pure spiega tutto così bene, presenta una difficoltà. Se ha valore universale, come avrà fatto la selezione naturale a preparare la mente alla civiltà prima che la civiltà esistesse? Ecco il grande mistero dell'evoluzione dell'uomo: come dare conto del calcolo differenziale e di Mozart.” (E.O.Wilson). La risposta, l'unica possibile, è che la cultura a un certo momento si è staccata dai geni fino a diventare un'entità indipendente; raggiunta una propria organicità autonoma, finalizzata alla riproduzione e all'espansione come negli organismi biologici, ha acquisito proprietà emergenti che non sono più dominate dai processi genetici e psicologici che le hanno dato vita, e dai quali ancora dipende per la sua sopravvivenza. Anzi, è la cultura che ha rapidamente imparato a sfruttare i nostri meccanismi psicologici innati per indirizzarli nella propria direzione evolutiva, spesso totalmente divergente rispetto al nostro orientamento istintivo. Come e quando si verificò questa svolta epocale che ci ha trasformato in schiavi della cultura tecnologica lo vedremo più avanti. Adesso cerchiamo di fare un confronto il più possibile obiettivo tra la nostra vita e quella dei nostri antenati cacciatori, per vedere se è poi così ovvio che stiamo meglio oggi.

   Occorre innanzitutto sgombrare il campo dall'assioma storicistico secondo cui la dimensione “genetica” della psicologia umana sarebbe insignificante. Se fossimo solo delle camaleontiche, disincarnate entità culturali il nostro profondo disagio nei confronti del mondo metropolitano e tecnologico non avrebbe alcuna ragion d'essere: saremmo tutt'uno con fabbriche, caste professionali, gerarchie e computer, mentre gli spazi naturali e l'intimità familiare ci darebbero l'angoscia. Invece perfino lo squalo affaristico più invasato, nel suo intimo, nel suo corpo distrutto dallo stress, mostra profondi segni di malessere e di disagio, anche se, come un drogato o un giocatore incallito, è talmente risucchiato nei suoi meccanismi ipnotici di addomesticamento da non poterne più uscire. In realtà è proprio la nostra cultura parassita che ci aveva inculcato l'uguaglianza uomo = cultura, facendo leva sulla grande lusinga dell'antropocentrismo, per farci credere che distruggere il primitivo mondo “selvaggio” fosse nel nostro più appropriato destino di esseri sostanzialmente “trascendenti” rispetto alla natura, infinitamente addomesticabili e adattabili al mondo civilizzato. Il comportamentismo è il grande dogma che accomuna l'utopismo capitalista e marxista, con la sua promessa di un “uomo nuovo” su misura della fabbrica, del soviet, di Internet e delle colonie spaziali.
   Oggi sappiamo che non è affatto vero, come si continua a proclamare solennemente su tutti i pulpiti, che abbiamo una strutturazione genetica dell'attività cerebrale enormemente inferiore a tutti gli altri animali: il nostro sistema limbico (il complesso anatomico cerebrale a stretta programmazione genetica) non si è certo atrofizzato, e anche molte funzioni corticali “superiori” come il linguaggio e il senso musicale sono ben strutturate geneticamente, fino ai dettagli della sintassi. Noi tendiamo a pensare che un bambino piccolo sia totalmente inetto rispetto a tutti gli altri piccoli di animali, ma non è così. Uno studio compiuto negli anni venti su bambini appena svezzati dimostrò che mantenevano una dieta perfettamente equilibrata pur essendo totalmente liberi di scegliere in una vasta gamma di cibi naturali come frutta, verdure, patate e carne. Una particolare carenza alimentare suscita una fame altamente specifica: bambini affetti da insufficienza surrenale grave mangiano sale da cucina a manciate, e morirebbero se gli venisse impedito senza interventi terapeutici. I bambini di un anno mostrano vive reazioni di paura e di difesa verso gli estranei, l'altezza, i suoni forti, i serpenti, gli oggetti che si avvicinano rapidamente, pur non avendone mai sperimentato gli effetti nocivi, né più né meno come gli altri antropoidi coetanei.
   Il fatto che un bambino isolato, come del resto qualsiasi altro animale altamente sociale, non riesca a sviluppare comportamenti tipicamente umani significa soltanto che essi richiedono un “nutrimento sociale” per maturare, esattamente come la vista richiede una ricca stimolazione ottica: un gattino tenuto al buio fin dalla nascita diventa irreversibilmente cieco, ma questo non vuol certo dire che la capacità visiva di un gatto non sia geneticamente determinata fin nei minimi dettagli. Il tipico canto di un fringuello è iscritto nel genoma, ma se un giovane non lo sente da un adulto non potrà mai eseguirlo correttamente.
   Gli uomini non hanno meno istruzioni genetiche dei loro parenti che possiedono una cultura appena abbozzata. Geni e cultura non sono due termini antagonisti (anche se oggi, come vedremo, non è più così): oltre a tutti i nostri fondamentali meccanismi sensoriali ed emozionali specie-specifici, i nostri geni istruiscono anche la costruzione di una parte del cervello programmata ad apprendere, in misura fortemente superiore a qualsiasi altro animale, evidentemente perché una forte capacità di sviluppare cultura era utile all'affermazione dei geni che la rendevano possibile ampliando vistosamente la neocorteccia. Questo tipo di tessuto nervoso ha infatti una struttura fortemente predisposta a sviluppare programmi operativi per apprendimento, associazione, mutazione e selezione, come quei particolari programmi per computer che vengono creati dai programmatori con la capacità di evolvere autonomamente senza il loro intervento diretto. Certi settori della corteccia sono diventati così l'equivalente del cosiddetto “brodo primordiale” dove è nata la vita: le idee vivono in qualche modo di vita propria (nascono, evolvono, si differenziano, si estinguono), su un piano che, per milioni di anni, ha viaggiato in stretto parallelo, con una vera e propria simbiosi, all'evoluzione dei nostri geni e del nostro patrimonio istintivo. Comunque, esse ci sono intimamente estranee: un uomo può sostituire radicalmente il proprio patrimonio culturale pur restando assolutamente la stessa persona, immediatamente riconoscibile come tale non solo dall'aspetto fisico, ma da un'infinità di caratteri psicologici essenziali.
   A un certo punto, però, circa diecimila anni fa, le idee si sono coordinate in un sistema integrato che ha messo la natura umana letteralmente tra parentesi, sprigionando un'evoluzione rapidissima verso una cultura incredibilmente complessa e differenziata. Da allora la parte più evidente della nostra attività mentale è di natura culturale: ma rimane comunque quella di gran lunga più superficiale ed intimamente estranea. La trama essenziale del nostro vissuto psicologico è fatta sempre di emozioni, sensazioni e appetiti, straordinariamente costanti nello spazio e nel tempo: l'eterna natura umana, che è il prodotto della complessa architettura biologica del nostro cervello, un sistema profondamente adattato a un particolare ambiente fisico e sociale.
   Visto che le sovrastrutture culturali sono diventate così avvolgenti da nascondere in parte la natura umana, e che è naturale notare soprattutto le differenze interculturali trascurando le innumerevoli somiglianze che rimangono sullo sfondo, non c'è da meravigliarsi se si è arrivati a pensare addirittura che l'uomo non avesse alcun genere di programmazione innata. Ma basta prendersi la briga di scavare appena un po' sotto le rutilanti vernici esterne per vedere il solido macigno che c'è sotto.
   In realtà, tutte le bizzarre varianti del comportamento che si ritrovano nelle varie culture sono considerate orgogliosamente anomale dagli stessi membri di quelle culture, che sono piuttosto consapevoli della loro natura sovrastrutturale e “decorativa”. Le nostre più spettacolari e diffuse idiosincrasie, come la fede nella tecnologia, l'ossessione per l'ordine e la pulizia, il culto artistico dell'infatuazione romantica, il culto degli eroi e dei divi, la moda, i rituali calcistici, la prostituzione, le oceaniche adunate papali, il tarantismo delle discoteche, ecc. ecc., verrebbero probabilmente descritti da un ipotetico viaggiatore alieno come i fondamenti della nostra struttura mentale, irriducibilmente e totalmente diversa da quella di un indigeno australiano, come è sottolineato dall'efficace confronto tra la capanna e il grattacielo, con cui spesso noi celebriamo sui libri la nostra formidabile “superiorità”. Ma si tratta di un confronto fuorviante: nessuno di noi vorrebbe vivere in un grattacielo, anche se è spesso è costretto a farlo. Se questo viaggiatore scavasse appena sotto i nostri condizionamenti si renderebbe conto con facilità che noi stessi consideriamo tutte queste idiosincrasie come delle esagerazioni innaturali e forzose, anche se ne siamo del tutto dipendenti, come un fumatore incallito sa benissimo che il fumo non è “naturale”. Una persona che vivesse tutto questo complesso esteriore come essenziale verrebbe considerata ridicola o del tutto folle, e questo è avvenuto sempre, in tutte le culture: il folclore è sempre stato riconosciuto distinto dall'essenza umana, quella che rende universali le opere di Omero e di Shakespeare. Gli atteggiamenti culturali sono molto diversi dagli universali sentimenti umani, e la gente ne ha sempre una certa consapevolezza. Nella puritana società di fine Ottocento, quella che copriva le gambe dei tavoli, tutti sapevano benissimo quanto questo atteggiamento fosse forzoso, e ne erano orgogliosi, perché è proprio ciò che si fa contro natura a mostrare la propria civile superiorità. La natura fortemente aggressiva ed espansionistica delle culture agricole ha sempre avuto una forte tendenza alla pseudo-speciazione, a considerare gli “altri” come esseri non umani, e per questo non c'è di meglio che un complesso travestimento folcloristico per farci sentire immensamente diversi e ovviamente “migliori”, “civili”. I Romani di epoca repubblicana chiamavano “ius civile” le proprie leggi tribali contrapponendole allo “ius gentium”, le leggi naturali proprie degli uomini in quanto tali, leggi di rango evidentemente inferiore, proprio perché ad esse si obbedisce per inclinazione e non per educazione e severa disciplina.
   Tutti gli uomini “civilizzati” delle culture agricole hanno sempre avuto un'idea piuttosto precisa dell'autentica natura umana, ma erano anche profondamente convinti che le loro astruse abitudini fossero proprio ciò che li rendeva superiori agli animali e a quei “primitivi” dei loro vicini raccoglitori, per non parlare di quei crudeli pazzi sanguinari degli altri agricoltori, con le loro usanze assurde e il loro ridicolo abbigliamento. Non a caso chiamiamo da sempre tutte queste manifestazioni chiassose ed esteriori come costumi, collegandole direttamente e consapevolmente alla esteriorità evidente degli abiti. Queste sovrastrutture, per quanto superficiali, sono però diventate nelle società agricole tanto organizzate da blandire la natura umana sottostante in modo così abile e pervasivo da renderla quasi invisibile, almeno dall'esterno, e dando forma talvolta ad organizzazioni sociali aberranti. Sanno farlo altrettanto bene con gli animali, di cui nessuno nega la sfera istintiva: un cane antidroga, un pollo in batteria, l'otaria di un circo o un topo di laboratorio possono essere condizionati in modo tale da essere semplicemente irriconoscibili rispetto ai loro cugini selvatici.
   In sostanza, quindi, le culture complesse sono delle grandi sovrastrutture che avvolgono una natura umana molto ben definita, come dimostrano le decine di sottili espressioni facciali a stretto controllo genetico, l'estetica musicale e la sintassi linguistica universali.
   Nessuno solleverebbe obiezioni al fatto evidente che l'optimum psicologico per i gorilla sia rappresentato dalla vita nel sottobosco all'interno del loro tipico harem, o che per i gibboni sia costituito dalle loro coppie solitarie e strettamente monogamiche nella volta forestale. Ma per gli esseri umani no, l'ideale non è vivere in un gruppo egualitario di 60-80 persone, relativamente isolato e blandamente competitivo rispetto agli altri, a quotidiano contatto con piante e animali selvatici, come abbiamo fatto per milioni di anni: l'optimum per l'uomo è ovviamente la grande metropoli planetaria ed ecumenica, la disponibilità illimitata di risorse materiali, di mezzi comunicativi e informazioni, l'asettico, scintillante lindore della “perfezione” celeste o spaziale, oltre alle indispensabili Guide illuminate che conducano il gregge recalcitrante dei mediocri verso questo sempre più luminoso e totalitario Futuro.
   La nostra cultura ci ha letteralmente drogati da diecimila anni con una raffica di stimoli abnormi, con cui ha realizzato su di noi i più spinti condizionamenti e addomesticamenti da circo per rinchiuderci nelle gabbie professionali delle società stratificate: con i miraggi di possibili Paradisi trascendenti è quindi stato facile diffondere l'idea assurda che la nostra specie non abbia una struttura psicologica innata, facendo sembrare illimitate le possibilità dell'uomo di espandere la propria “perfezione”, sociabilità e felicità, come è sempre stato sostenuto con forza da tutte le nostre ideologie dominanti (cristianesimo, marxismo, scientismo, capitalismo), che sono diventate vincenti proprio per questo, fornendo un forte sostegno alla nostra domesticazione sempre più spinta. Ma l'acquisizione di innumerevoli informazioni e risorse materiali, di un altruismo totalitario, di uno sconfinato potere ipnotico sugli altri, di un “comfort” totale, insomma del “massimo” di tutto, non è affatto la vera, autentica realizzazione del nostro potenziale umano: è la sua mostruosa caricatura.
   Questi eccessi spropositati che la civiltà ci ha messo a disposizione coltivando la nostra avidità ci hanno reso ostaggi dei sistemi ideologici di asservimento: per cercare di conquistarli bisogna diventare spietati con sé stessi, con i nostri amici e familiari, coltivando delle ossessioni compulsive che espongono la società a continui traumi rivoluzionari sempre più violenti, i quali non fanno altro che renderci tutti sempre più dipendenti dalle droghe tecnologiche e intimamente traumatizzati, in un vero circolo vizioso.

   Così come i polmoni di un neonato si aspettano, fin da quando è ancora immerso nel liquido amniotico, di trovare un'atmosfera gassosa con una certa percentuale d'ossigeno e d'azoto, e sono fatti esattamente per quella, il cervello si aspetta di trovare un certo mondo sociale, molto diverso da quello lo attende. Nella maggior parte dei casi riuscirà a compensare questa differenza con la sua notevole flessibilità adattativa, ma si tratterà comunque di uno sforzo continuo e logorante, che comporta l'alterazione dell'equilibrio fisiologico complessivo. Anche i polmoni possono adattarsi faticosamente a un'aria con una percentuale d'ossigeno diversa, o a quella carica di inquinanti di certe nostre città. Ma al prezzo di una patologia cronica compensativa (nei casi più fortunati).
   Sia ben chiaro, non sto dicendo che l'epoca remota prima della civiltà era uno stucchevole paradiso senza problemi, come quello prospettato dalle nostre utopie o come credono certi ingenui ambientalisti: i problemi c'erano, eccome, ma si trattava di quel genere di problemi su cui la nostra mente è calibrata, di cui ha addirittura bisogno per ricavarne il tono dinamico che le è proprio. Era un mondo in cui, ad esempio, era molto più facile ferirsi, patire la fame, il freddo o la sete, tutti problemi a cui si poteva facilmente reagire mobilitando le nostre forze e ricavandone una appagante sollievo ristoratore. Un male “buono”, quindi, simile a quello che cerchiamo vagamente di riassaporare in molte pratiche sportive o nelle vacanze avventura. La sofferenza di oggi, invece, è sorda, profonda e asfissiante: è il grigiore di una vita fin troppo comoda e monotona, la noia, l'angoscia, la solitudine dietro il “decoro” delle nostre artificiose maschere sociali. Una litania di soffocate bestemmie a ogni intoppo stradale, a ogni trillo della sveglia o del telefono, a ogni arrivo della posta, o per i bambini che vogliono giocare, che sul lavoro diventa una ringhiosa musica di sottofondo. È grottesco vedere come la gente ritorna umana e viva quando qualche ingranaggio di questa mostruosa società va veramente storto, quando si blocca l'ascensore o il computer.
   La “civiltà” ci ha messo al riparo da tantissime situazioni sgradevoli, così che stiamo diventando sempre più incapaci di sopportare il dolore e sempre più angosciati dalla sua possibilità. “La nostra paura delle cose spiacevoli e la cura con cui facciamo di tutto per evitarle hanno raggiunto la dimensione del vizio. La nostra fuga esasperata da ogni forma di esperienza sgradevole incide negativamente sulla nostra capacità di sentire il piacere e la gioia: il nostro “benessere” ha trasformato gli alti e bassi della vita, che ci accompagnavano da sempre, in una grigia uniformità senza contrasti, artificiosamente piatta e noiosa. Essa diffonde intorno a sé la noia e genera appunto per questo il gran bisogno che molta gente ha di divertirsi. Il bisogno di “farsi divertire” passivamente da qualcosa è sintomo dello stato d'animo meschino e annoiato che caratterizza l'uomo sazio, per non dire ipernutrito. La vita dei nostri antenati era una successione di esperienze, spesso gravose o anche dolorose, ma poi seguite dalla gioia, dal godimento: “settimana dura, festa gaia”. Bisogna aver patito realmente la fame, almeno una volta, per poter apprezzare il piacere del cibo.” (K.Lorenz)
   La nostra pervasiva angoscia è solo in parte una viziata fobia del dolore e della morte: ha anche una solida base razionale. Mentre un tempo i nostri istinti e riflessi erano sufficienti a controllare e a rispondere a ogni pericolo, oggi viviamo in un mondo che non solo è (potenzialmente) più pericoloso, ma in cui le situazioni di rischio sono diversissime e inusitate. Per periodi sempre più lunghi delle nostre giornate siamo in balia di complessi meccanismi tecnici il cui malfunzionamento può avere facilmente esiti mortali. Noi non proviamo un'avversione istintiva per la guida veloce, l'elettricità, l'ossido di carbonio, le radiazioni o i veleni sintetici, quindi difendersi da queste minacce richiede uno stato di vigilanza e di tensione continuo. I rischi ancestrali erano ben riconoscibili, circoscritti, e davano appaganti sensazioni di sollievo, mentre quelli attuali danno solo una onnipresente, irrisolvibile angoscia. A tutto questo si aggiunge l'angoscia sociale per l'onnipresente sentimento di inadeguatezza rispetto a modelli astratti di bellezza e di successo, di gran lunga peggiore da sopportare.
   La pura gioia che deriva dal contatto quotidiano con la natura e le sue sfide, con la sua varietà inesauribile e profonda di significato, è stata sostituita con la sovraeccitazione da stimoli artificiosi, grossolani e meccanici, con le mode, i revival, musiche da sballo, giocattoli rombanti, attori di culto, eventi… tutto un mondo rutilante, chiassoso e disperatamente vuoto. Un oceano montante di stimoli effimeri, una moltitudine di pseudointeressi e pseudobisogni in cui l'energia emotiva si disperde fino a farci affogare nel nulla; un rumore assordante che sta diventando simile a un silenzio assoluto; cibi sempre più drogati per un appetito che non c'è più. La sostanza di tutto questo fastoso baraccone sembra ridursi al fiume di velenosi, nascosti rancori che scorre sotto la facciata cortese, nei corridoi del formicaio industriale, alla ringhiosa difesa del proprio loculo di “libertà” e di “diritti” garantiti per legge, a una solitudine profonda e sempre più nascosta nei rituali di massa; a una inautenticità globale dei rapporti e delle esperienze. In termini di pienezza di vita, e non di superficiale appagamento dei desideri, oggi noi siamo profondamente infelici. La nostra condizione è persino peggiore di quella di qualsiasi schiavo o servo della gleba dei secoli passati, che viveva in una solida comunità di affetti e poteva ancora apprezzare i piaceri che la vita gli regalava.
   Esistono indicatori molto precisi e oggettivi del nostro stato di “sazia disperazione”. Negli Stati Uniti il numero di suicidi tra i giovani maschi (15-24) è triplicato dal 1950 al 1995, mentre tra le femmine è più che raddoppiato, e costituisce oggi la terza causa di morte nella stessa fascia di età. Nei ragazzi tra i 10 e i 14 anni è più che raddoppiato negli ultimi 15 anni, come pure tra gli anziani (> 65). Senza contare, ovviamente, tutti i tentativi andati a vuoto. Il consumo di droghe e psicofarmaci, l'anoressia, la criminalità giovanile, la dipendenza dal gioco d'azzardo sono in costante incremento.

   Più l'umanità è dipendente da una tecnologia sempre più sofisticata, più si disumanizza. Così si esprime il poeta Traiano a proposito del futuro dell'umanità nel romanzo La 25° ora di Virgil Gheorghiu: “Gli uomini, per riuscire ad avere gli schiavi al proprio servizio, sono costretti ad imitare le abitudini e le leggi loro. […] Noi apprendiamo le leggi e la parlata dei nostri schiavi per meglio comandarli. E così, a poco a poco, senza accorgercene, rinunciamo alle nostre facoltà umane, alle nostre leggi. Ci disumanizziamo, adottiamo lo stile di vivere dei nostri schiavi tecnici. Il primo sintomo è il disprezzo dell'essere umano.” Ben più che all'epoca dei romani questo è vero per noi oggi, dove gli schiavi non sono più nemmeno esseri umani, e sono diventati così potenti che chiamarli “strumenti” è un eufemismo ridicolo.
   Un'altra forma insidiosa di inquinamento è costituita dall'eccesso di informazione e di astrazione simbolica. La ricerca affannosa di conoscenza è la via maestra all'illusione del controllo totale, in cui trovare una risposta al mondo sempre più gelido, alienato e minaccioso creato nello stesso sforzo tecnologico. Oggi questo sogno sembra quasi realizzato: conosciamo nei dettagli ogni filo d'erba del nostro pianeta, e conosceremmo altrettanto bene anche quelli vicini se non si fossero rivelati disperatamente privi di attrattiva. La tensione esplorativa verso gli spazi esterni si è come esaurita, per la prima volta dopo millenni. Concentrandosi con tutta la sua potenza analitica sullo spazio finito del mondo biologico e sociale, lo ha totalmente disincantato, gli ha tolto gran parte della sua magia e del suo fascino. La distanza, il mistero, la mediazione che sono il nutrimento della fantasia e l'essenza stessa del piacere di conoscere sono consumati ogni giorno dalla disponibilità totale e immediata di informazione. I nostri figli, come già noi stessi, sono condannati a vivere in un mondo tremendamente prosaico, dove una connessione totale e continua cancella ogni tensione cognitiva, ogni spazio onirico. “Siamo smembrati tra l'avidità di conoscere e la disperazione di aver conosciuto” (R. Char).
   “I libri sono oggi mosaici o puzzle costruiti con citazioni di citazioni e interpretazioni di interpretazioni; i verbi non hanno per soggetto un uomo, un animale, una cosa, ma una complicata frase irta di termini astratti, ciascuno dei quali può essere assunto secondo indefinite accezioni e avrebbe bisogno di interminabili precisazioni, qualora esistesse ancora la speranza di un linguaggio capace di significato. Non si pensano cose ma pensieri di pensieri, il discorso si svolge attraverso la mediazione inconcludibile di schermi e controfigure, in un cerchio dal raggio infinito.[…] Parole sempre più spesso di varie altre lingue, parole maiuscole, in corsivo, tra virgolette doppie e semplici, fra parentesi tonde e quadre. Una girandola continua di scoperte di autori di ieri, più o meno tutti destinati e ridestinati a oblii e riscoperte nel giro di qualche anno, nomi di moda ai quali per un po' è obbligatorio riferirsi, e che sono subito travolti da altri e dimenticati. Tutto questo è all'interno della malattia, e “l'intellettuale” vero sa di essere un vero malato, malato a morte” (S. Quinzio).
   Il mondo assomiglia sempre di più all'angosciosa “biblioteca di Babele” di Borges, in cui non sono solo disponibili tutti i libri, le musiche e i quadri del passato, ma anche tutti quelli possibili, dato che il numero di parole, note e pixel componibili su un foglio è finito. Questo spaventoso eccesso diventa così sempre più simile a un vuoto assoluto. La nostra divorante avidità di sapere, degna di Faust, ci ha fatto dimenticare solo una cosa: l'importanza del dimenticare, dell'oblio. Quando non esisteva nemmeno la scrittura ogni passaggio di esperienze era interpretazione, selezione, reinvenzione. Alla morte di un uomo gran parte delle sue esperienze creative venivano dimenticate o rielaborate, e questo offriva ai giovani uno spazio cognitivo originale, essenziale. L'eredità culturale di oggi è invece un immenso bolo premasticato e indigesto, una massa sempre più pletorica e opaca di ciarpame e intellettualismi autoreferenziali, privi spesso di ogni rapporto con la realtà concreta dell'esistenza. La maggior parte della gente ne è schiacciata, rinunciando assai presto a ogni vocazione esplorativa e artistica, per lasciarsi passivamente “divertire” da uno dei molti rimbecillimenti preconfezionati. Il diluvio informativo sta cancellando la possibilità stessa di avere delle esperienze esteticamente coinvolgenti. L'arte ha esaurito ogni tema e ogni variazione. La nostra memoria collettiva è ormai satura e intasata, come le nostre discariche e il nostro stomaco. Come una lavagna che non viene mai pulita, alla fine tutto diventa irrimediabilmente confuso e illeggibile, e scrivere ancora non ha più senso. Tutti sanno, si spera, che l'eccesso di nutrimento materiale è nocivo, ma nessuno si è mai posto il problema che possa esserlo anche un eccesso di nutrimento intellettuale, soprattutto in forma di fast-food nozionistico o pornografico.
   Il bombardamento videoelettronico di informazioni a cui veniamo sottoposti quotidianamente consuma la nostra capacità di provare curiosità e piacere, impoverisce la nostra esperienza umana, per darci in cambio stress, ansia, paura. L'aumento di dati è diminuzione di significato.
   Oggi un bambino non deve più costruirsi un suo mondo cognitivo, una sua esperienza etica ed estetica: ne trova già a disposizione una serie infinita, ordinata criticamente con formidabile, asfissiante precisione. Questa impressione di potenza, che soffoca presto la sua curiosità, gli dà anche la sensazione di vivere in una civiltà onnipotente, e ottunde la sua capacità critica. Questa civiltà è sì perfetta, ma per i computer, non per gli esseri umani, che stano diventando i loro servi sciocchi.

   Uno degli aspetti apparentemente più negativi della vita preistorica era la mortalità infantile più elevata di quella attuale in Europa (ma largamente inferiore a quella di soli 100 anni fa). La sofferenza dei bambini è considerata una delle realtà più dure e inaccettabili, tanto da essere spesso indicata tra le ragioni fondamentali che fanno dubitare dell'esistenza di un Dio benevolo (“se esistesse bisognerebbe fucilarlo, quel Vecchio malefico che fa soffrire i bambini” recitava un detto anarchico francese). Ma perché i bambini ci inteneriscono tanto? La ragione risiede proprio nella loro vulnerabilità, che li rende estremamente bisognosi della protezione degli adulti. La conformazione del volto dei bambini riproduce uno schema caratteristico che si ritrova in gran parte dei mammiferi e degli uccelli e che suscita negli adulti un empito di tenerezza. Questa tenerezza la proviamo anche per i piccoli di specie diverse dalla nostra: l'osservazione di un uomo che maltratta un pulcino suscita una reazione molto più forte del maltrattamento di un adulto umano. Ciò che nei “cuccioli” troviamo così attraente non sarebbe mai nato se non fossero stati vittime di incidenti e malattie. Questa innata sensibilità, come ogni altra, deve essere rinforzata dall'esperienza della sofferenza infantile per raggiungere la sua piena maturazione. È la ragione stessa della simpatia speciale che proviamo per i piccoli.
   È più che naturale per noi dire che la sofferenza di un bambino ci ripugna, ma perseguirne la cancellazione totale è solo un'esca gigante con cui siamo stati guidati verso l'abolizione stessa dei bambini, così viziati da essere diventati un peso insopportabile, sia psicologico che economico.
   Quanto detto per la mortalità infantile si potrebbe dire anche a proposito della alterità, che è l'altra faccia dell'amicizia e dell'intimità familiare, oltre a essere il fattore fondamentale di quella diversità culturale che rende il mondo così vario e interessante. La nostra diffidenza profonda nei confronti di questo sentimento universale è ben giustificata perché è stato cavalcato e ingigantito dalle più classiche (e primitive) ideologie predatorie, sotto forma di xenofobia, per sostenere l'espansionismo militare e il genocidio. Ma queste mostruosità sono l'effetto di società mostruose come quelle assiali, in cui la prostrazione delle masse sotto il peso dello sfruttamento, della fame e delle pestilenze viene sistematicamente indirizzata verso l'esterno in sogni utopici di conquista e demonizzazione degli stranieri. Il Vecchio Testamento, con le sue storie ossessive di guerra e sterminio da parte del “popolo eletto” per instaurare il regno di Dio, ne costituisce un esempio classico. “Nelle città di questi popoli che il Signore, Dio tuo, ti dà in possesso, non lascerai in vita nessuno; ma voterai allo sterminio questi Ittiti, questi Amarei, questi Cananei, questi Ferezei, questi Evei e questi Gebusei, come il Signore, Dio tuo, ti ha comandato.” (Deuteronomio 20,16-17); “Perché avete lasciato in vita tutte le donne? Uccidete tutti i bambini maschi e tutte le donne che hanno avuto rapporti intimi con un uomo; invece le fanciulle vergini serbatele in vita per voi.” (Numeri 31,15-18). La minaccia concreta di una annichilazione planetaria (sia degli uomini che delle idee) ha reso comunque questo tipo di condizionamento ideologico ormai obsoleto, almeno in una zona limitata del mondo, anche perché la conquista culturale del pianeta è già stata già realizzata.
   Oggi ci sono molti entusiasti del grande “melting pot” che colora le nostre metropoli e ci ha portato una incredibile ricchezza culturale, ma dimenticano che è solo la premessa di una opprimente monocultura planetaria. Questa unificazione mondiale, inoltre, ci espone a gravi rischi. Mentre un tempo gli effetti catastrofici di una ideologia o di una tecnologia si arrestavano ai confini della civiltà che l'aveva adottata, domani gli effetti di un qualsiasi problema serio avrebbero subito delle devastanti ripercussioni planetarie. Al di là della facile retorica utopista, la meravigliosa diversità del mondo è fatta di confini, sorvegliati da sentinelle armate e da geni egoisti. Ogni oggetto, ogni animale e ogni cultura esistono soltanto grazie ai loro limiti e quindi in forza di un atto in qualche modo ostile verso l'ambiente che li circonda, perciò è innegabile che il più importante rapporto dell'uomo con i suoi simili è l'alterità, la dissociazione, che è la base indispensabile dell'incontro, del confronto, dell'avventura umana, della vita stessa. Non solo, ma la competizione intertribale, sotto forma di lotta più o meno ritualizzata, ci appassiona moltissimo: basta guardare l'interesse spasmodico per gli sport di squadra, per la politica, per la guerra commerciale. Troviamo eccitante la miscela di forza, coraggio, abilità e strategia che si esprime nella guerra e nella caccia. Tutta questa eccitazione sarebbe ridicola e sprecata se non ruotasse attorno a questioni essenziali e non comportasse notevoli rischi (come è ridicola quella dei tifosi e dei pubblicitari d'assalto, con tutto il loro linguaggio pseudomilitare), e sarebbe destinata a estinguersi nella asfissiante angoscia di un mondo omogeneizzato, minacciato mortalmente da problemi che non possono essere affrontati con la mobilitazione tribale e che appassionano molto meno di una semifinale dei mondiali. Tutto questo è stato magnificamente descritto da Vera Brittain, scrittrice inglese di grande sensibilità e pacifista convinta, rievocando il periodo trascorso a Malta durante la prima guerra mondiale: “Il mondo è diventato immensamente meschino a confronto della Malta di quegli anni d'angoscia. Le cause della guerra vengono sempre rappresentate falsamente…ma la sfida alla resistenza spirituale, l'immensa acutizzazione di tutti i sensi, la coscienza vivificante del comune pericolo rimangono ad affascinare coloro…che hanno appena raggiunto l'età in cui il richiamo dell'amore, dell'amicizia e dell'avventura è più insistente che in qualsiasi età successiva. L'incanto può essere puro delirio della febbre…ma finché dura nessuna emozione nota all'uomo pare avere lo stesso potere irresistibile e la stessa immensa vitalità…quell'elemento di santa bellezza che, come il sole che si apre un varco nelle nuvole nere di un temporale, ogni tanto, glorifica la guerra”. Scrive Erich Fromm, un altro pacifista: “La guerra è eccitante persino se implica il rischio di perdere la vita e grandi sofferenze fisiche. Considerando che la vita della persona media è noiosa e senza avventura, l'atteggiamento di chi è pronto ad andare in guerra deve essere inteso anche come il desiderio di mettere fine al noioso tran tran della vita quotidiana, di lanciarsi nell'avventura, l'unica avventura, in realtà, che la persona media può aspettarsi in tutta la sua vita. In una certa misura, la guerra rovescia tutti i valori. Incoraggia l'espressione di impulsi umani profondamente radicati, come l'altruismo e la solidarietà, impulsi che vengono mutilati dal principio dell'egocentrismo e della competizione indotti nell'uomo moderno dalla vita normale in tempo di pace. Le differenze di classe, anche se non scompaiono, si riducono notevolmente. In guerra l'uomo è nuovamente uomo”. Se questi testimoni insospettabili hanno potuto trovare questi fondamentali valori nel massacro orrendo della guerra moderna, ci rendiamo conto per riflesso di quanto sia allucinante la nostra “confortevole” condizione esistenziale, e quanto sia giustificata la nostalgia dell'incruenta guerra ancestrale, dove volutamente si combatteva solo con bastoni o a mani nude.
   L'esistenza della caccia e di occasionali lotte intertribali, che per quanto ritualizzate potevano talvolta avere un esito drammatico per una delle parti, è quindi la ragion d'essere di buona parte delle nostre più intense passioni, oltre che dell'affascinante diversità culturale dell'umanità. Le idee totalitarie di una Pace e di un Benessere definitivi e assoluti sono delle esche molto più pericolose, gettate dai nostri veri padroni. I macelli delle guerre moderne si sono sempre svolti sotto l'esplicita clausola di essere gli ultimi, e ogni rivoluzione si immaginava come finale realizzazione di un compito di Giustizia e di Pace perpetua. In nome di questa missione totalitaria ogni forma di ritualizzazione è progressivamente caduta, e la guerra è stata trasformata in massacro indiscriminato.

   I “benefici” ultimi dell'agricoltura e dei suoi formidabili sviluppi successivi li possiamo vedere all'opera nella disperata miseria e nell'abbrutimento in cui vivono miliardi di persone nel cosiddetto “terzo mondo”, e non solo lì. Oltre un miliardo di individui vive in quella che le Nazioni Unite definiscono condizioni di povertà assoluta, e cioè senza alcuna certezza di ottenere cibo da un giorno all'altro. Ogni anno un numero di persone superiore all'intera popolazione della Svezia, tra i 13 e i 18 milioni, muore di fame, di effetti collaterali della denutrizione o di altre cause collegate alla miseria. Un esercito di bambini viene avviato al lavoro schiavistico nei campi e nelle fabbriche, alla criminalità o alla prostituzione. L'angoscia e la durezza delle condizioni di vita, dovute in ultima analisi alla sovrappopolazione e alla carenza di proteine, si traduce in ostilità. Vengono identificati dei capri espiatori, di solito gruppi etnici interni; basta allora un assassinio inaspettato, un incidente territoriale o una semplice provocazione per far esplodere conflitti feroci che durano decenni.
   Ma noi naturalmente siamo troppo impegnati ad arraffare per acquistare videogiochi, telefoni, prodotti dimagranti, seconde case e terze macchine per andare più in là di uno sbrigativo commento razzista davanti al telegiornale: “hanno sempre vissuto così, ci sono abituati”. Invece questo mostruoso degrado materiale e morale glielo abbiamo portato soprattutto noi, con la luce della nostra gloriosa civiltà, con la vendita di armi e gli aiuti alimentari a pioggia, con le grandi multinazionali che li hanno sradicati dai villaggi e dalle campagne, con le grandi vaccinazioni di massa che invece di eliminare la sofferenza dei bambini l'hanno moltiplicata, producendo abnormi baraccopoli sovrappopolate in cui le malattie, la criminalità e la guerra prosperano come non mai.
   Quello che è successo in Ruanda è un esempio eloquente: questo piccolo paese dal terreno fertilissimo subì a partire dagli anni 50 una sconsiderata politica di assistenza alimentare e sanitaria da parte di organizzazioni cristiane di varie filiazioni, in competizione tra loro per ottenere la massiccia conversione degli abitanti. In questo modo la popolazione triplicò, passando da 2,5 a 8,5 milioni nel 1994, provocando una grave erosione dei suoli coltivabili e delle risorse idriche, oltre alla proliferazione di nuove malattie. Nel 1992 questo paese aveva il più alto tasso di crescita di tutto il mondo, con una media di otto bambini per donna. Le tensioni sociali ed etniche divennero fortissime, fino ad esplodere nel 1994 in una guerra allucinante in cui morì un milione di persone nel modo più orribile.
   Ciò che ha reso noi occidentali così ricchi non è il carbone, il petrolio, l'acciaio e tantomeno una superiore intelligenza: è una cultura patologica, l'avidità insaziabile, egoista e aggressiva che chiamiamo “spirito imprenditoriale”; la disponibilità di risorse e di tecnologia avanzata sono solo delle sue semplici conseguenze. Questa cultura è arrivata da tempo in quasi tutto il mondo, ma non è in grado di assicurare a tutti l'abnorme opulenza occidentale, anzi, contribuisce attivamente ad impoverire la stragrande maggioranza dell'umanità. Per mantenere ed aumentare ancora la sua bulimia in un angolo impazzito del mondo ha assolutamente bisogno della miseria di un vasto esercito di poveracci sradicati e pronti a vendersi al miglior offerente: il terzo mondo è diventato il grande serbatoio di carne umana a poco prezzo che consente ai paesi ricchi di avere caffè, scarpe, braccianti e prostitute a prezzi incredibilmente bassi, e di diventare così ancora più ricchi, sostituendo quelle masse disperate e abbruttite che all'origine dell'industrialismo furono rese disponibili dalle indiscriminate privatizzazioni delle terre comuni in Inghilterra. La politica degli “aiuti” che distrugge tutte le residue economie locali chiuse (cioè autosufficienti e sostenibili) è il grimaldello con cui ogni giorno un nuovo contingente di umanità in vendita affluisce nei sobborghi infernali del grande mercato globale. Le aziende, i governi e le organizzazioni che la sostengono hanno sempre precisi interessi di espansione e di asservimento: è una dinamica intrinseca a ogni grande organizzazione gerarchizzata, proselitistica ed ideologicamente aggressiva.
   Quelle situazioni raccapriccianti che vediamo distrattamente in tv sono il mezzo indispensabile con cui la folle ossessione predatoria che si è impadronita delle nostre menti si alimenta e si sostiene, in forme subdole ed insinuanti di cui noi non siamo neppure consapevoli (come le vaccinazioni e gli aiuti alimentari). Le persone più intraprendenti nell'aiutare (con lo stesso spirito arrogante ed egocentrico di tutta la nostra cultura e dei suoi “specialisti”) sono spesso dei suoi agenti efficaci e inconsapevoli, mentre chi è animato da puro senso di solidarietà umana viene irretito dalle grandi organizzazioni assistenziali che competono accanitamente, con lo stesso stile predatorio delle imprese, per conquistare nuovi adepti alla potenza miracolosa della medicina e della tecnica occidentale, sradicando popoli interi dalle loro abitudini millenarie, cancellando ogni dignità e autosufficienza. Quando guardiamo la “miseria” e la “barbarie” degli agricoltori primitivi non europeizzati e sentiamo il bisogno di “aiutarli” diventiamo vittima della nostra radicata arroganza eurocentrica, che ci impedisce letteralmente di vedere la trave nel nostro occhio per inorridire della pagliuzza in quello degli altri.
   Verso gli stranieri non ci può essere amore: questa è una sciocchezza tronfia e assurda, instillataci da una ideologia ipnotica, infinitamente tracotante e superba. O c'è rispetto, come alterità, e persino conflitto, o c'è asservimento, narcisisticamente compiaciuto della propria superiore potenza. Un lupo non si può amare: o lo si rispetta come tale, magari dandogli persino la caccia, o lo si trasforma in un cane, in un lezioso pechinese infantilizzato che implica un esercito di scheletrici randagi da discarica, buono per la vivisezione, su cui prospera tutto un vasto circuito di industrie e di organizzazioni “zoofile” in strenua competizione per allargare il proprio spazio vitale. Un giovane missionario non può amare i “selvaggi”, ma può compatirli, compiacendosi immensamente della sua formidabile, superiore, eroica generosità civile e cristiana. Potrà amarli solo se, non riuscendo a diventare un grosso imprenditore dell'assistenza, si integrerà con loro in una comunità familiare, e allora arriverà persino a rendersi conto di come con la sua arroganza li stava trasformando nella propria caricatura, avviando il loro inesorabile asservimento. Allora diventerà il difensore degli indigeni contro i disperati affamati di terra che vorrebbero eliminarli fisicamente; troppo tardi: la strada del missionario, delle medicine e dell'alfabeto è la stessa dei garimpeiros e della favela.
   L'unica cosa davvero rispettosa e utile che avremmo potuto fare per i “sottosviluppati” era l'embargo totale. Dopo una fase transitoria di caos avrebbero ritrovato rapidamente nella loro memoria culturale i propri antichi equilibri socio-ambientali. Le loro società pastorali e agricole erano tutt'altro che perfette, variamente affette da bellicismo, maschilismo, disuguaglianza, ma erano comunque immensamente più umane ed equilibrate dell'abnorme “McMondo” euro-nippo-americano, di cui stanno diventando i nuovi paria. Soprattutto perché erano loro. Ma ormai è troppo tardi: le compulsioni e le dipendenze della nostra cultura frenetica e totalitaria sono già ovunque.
   Con tutto il nostro grandioso, superbo, insinuante “altruismo” civilizzato noi abbiamo schiavizzato tutto il mondo, trasformandolo nella periferia infernale della megalopoli tecnocratica: questi sono i fatti. Il resto sono solo melense falsità, tanto ipocrite quanto sono solenni e retoriche.

 

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