La Civiltà Contro l'Uomo
La nostra storia vista prendendo Darwin sul serio
di Michele Vignodelli



L'invasione degli ultracorpi

L'invasione degli ultracorpi

   Se il modo di vivere dei cacciatori-raccoglitori era così appagante, sereno e profondamente umano, perché mai alcune popolazioni lo hanno abbandonato, regalandosi malnutrizione cronica, epidemie spaventose, lavoro massacrante, schiavitù, criminalità, solitudine metropolitana, angoscia esistenziale, sessismo e distruzione dell'ambiente?
   La nostra cultura ci racconta che a un certo punto della nostra evoluzione il cervello è diventato abbastanza grosso da produrre la geniale scoperta della coltivazione e dell'allevamento, che ci ha dato la luce della civiltà e ci ha portato in brevissimo tempo alla conquista dello spazio e a un sapere sconfinato. Ma in realtà l'agricoltura non è affatto di per sé un'attività che richiede un'intelligenza eccezionale. Per fare il cacciatore-raccoglitore sono necessarie un'abilità e una memoria nettamente superiori a quelle che servono per fare il contadino. Persino diverse specie di formiche coltivano piante e allevano afidi. Gli uomini, con la loro capacità culturale, avrebbero potuto benissimo cominciare a coltivare centomila anni fa o anche prima; profondissimi esperti di piante e animali, conoscevano perfettamente i dettagli del loro ciclo vitale: avranno osservato innumerevoli volte che le loro piante preferite crescevano dai semi e dai tuberi che scartavano. Quasi tutti i popoli raccoglitori conosciuti usavano coltivare certe rare piante aromatiche o medicinali, portandosi dietro alcuni semi durante i loro spostamenti: questo uso è probabilmente cominciato in tempi remotissimi.
   Il fatto è che, come i raccoglitori arrivati fino ai nostri giorni, non avevano nessun interesse a diventare contadini: i nostri antenati avevano un ben preciso ruolo ecologico, a cui erano fisicamente e psicologicamente adattati, così che la loro cultura già sviluppata era vincolata all'interno di questo stretto rapporto simbiotico con l'ambiente, del tutto soddisfacente.
   Ma anche da un punto di vista strettamente economico (senza considerare l'impatto psicosociale e sanitario) studi accurati hanno dimostrato che il prodotto netto di risorse pro-capite per energia impiegata è nettamente maggiore per la raccolta che per l'agricoltura primitiva. L'agricoltura diventa economicamente vantaggiosa solo come strategia per ridurre temporaneamente la pressione sull'ecosistema dovuta a una densità di popolazione eccessiva. Se adottata per un periodo troppo lungo, infatti, produce a sua volta un rapido aumento di popolazione che finisce per annullare i suoi benefici, innescando un circolo vizioso che non solo impedisce definitivamente il ritorno all'equilibrio ambientale, ma porta l'ecosistema verso il collasso (anche se la coltura del riso, come abbiamo visto, costituisce una relativa eccezione). Le culture dei raccoglitori erano quindi caratterizzate da un forte, attivo tradizionalismo che impediva alle idee di dilagare con il loro formidabile e pericoloso potenziale espansivo. Ovviamente c'è un rapporto tra la nascita della civiltà e le dimensioni del cervello umano, ma non è affatto un rapporto di necessità: è solo un indispensabile presupposto, costituito da una notevole capacità di sviluppare cultura, che veniva però controllata quasi sempre da una altrettanto forte tendenza a frenarne il pericoloso potenziale di mutazione.
   Gli uomini moderni, per lunghissimo tempo e in quasi tutte le società, sono stati profondamente conservatori e sostanzialmente diffidenti verso le novità, eccetto che in fasi transitorie particolarmente critiche provocate da drastici mutamenti ambientali. Un'innovazione tecnologica, infatti, se non è una risposta adattativa a una modificazione ambientale, costituisce di per sé un fattore di disturbo del delicato equilibrio ecologico, infinitamente complesso e praticamente perfetto. Le culture dei cacciatori-raccoglitori erano quindi tendenzialmente conservatrici: un gruppo di “innovatori” si sarebbe autocondannato, deteriorando il proprio territorio in cambio di qualche beneficio a breve termine. Per inciso, chi fosse tentato di pensare ancora che il nostro travolgente “progresso” sia il frutto di una superiore intelligenza creativa degli europei dovrebbe sapere che sono emerse prove evidenti di un continuo declino delle dimensioni cerebrali degli europei dal Mesolitico (8000 anni fa) a oggi, che ha toccato il 10% (!); esso è dovuto essenzialmente alla forte selezione degenerativa di cui siamo stati oggetto per opera delle innumerevoli epidemie, che ha potenziato fortemente il nostro sistema immunitario a scapito di tutte le altre qualità adattative.
   Per tutta la storia evolutiva del genere Homo l'evoluzione culturale è stata abbastanza lenta da procedere di pari passo con quella genetica. Il patrimonio culturale di queste semplici società era strettamente vincolato agli adattamenti fondamentali della natura umana, che era la matrice largamente dominante nel rapporto con l'ambiente. La cultura e i geni erano quindi solidamente coadattati: per centinaia di migliaia di anni, durante il Pleistocene, l'evoluzione dei manufatti fu lentissima e strettamente parallela a quella fisica. I geni avevano tempo sufficiente per evolversi in sintonia con le idee, che erano in solida simbiosi con la nostra natura biologica. Le innovazioni di carattere culturale creavano nuove pressioni selettive sul genoma, accelerandone l'evoluzione nei momenti critici di mutamento ambientale (piuttosto frequenti nel Pleistocene a causa dei cicli glaciali). Le idee restavano però solidamente inglobate nella matrice degli adattamenti specifici alla vita da cacciatori-raccoglitori. Il “fattore umano” le dominava come un pacemaker, assicurando la compatibilità della cultura con il nostro biogramma e quindi con la biosfera.
   Dall'uso controllato del fuoco 450.000 anni fa, ad opera della specie ancestrale Homo erectus, fino alla costruzione di strumenti elaborati da parte delle prime forme di Homo sapiens, 250.000 anni fa in Kenia, per passare alle elaborate punte di lancia e ai coltelli, 160.000 anni più tardi nel Congo, infine alle pitture e agli attrezzi sofisticati in un periodo compreso tra i 30.000 e i 20.000 anni fa, nell'Europa meridionale: tutti questi passaggi, lenti e seguiti da lunghi periodi di stasi completa, furono sicuramente collegati a modificazioni genetiche dell'intelligenza umana. Con l'ultimo balzo si arrivò infine a superare una soglia oltre la quale la complessità del software culturale era tale da poter innescare, in particolarissime condizioni ambientali, un'evoluzione del tutto autonoma rispetto al genoma umano.
   Solo in due o tre zone molto localizzate del globo si è innescata quella vera e propria neoplasia culturale, sotto forma di spirale esplosiva e devastante di espansione tecnologica, che chiamiamo “civiltà”. L'occasione scatenante per l'origine di questo incendio senza precedenti fu certamente costituita dai cambiamenti climatici particolarmente violenti nella fase finale dell'ultimo periodo glaciale, quando il raggiungimento dell'acme glaciale fu seguito da un veloce riscaldamento, che fece ritornare la temperatura media a un valore superiore a quello attuale. Poco dopo, circa 11.000 anni fa, si ebbe una rapidissima e intensa recrudescenza climatica, provocata proprio dall'immenso afflusso di acqua fredda nei mari proveniente dallo scioglimento dei ghiacciai (il cosiddetto “Dryas recente”). Vi fu un vero e proprio esodo di popolazioni settentrionali verso aree di rifugio più meridionali come la valle del Giordano, con un improvviso aumento della densità di popolazione e conseguente erosione delle risorse naturali, in particolare della grande fauna erbivora e delle piante più appetibili per l'uomo (querce, pistacchi, carrubi, asfodeli, orchidee).
   Esaurite le proprie tipiche risorse alimentari i raccoglitori furono costretti a concentrarsi su quei minuscoli semi d'erba che con la scomparsa degli erbivori erano diventati ancora più abbondanti di prima. Ma presto anche questa risorsa cominciò a scarseggiare. Allora ebbero come estrema possibilità quella di seminarli. Furono rapidamente selezionate delle forme sempre più produttive, così la popolazione dei proto-contadini che compivano questa scelta onerosa e innaturale cominciò a crescere di numero, provocando una serie di nuovi problemi (carenza proteica, malattie, pressione demografica), con ulteriori ripieghi culturali, come l'addomesticamento degli animali, che creavano ulteriore crescita della popolazione e nuove protesi tecnologiche per tamponarne gli effetti. In breve tempo gli uomini si trovarono irretiti nella morsa di ferro di un sistema autoalimentante da cui non potevano più uscire. Questo nuovo modo di vivere si diffuse inesorabilmente (anche se a velocità piuttosto lenta) perché decuplicava rapidamente la popolazione e permetteva la nascita di specialisti come soldati e costruttori di armi sempre più micidiali. I popoli che l'adottavano diventavano così delle potenze militari, grazie anche alle temibili armi biologiche costituite dalle malattie infettive contratte dal bestiame.

   In pratica era avvenuto che per la prima volta la cultura, approfittando di una grave crisi ambientale, aveva fatto uscire l'uomo fuori della sua nicchia ecologica ancestrale (di predatore opportunista - frugivoro, la stessa occupata dagli orsi alle latitudini boreali), insediandolo in una nicchia totalmente estranea alla sua matrice istintiva e prendendolo quindi letteralmente in ostaggio, avvolgendolo in un “bozzolo” di problemi inusitati e nuove protesi tecniche e culturali per tamponarli. Esso si ingrandiva ormai con effetto valanga a ogni nostra convulsione creativa per uscirne (alla disperata ricerca dell'Eden perduto), proprio come a un certo punto gli strattoni di una mosca caduta in un ragnatela non solo non possono più liberarla, ma la intrappolano sempre di più. Il perenne stato di disagio, di oppressione, di trauma psichico e fisico rendeva l'uomo perennemente ricettivo verso le novità, che rinnovavano la prigionia umana a nuovi livelli di profondità e alienazione, e così via.
   I primi agricoltori non erano per nulla entusiasti della loro straordinaria “scoperta”, ma profondamente tristi e pieni di nostalgia per la meravigliosa vita di un tempo (qui nasce il mito universale dell'Eden e dell'Età dell'oro), che avevano dovuto abbandonare per l'improvvisa rarefazione delle risorse spontanee, con la viva speranza di un loro rapido ritorno. Non si trattò di un formidabile progresso, ma di un fastidioso ripiego che si sperava dovesse essere solo temporaneo. Invece fu l'occasione che trasformò la cultura, efficiente alleata dell'uomo per milioni di anni, in una macchina autoalimentante e autonoma che ha ci ha imprigionato in una specie di capsula del tempo, non solo impedendo definitivamente l'atteso ritorno degli elefanti e degli asfodeli, ma rigenerando attivamente e continuamente quello stato traumatizzato che affievolisce la nostra innata resistenza alle novità, ci rende ansiosi, avidi e spregiudicati.
   La fine della transitoria crisi climatica avrebbe dovuto riportare l'equilibrio: solo che a questo punto le sovrastrutture culturali (in forma fisica e simbolica) erano arrivate a una soglia di complessità e integrazione oltre la quale l'uomo si ritrovò loro prigioniero. Una volta rinchiusi i nostri adattamenti genetici in un contesto innaturale impararono rapidamente a sfruttare la frenesia reattiva al disagio provocato dalla prigionia stessa. Così, invece di limitarsi a tamponare gli effetti delle trasformazioni ambientali, non hanno più fatto altro che inventare nuovi sistemi per sfruttare l'ambiente in modo sempre più intensivo e distruttivo, esattamente come quando la normale, fisiologica capacità rigenerativa dei tessuti degenera in un cancro inarrestabile, che finisce per uccidere l'intero organismo. È qualcosa di molto simile alle malattie progressive, come quelle autoimmuni, in cui una eccessiva reazione immunitaria crea una lesione, la quale richiama ancora altri anticorpi per tamponare il danno, che aumenta ancora di dimensioni, e così via. L'ecosistema non poteva più rispondere trovando un nuovo equilibrio, dato che tutte le sue altre componenti (piante e animali) possono adattarsi solo col lento ritmo dell'evoluzione biologica: si entrò così in uno stato di crisi cronica, che oggi è più che mai evidente.
   Il passaggio all'agricoltura fu una rivoluzione copernicana, che trasformò le idee da semplice corollario degli istinti a interfaccia totale tra uomo e ambiente. Fu quello il passaggio cruciale, in cui ci mettemmo totalmente in mano alle protesi tecnologiche, che ci chiusero in un bozzolo culturale assumendo su di noi un potere decisivo.
   In questo involucro pseudobiologico che ci ha resi schiavi hanno avuto, soprattutto all'inizio, un ruolo fondamentale anche le piante domestiche, oltre alla cultura. In effetti non è vero che noi abbiamo addomesticato i cereali, ma è esattamente il contrario. Quando i proto-agricoltori cominciarono, spinti dalla carestia, a coltivare le graminacee annuali in Siria, Cina meridionale e Messico, non fecero che isolare una popolazione da quelle rimaste selvatiche, favorendo inconsapevolmente un processo di rapida evoluzione, tipico delle piante annuali, che comprende persino la possibilità di creare una specie separata nel giro di due generazioni, per ibridazione e raddoppiamento del numero cromosomico. Grazie a questo completo isolamento genetico dalla forma selvatica le neonate specie domestiche poterono evolvere molto in fretta caratteristiche che le rendevano particolarmente competitive, come rese elevate e il mancato distacco dei semi a maturità che facilita la raccolta. In questo modo le specie neonate si assicuravano una sempre maggiore dipendenza da parte dei coltivatori, che, immersi in una spirale demografica, erano spinti a dissodare praterie ed abbattere foreste per far crescere solo queste piante, nonostante i pesanti costi sanitari e sociali che questa dipendenza comportava. Il rapporto nei nostri confronti diventa quindi sempre più decisamente parassitario, e simbiotico con la cultura tecnologica, con cui vanno a formare l'involucro che ci tiene prigionieri. Con l'ingegneria genetica questo intimo rapporto simbiotico tra piante domestiche e tecnologia è diventato assolutamente evidente. Le piante domestiche non sono “prigioniere” dei contadini; si tratta di specie ben separate da quelle selvatiche e completamente adattate alla vita nei campi coltivati, mentre noi siamo ancora ampiamente disadattati ai campi coltivati e alle città. Quindi siamo noi ad essere prigionieri, in ostaggio delle piante parassite e delle tecnologie che hanno costruito attorno a noi una vera e propria gabbia, dalle sbarre rese sempre più abilmente invisibili e dorate.

   Le culture dei popoli raccoglitori, estremamente simili tra loro, sono molto “leggere”, legate ai rituali di caccia e di raccolta, quindi essenzialmente orientate verso l'ambiente naturale esterno, attraverso un'intima simbiosi con i suoi cicli e le sue strutture, che si esprime in una grande sensibilità estetica per la sua integrità, mentre per quanto riguarda l'organizzazione interna sono tipicamente “espressive”, non strutturate, libere. Quelle dei popoli agricoltori, invece, sono fortemente centrate su una rigida organizzazione sociale interna, sulle cerimonie di rango, di casta, di sacrificio e di subordinazione rituale, su innumerevoli tabù alimentari e sessuali, mentre verso il mondo esterno sono fondate sulle manipolazioni fisiche e magiche delle forze naturali e sulla conquista militare. L'attenzione viene focalizzata sui leader, sugli idoli e sulle gerarchie, attraverso una complessa sovrastruttura chiassosa ed ipnotica che assegna a ognuno un posto preciso e ha precise aspettative nei suoi confronti: il singolo viene come “incapsulato” in un ruolo consacrato totalizzante, mentre il suo “io” si isola e si solidifica a causa della tensione irrisolvibile tra desideri e realtà sociale rigida e artefatta (nasce il “super-io” freudiano, che nelle società di raccolta è irriconoscibile). Si tratta delle conseguenze inevitabili dello stravolgimento dell'organizzazione sociale, della sua inevitabile militarizzazione, della tecnologia complessa e della conseguente necessità di assumere una molteplicità di ruoli specializzati. Tutto un complesso radicalmente nuovo e dissonante rispetto alle inclinazioni naturali formatesi in milioni di anni di evoluzione come raccoglitori, che crea un sistema così strutturato e complesso da arrivare a liberarsi dell'antica relazione simbiotica col genoma, partendo letteralmente per la tangente con un'evoluzione autonoma e rapidissima, che i geni non potevano in alcun modo seguire. Certe particolari reazioni adattative innate di fronte alle situazioni di grave crisi (l'assunzione di una struttura gerarchica autoritaria, la xenofobia, l'avidità, l'egoismo) vengono cronicizzate.
   La cultura ancestrale, integrata profondamente con la natura umana e il suo ambiente, orientata all'armonia ed essenzialmente conservatrice, venne letteralmente scardinata da una che costituiva un sistema chiuso, un “pacchetto” autonomo, totalmente slegato dalla nostra natura psicologica, e quindi inevitabilmente orientato a comprimerla. L'autonomia e l'originalità del software “agricoltura” capovolgeva i termini dell'antico rapporto geni–cultura: quest'ultima diventava una “interfaccia globale” nei confronti del nuovo habitat e della selezione naturale, isolando la natura genetica umana al suo interno; questo sistema autosufficiente cominciava così a “gestire” l'uomo come un suo vincolo ambientale, da condizionare, manipolare, sfruttare e blandire. L'uomo viene letteralmente catturato dalla nascente “noosfera”, che chiude attorno a lui il cerchio di una organizzazione pseudobiologica, diventando un vero e proprio organismo vivente e autonomo.

simbiosi
la simbiosi geni-cultura-ecosfera

superorganismo
la cattura dell'uomo nel superorganismo parassita (noosfera)

   In alcune località lontanissime tra loro le idee assunsero una posizione dominante, mettendo tra parentesi la natura umana. Liberate da ogni vincolo simbiotico con la natura umana e il suo ambiente d'origine, si danno immediatamente un proprio DNA, la scrittura, trasformandosi in un vero organismo indipendente, capace di una devastante velocità evolutiva e quindi dotato di un'attitudine fortemente parassitaria verso l'uomo e la biosfera. Il ritmo dell'evoluzione culturale subì un'accelerazione esplosiva ed ecologicamente malsana, con cambiamenti troppo veloci perché l'evoluzione genetica riuscisse a registrarli. Questa cultura predatoria ha potuto così sviluppare rapidamente, per semplice selezione, la capacità coordinata di gestire quello che era ormai solo un vincolo ambientale, intimamente estraneo e naturalmente avverso: la natura psicologica dell'uomo. Il meccanismo chiave, come abbiamo visto, è quello di rigenerare continuamente le sue basi psicosociali costituite da una mentalità paranoico-compulsiva, tipica di uno stato traumatizzato. Sola la cronicizzazione di questa patologia reattiva poteva consentirle di scardinare l'innato conservatorismo fisiologico che aveva sempre tenuto la cultura solidamente ancorata alla natura umana e all'ecosfera. Questo conservatorismo di fondo è una forza così potente che in alcune culture entrate nella spirale parassitaria della civiltà riuscì temporaneamente ad affermarsi di nuovo, seppure in forme secondarie sempre più instabili.
   Proviamo a immaginare un animaletto unicellulare che avesse sviluppato sulla sua superficie dei piccoli organelli accessori, che lo mettono in grado di affrontare delle ricorrenti modificazioni ambientali; questi organelli hanno la peculiare caratteristica di potersi riprodurre e diffondere facilmente, attaccandosi ad altri esemplari. In risposta a una crisi ambientale particolarmente severa, forse provocata da loro stessi, alcuni di questi organelli si unirono a formare un grande involucro complesso, un bozzolo che avvolgeva completamente il microrganismo, e lo metteva in grado di abbandonare la sua nicchia degradata per trasferirsi a un diverso livello trofico. In questo modo il nostro microbo diventava a sua volta un semplice organo interno di un organismo più grande di lui. La sua funzionalità complessiva non aveva più alcuna importanza nel nuovo ambiente. Adesso la selezione agiva invece rapidamente sul suo “involucro”, organizzandolo come un vero organismo complesso e strutturato, che cominciava ad istruire, addomesticare e sfruttare il nostro animaletto secondo i suoi bisogni, separandolo ancora di più dal mondo esterno e riducendolo a una vera e completa schiavitù. Dato che esso rappresenta un corpo estraneo al suo interno, un vincolo immodificabile che limita il suo potenziale evolutivo, il nuovo organismo tende ad assorbirne le residue funzioni fino ad escluderlo del tutto.
   La razionalità e la consapevolezza umane, di cui andiamo così fieri, operano in un quadro molto limitato, come se le idee fossero ancora quelle ancestrali, semplici entità slegate fra loro, di cui si poteva padroneggiare l'intero processo logico, che era palese e pienamente accessibile, come i primi programmi per computer. Con la nascita di una rete informatica veramente complessa e sistemica nessun singolo programmatore ha più il controllo dello sviluppo del software generale di sistema, che diventa una sorta di ragnatela inestricabile di cui riesce a vedere solo singoli pezzi, mentre essa acquista comunque per selezione una sua efficiente dinamica autonoma (è esattamente quello che sta accadendo con lo sviluppo di Internet). Questo software di sistema esiste da molto tempo prima della nascita dell'elettronica: tutti i sistemi economici, ideologici e tecnologici sono software, saldamente integrato da migliaia di anni in un grande complesso, che chiamiamo “civiltà”. La complessa organizzazione di un'azienda, di un partito, di uno stato o della Rete mondiale non è certo un'invenzione deliberata del cervello umano, né una semplice somma grezza di invenzioni elementari: si tratta di “sistemi adattativi complessi”, come si definiscono oggi, che evolvono al di fuori di ogni controllo cosciente umano.
   Questo sistema culturale organico e integrato ci ha quindi letteralmente asserviti ai suoi naturali interessi egoistici di espansione e conquista planetaria. È diventato una formidabile macchina culturale fuori da ogni nostro controllo, dotata di innumerevoli e astuti mezzi psicologici ed esche per plagiarci sfruttando le nostre inclinazioni, i nostri più immediati centri della motivazione e del piacere.

esche

   Il dinamismo integrato e spontaneo della civiltà moderna rende la nostra situazione molto più simile a quella di chi si trova a bordo di un missile con pilota automatico lanciato a folle velocità verso l'ignoto, che a quella di chi guida un'automobile ben governata. La cosa più umoristica è che non siamo semplicemente degli ostaggi rinchiusi a chiave nella stiva: ci vengono forniti una cloche e innumerevoli leve e pulsanti colorati, con altrettanti pannelli e indicatori che ci danno un'illusione di pieno controllo (altrimenti finiremmo per sabotare il volo, come talvolta è già accaduto). Quei pannelli, che noi crediamo dei semplici indicatori “obiettivi”, in effetti ci forniscono delle suggestioni manipolate per farci credere che la direzione del missile è proprio quella dove è giusto andare, che sono le nostre azioni sui comandi a dirigerlo lì. Il missile si allontana dalla Terra, identificata dal sistema con una sorta di fangoso e indegno porcile, per dirigersi verso le scintillanti galassie dell'utopia, di un mondo post-umano.
La diffusione della ragione non ha prodotto un mondo soggetto alle nostre previsioni e al nostro controllo, come credevano i pensatori illuministi. Anzi, esso appare oggi più selvaggio, frenetico e ingovernabile di quanto sia mai stato (per quanto cerchi di rassicurarci in mille modi che non è così). Ciò non è dovuto a una somma di errori e difetti di progettazione: al contrario, quello che abbiamo di fronte è un sistema ben integrato, organico, aggressivo e sapientemente orientato al proprio sviluppo. La “pura ragione” è stata l'illusione compulsiva e paranoica di un controllo totale sul mondo (compito che la nostra mente non può nemmeno lontanamente affrontare: non è nata per quello) con cui la tecnologia ha messo il nostro cervello al suo servizio, distogliendolo dai suoi fini autentici e assumendo un immenso potere. La fiduciosa saggezza ancestrale, sconvolta dalla rivoluzione agricola, sapeva da sempre che il mondo è la nostra unica, perfetta, sacra dimora (al di là di ogni tentativo di dissacrante analisi riduzionistica: esso trascende l'“analisi” empirica, di cui è il presupposto e lo sfondo).
   La lusinga più elementare della cultura parassita è quella di farci credere che siamo assolutamente migliori degli altri animali proprio a causa della nostra schiavitù: con tono trionfale e superbo, essa ci dice che “l'uomo non si adatta all'ambiente, ma adatta l'ambiente alle sue necessità”; ci suggerisce implicitamente che siamo totalmente estranei all'ecosfera, come una sorta di angeli caduti in un mondo feroce e ostile (anche attraverso un ben preciso indottrinamento ideologico), dimenticando che l'ambiente ancestrale era perfettamente adatto a noi. Noi non abbiamo trasformato i deserti in una verde prateria, ma abbiamo trasformato le praterie in deserti e in brulicanti formicai di ferro, plastica e cemento, a cui siamo intimamente disadattati. È lei invece ad essere radicalmente estranea e antagonistica nei confronti dell'ecosfera.

   Il programma “agricoltura” si diffuse attraverso l'esibizione di formidabili vantaggi immediati; anche i virus biologici spesso sono avvolti in un involucro attraente che induce le cellule ospiti a fagocitarli, come dei veri e propri “cavalli di Troia”. Quando un cacciatore-raccoglitore osservava l'incredibile abbondanza di cereali immagazzinabili e assaggiava del morbido pane di frumento o un delizioso formaggio non poteva immaginare che la promiscuità con il bestiame gli avrebbe portato delle terribili malattie, che gli amidi adesivi del pane gli avrebbero cariato i denti, che un paio di stagioni secche o troppo piovose avrebbero fatto morire di fame i suoi figli, che la cronica carenza di proteine gli avrebbe gonfiato la pancia, che l'immagazzinamento di derrate e il possesso di animali lo avrebbero esposto ai ricatti di un racket di parassiti sociali e di truffatori di professione, dei quali sarebbe diventato schiavo. Lui vedeva solo delle cose formidabili e buone, che gli sembravano irresistibili. Da allora questo genere di trappole entusiasmanti si è freneticamente moltiplicato: basta ricordare le automobili, l'energia nucleare, i pesticidi, ecc.
   Quando le conseguenze drammatiche della rivoluzione agricola divennero evidenti non era più possibile rigettarla, come si sarebbe fatto in passato per una innovazione singola e circoscritta: si trattava di una sovrastruttura pervasiva e ormai inestricabile, da cui l'uomo era completamente dipendente per la sua stessa sopravvivenza fisica.
   Così questa cultura ha rapidamente sviluppato la sua natura parassitaria e dominante attorno a un meccanismo fondamentale: sfruttare la frustrazione e l'angoscia che produce negli uomini per attirarli verso ulteriori addomesticamenti, rafforzandosi ancora di più. Un vero e proprio circolo vizioso (o virtuoso, dal suo punto di vista). In questa spirale perversa la cultura si evolvette in fretta, diventando sempre più complessa, organizzata e abile nel blandirci con esche sempre più sofisticate. Un esempio davvero subdolo e formidabile fu l'utilizzo delle deliziose utopie della Pace assoluta, del Paradiso e dell'Uguaglianza per attirare un'umanità stremata da guerre, tirannie e schiavitù verso l'addomesticamento e la disumanizzazione ancora più radicale delle guerre “sante”, dell'Inquisizione e soprattutto del monastero, da cui ebbero origine la fabbrica e le “democrazie” socialiste. Ma ne esistono molti altri, come vedremo.

   È ben noto che le società di insetti sociali e le complesse società civilizzate possiedono inquietanti e non certo casuali somiglianze. In entrambe gli individui appaiono ridotti al ruolo di semplici ingranaggi di una grande macchina integrata. Nei sifonofori, invertebrati marini simili a meduse costituiti da un gran numero di individui altamente coordinati, questo processo si è spinto ancora più avanti: il singolo organismo, inglobato nella massa gelatinosa, non conta quasi più nulla; alcuni membri della colonia sono privi di stomaco, ad altri manca il sistema nervoso, la maggior parte non si riproduce mai e quasi tutti possono essere sacrificati e sostituiti. Le società delle api e delle formiche sono state idealizzate come modello di società perfetta da molte ideologie civilizzatrici: lo studioso domenicano Tommaso di Cantimpré compose nel medioevo un'opera singolare in cui descrisse l'ideale della vita cristiana prendendo a modello l'austera organizzazione del mondo delle api, rigorosa, specializzata e gerarchica.
   Quasi un secolo fa il grande naturalista americano W.M. Wheeler formulò il concetto di “superorganismo” per le colonie di insetti, concetto che successivamente è stato esteso naturalmente alla civiltà umana: “la colonia è un organismo e non semplicemente un insieme di individui”.
   Le qualità più importanti che qualificano una di queste società come organismo sono le seguenti: 1) costituisce l'unità fondamentale su cui agisce la selezione naturale; 2) presenta caratteristiche comportamentali emergenti, non deducibili dal comportamento di un singolo individuo o di un insieme casuale di individui; 3) presenta un ciclo di sviluppo e riproduzione di tipo chiaramente adattativo; 4) preserva attivamente la sua identità attraverso una serie di risposte dinamiche alle influenze esterne.
   Successivamente ci si rese conto però che per gli animali coloniali il concetto di superorganismo, benché fosse assolutamente corretto, non era particolarmente produttivo. In effetti anche un singolo organismo complesso, come un mammifero, potrebbe essere visto come un “superorganismo” costituito da miliardi di cellule specializzate, ma la cosa non ha conseguenze decisive, per la semplice ragione che la società e il singolo condividono lo stesso patrimonio genetico, che concorrono a proteggere e diffondere. Tutte le caratteristiche “emergenti” di una colonia di insetti sono scritte nel DNA di un singolo esemplare; non esiste alcuna cesura netta tra la sfera dei comportamenti individuali e di quelli della società nel suo insieme. Quindi una colonia di api non costituisce un organismo nuovo e indipendente: appartiene alla specie Apis mellifera L. esattamente come la singola operaia.
   Nel caso delle civiltà umane, nate dopo la rivoluzione agricola, accade per la prima volta nella storia della vita che una società acquista l'elemento essenziale che mancava per distinguerla come una vera forma vivente autonoma: una propria sostanza genetica indipendente da quella dei singoli individui, che non solo utilizza canali riproduttivi separati, ma possiede anche una velocità evolutiva molto diversa. Questo avviene quando gli elementi sparsi della cultura si organizzano in un complesso avvolgente e strutturato, decisivo per la sopravvivenza umana e non più direttamente dipendente dai nostri adattamenti genetici, che sviluppa un suo sistema autonomo di produzione e conservazione dell'informazione genetica, all'interno di un “soma” complesso: la scrittura, l'ambiente costruito dei campi, dei canali e delle città. Insieme costituiscono un sistema che si conserva e si riproduce indipendentemente dalle idiosincrasie soggettive dei suoi portatori umani, e può evolvere così per conto proprio alla velocità di cui è capace. Le nostre società non sono quindi solo dei “superorganismi” umani, ma costituiscono delle specie nuove, nettamente distinte da Homo sapiens L. Quindi la selezione naturale che opera al livello delle società tende inevitabilmente a costruire un'attitudine parassitaria nei nostri confronti, premiando i sistemi ideologici che riescono a distogliere l'uomo dalle sue inclinazioni naturali (tranne quelle essenziali per la sopravvivenza come specie) così da asservirlo alle proprie esigenze. Esattamente quello che fa nei confronti degli altri animali domestici: i superorganismi parassiti hanno schiavizzato questi animali per sfruttarli nella loro accanita competizione, proprio come hanno fatto con noi.
   Il fenomeno ricorda certe forme di parassitismo sociale che si verificano frequentemente proprio nelle colonie di insetti sociali. Così le descrisse efficacemente Wheeler: “Se ci dovessimo comportare in maniera analoga dovremmo vivere in una società molto simile a quella di Alice nel paese delle meraviglie. Dovremmo divertirci a tenere in casa istrici, alligatori, granchi, ecc., insistere perché si siedano a tavola con noi e alimentarli così sollecitamente che i nostri bambini diventerebbero rachitici”. Mutatis mutandis è proprio quello che facciamo. Al posto di queste bizzarre creature ce ne sono di ancora più strane: automobili, vestiti, carriera, azienda, denaro, partiti e squadra del cuore, per i quali sacrifichiamo il nutrimento affettivo dei nostri figli, parcheggiandoli davanti alla tv (o arriviamo addirittura a rinunciarci del tutto). La ragione per cui né noi né le formiche parassitate espelliamo prontamente questi mostruosi tiranni alieni è la stessa: la produzione da parte loro di stimoli estremamente allettanti, di gran lunga più appaganti di quelli naturali prodotti dai nostri figli, delle vere e proprie esche con cui veniamo plagiati fino a trasformare la nostra organizzazione sociale in modo del tutto aberrante e patologico (per noi, ma fisiologico per loro). Il parassita effettua una violazione dei codici appetitivi e motivazionali dell'ospite, che nel nostro caso, per la pratica impossibilità di evolvere contromisure a causa dell'inusitata velocità evolutiva della cultura, è diventata sistematica e assoluta, fino a una vera e propria domesticazione.
   Nel caso degli insetti è la presenza di grossi nidi ad offrire opportunità di facile inserimento a forme estranee; essi corrispondono alla nostre dense società urbane, in cui hanno potuto formarsi autonomamente delle entità software di natura pseudo-biologica. Nel nostro caso, da un iniziale mutualismo tra uomini e idee si è passati a una dipendenza totale da una cultura strettamente integrata e organizzata come una vera forma di vita autonoma, con caratteri adattativi emergenti non deducibili in alcun modo dal repertorio comportamentale umano.
   Un'ape operaia non può essere considerata “schiava” della colonia nel suo insieme perché tutto il suo repertorio comportamentale si è evoluto parallelamente a quello della colonia, che costituisce il suo ambiente naturale; un insieme di api tende inevitabilmente a riprodurre una colonia tipica.
   Nel nostro caso, invece, un insieme di esseri umani non tende affatto a produrre naturalmente una civiltà agricola stratificata. La nascita di queste civiltà ha rappresentato un fatto del tutto eccezionale e localizzato. Se, per assurdo, un gruppo di neonati europei fosse allevato da delle femmine di scimpanzé in un territorio disabitato e ricco di vita, produrrebbe senza alcun dubbio nel giro di qualche generazione una tipica società di cacciatori-raccoglitori (non una società simile a quella degli scimpanzé), che si manterrebbe indefinitamente come tale, a meno che non si verificassero le circostanze del tutto particolari della crisi di diecimila anni fa.
   Fin dalla sua nascita come entità vivente autonoma la cultura cominciò ad evolversi in modo rapido, aggressivo e antagonistico rispetto alla nostra natura, sempre più addomesticata e alienata. Da quel momento in poi è cominciata una rapida transizione verso una nuova ecologia post-biologica, transizione che noi, plagiati dalla logica della civiltà, chiamiamo stupidamente “progresso”. La vita selvatica, il nostro unico vero habitat, viene velocemente distrutta per far spazio alle macchine; l'uomo e gli animali domestici perdono sempre più forza e autonomia, si riducono a semplici appendici della civiltà, fino a diventare totalmente inetti.

   Si pensi a quello che è accaduto nel più formidabile e integrato “superorganismo” dell'universo: il cervello. Si tratta di una “società” di miliardi di cellule talmente collegate tra di loro (ognuna con centinaia o persino migliaia di connessioni) da essere ormai niente di più che semplici cavi di trasmissione degli impulsi elettrici. La cellula nervosa cerebrale assomiglia vagamente a un albero in miniatura: dalla ceppaia emerge una larga rosa di radici ramificate (i dendriti); una di queste diramazioni è molto più lunga delle altre (l'assone, simile al tronco), e dal suo apice emerge una chioma di rami. Il messaggio, ricevuto sulle radici dell'albero, percorre il tronco per andare verso tutti gli altri alberi collegati. Ogni cellula nervosa invia segnali a centinaia di migliaia di altre cellule grazie alle sue sinapsi all'estremità dei dendriti, e riceve informazioni da una miriade di sinapsi simili sul corpo principale della cellula e sull'assone. L'informazione codificata da una cellula si limita a un solo “bit”: sulla base degli stimoli che riceve dalle altre cellule può attivarsi e “sparare” a sua volta un impulso oppure rimanere in silenzio. La scelta dell'una o dell'altra risposta dipende dalla somma degli impulsi ricevuti da tutte le altre cellule con cui è collegata: se la maggior parte dei neuroni a cui è connessa rimane silenziosa, allora fa lo stesso, altrimenti si attiva e lancia un impulso elettrico a tutte le altre. La soglia di attivazione può essere però innalzata (o abbassata) drasticamente dalla maggiore o minore presenza di alcune sostanze chimiche (neurotrasmettitori) all'esterno, a livello delle sinapsi. Alcune di queste sostanze sono stimolanti, altre invece inibitrici, ma la loro azione è modulata in base al tipo di neuroni e alla loro localizzazione. Vi sono infatti diversi tipi di neuroni per varie funzioni, riconoscibili per la forma particolare, come alberi di specie diverse.
   I neuroni sono organizzati in sottosistemi, che dialogano con altri complessi simili fino a formare sistemi di sistemi, creando circuiti riverberanti, come serpenti che si mordono la coda.
   Sembra incredibile che un tempo tutte le nostre cellule, comprese quelle cerebrali, fossero dei veri animaletti autonomi (protozoi), con una propria intelligenza e capacità di interagire in modo assai complesso con il mondo circostante, grazie alla loro autosufficienza e indipendenza. Dal loro “punto di vista” non si direbbe un gran progresso, se non fosse che il neurone, esattamente come l'ape, si è radicalmente trasformato adattandosi perfettamente alla nuova situazione: l'uomo è invece rimasto lo stesso “protozoo” di prima, costretto da una forza esterna ad ammassarsi in un allucinante e innaturale coacervo.
   Nella società democratica di massa e della comunicazione globale la vita del singolo tende ad assomigliare a quella del neurone: perennemente collegato a migliaia di altri individui e sistemi di individui viene bombardato continuamente da stimoli che si limita a “pesare” con meccanismi demoscopici (gli onnipresenti sondaggi e ricerche di mercato, trasformati in forma sempre più automatizzata e implicita) per decidere se unirsi al coro e rilanciare passivamente il messaggio ricevuto, o restare silenzioso. Dato che deve operare in “tempo reale” e conta sempre di più solo la velocità di risposta, i messaggi diventano sempre più stupidi ed elementari, fino a ridursi a un singolo bit di informazione: “sì”, “no”. Il processo di elaborazione intelligente e di controllo generale si trasferisce totalmente a livelli superiori di integrazione. La natura riverberante dell'attività cerebrale, che produce il pensiero, trova il suo parallelo nella circolarità tipica della società di massa, in cui segnali sempre più elementari rimbalzano velocissimi attraverso le reti per amplificarsi in forma di programmi, di tecniche, di mode che nessuno ha deliberatamente creato. L'efficienza del superorganismo dipende dalla velocità con cui l'informazione circola attraverso questo “sistema nervoso”: i punti deboli sono costituiti, evidentemente, dalle menti umane, intrinsecamente inadatte a svolgere questa funzione riduttiva e trasparente. L'attività mentale umana, con la sua ricerca del significato, della creatività, della sensualità, rallenta il flusso dell'informazione, così viene prima lobotomizzata con il condizionamento pubblicitario fino al limite di sostenibilità psicologica, quindi inevitabilmente estromessa come “rumore” inutile e inefficiente. È evidente che gli esseri umani, a differenza dei neuroni e delle api, perfettamente adattati al nuovo ruolo, non potranno mai sopportare un simile livello di spersonalizzazione senza una drastica, dispendiosa e complessa manipolazione genetica. È molto più semplice sostituirli con meccanismi telematici automatizzati, processo che gli uomini stanno accogliendo con il solito grande entusiasmo (un'altra fatica risparmiata, come quella della vanga e della catena di montaggio). Il risultato inevitabile è che, senza nemmeno accorgercene, diventiamo zavorra inutile. Così come il superorganismo predatorio ha già cancellato buona parte della biosfera come freno al suo dirompente sviluppo, cancellerà anche l'uomo, che è altrettanto “antiquato” e “inefficiente” di una foresta di sequoie.
   Al di là del fatto che il nuovo superorganismo informatico ci è intrinsecamente estraneo e ci ha resi suoi schiavi, si potrebbe vedere in questa storia un'aria di inevitabilità, per cui l'uomo viene alla fine superato dal cammino evolutivo verso forme “superiori” e più complesse di vita. Ma questo organismo non ha nulla di “superiore” (nemmeno su un piano astrattamente teoretico, come vedremo): in realtà appare come una mostruosità biologica avviata verso l'autodistruzione, all'apice di un esplosivo successo. Il suo “difetto” di fondo è rappresentato proprio dalla sua abnorme velocità evolutiva.
   Tutte le altre forme viventi condividono lo stesso meccanismo genetico fondamentale e sono quindi profondamente sintonizzate su un passo evolutivo comune, abbastanza lento da lasciar sviluppare le diversità genetiche su cui la selezione naturale può agire efficacemente, a livello di individui, popolazioni, specie e biomi. Questo ritmo evolutivo si è gradualmente messo a punto in tre miliardi di anni sulle dimensioni e le caratteristiche geografiche della Terra, formando un sistema integrato, ma non al punto da soffocare una grande differenziazione interna. Un lunghissimo processo di ottimizzazione dell'ecosistema planetario che la rivoluzione neolitica ha irrimediabilmente stravolto, scompensato. Il nuovo organismo si sviluppa con una velocità chiaramente patologica e distruttiva che assomiglia moltissimo alla crescita di un tumore in un corpo sano; tutte le diversità locali, sia biologiche che culturali, vengono cancellate a un ritmo rapidissimo. Per inciso, l'intero ecosistema terrestre sta scricchiolando sotto un peso fisicamente insostenibile. La Rete sta ingoiando l'intero pianeta, e così sta ingoiando anche sé stessa, distruggendo ogni diversità su cui possa ancora operare efficacemente la selezione naturale e ponendo fine a ogni possibile ulteriore evoluzione. La sua esponenziale entropia connettiva trasformerà il dinamico, variopinto campo di battaglia del pianeta vivente in una sfera monotona, inerte, affacciata solo sul nulla dello spazio esterno, disperatamente vuoto e inaccessibile.
   Le riserve di diversità culturale e biologica accumulate nel passato vengono oggi letteralmente saccheggiate, sradicandole dal contesto locale che le aveva create (che viene distrutto dall'eliminazione di ogni barriera) per ammassarne le “pelli” nella banca dati globalizzata, dove vengono mescolate in combinazioni sempre più ibride, pasticciate e insapori: è la “liquefazione” digitale. Un grande fermentatore planetario che alla fine ridurrà anche se stesso a poltiglia senza vita, dissolvendosi con i potentissimi succhi gastrici che gli hanno assicurato un formidabile successo predatorio. Senza più nient'altro da conquistare, omogeneizzato a morte dalla sua inerzia intrusiva e connettiva, si affloscerà sulla sua informe unicità.
   Solo una sua ipotetica espansione su distanze interstellari potrebbe creare ostacoli significativi allo scambio omologante di informazione, grazie alla velocità limitata dei messaggi radio, consentendogli una moltiplicazione differenziata e quindi un'evoluzione ulteriore, ma si tratta di una possibilità assolutamente inesistente: i primi entusiastici approcci si sono già esauriti da un pezzo. Un cancro non può uscire dal corpo: è condannato a uno stupido “successo” suicida. Il fittissimo brulichio comunicativo si trasformerà in un flebile ronzio di impulsi sempre più fatui, un flusso circolare e pleonastico che non avrà più nulla da comunicare e improvvisamente diventerà fibrillazione, paralisi. Si stanno creando le premesse per un gigantesco loop planetario che risucchierà la Rete su sé stessa, portandola al collasso prima ancora di un inevitabile breakdown accidentale.

   L'effettivo sviluppo “organismico” della cultura e l'involuzione parassitaria dei suoi ospiti umani possono essere dimostrate utilizzando il modello sperimentale costituito da un programma per la “simulazione della vita” appositamente progettato. Programmi del genere esistono da più di vent'anni e hanno consentito interessantissime osservazioni dell'evoluzione “all'opera” in condizioni ben controllate e riproducibili, riducendo i tempi lunghissimi del mondo biologico reale. Il programma “Tierra” di Thomas Ray è l'esempio più famoso e riuscito, facilmente scaricabile su qualsiasi pc. Gli “organismi”, sotto forma di brevi programmi, entrano in competizione per ottenere tempo di elaborazione e riprodurre copie di sé stessi, che possono subire mutazioni. La competizione e le mutazioni causano perciò l'evoluzione del sistema fino a un punto di equilibrio. Una delle più grandi sorprese emerse in queste simulazioni è stata l'evoluzione spontanea e imprevista di organismi “parassiti”: si poté osservare in seguito che i programmi ospiti evolvevano risposte difensive per bloccare le incursioni dei parassiti, e che anche questi a loro volta mutavano per aggirare le difese: un perfetto esempio di corsa agli armamenti coevolutiva, che trova numerosi riscontri nel mondo reale. La differenza sostanziale con i “parassiti” culturali è che rispetto alla loro velocità di evoluzione gli organismi ospiti sono praticamente immutabili. Quindi per simulare lo sviluppo della cultura si dovrebbero predisporre degli “organismi” software immutabili, che si procurano alimento e si difendono dai pericoli in un ambiente instabile, attraverso dei sottoprogrammi satelliti ad alta mutabilità e facilmente trasmissibili per “contagio”. L'introduzione di trasformazioni ambientali sempre più pesanti e repentine innescherebbe la proliferazione e l'integrazione dei sottoprogrammi, fino a formare un vero e proprio “guscio” attorno ai programmi-base. Questi ultimi si ritroverebbero ad interfacciarsi esclusivamente con questa sovrastruttura integrata, mantenendo solo funzioni grezze, come la nutrizione. Infine, dopo un tempo relativamente breve, anche queste funzioni verrebbero sviluppate dai nuovi organismi, in forme più adeguate al nuovo contesto da essi creato, e i programmi-base sparirebbero rapidamente, come un'impalcatura di sostegno quando viene inserita la chiave della volta.
   È più probabile, però, che prima di arrivare a questo punto l'intero “ecosistema”, interamente fatto di specie immutabili come i programmi-base, collassi sotto il peso di questa formidabile iperplasia.

   Per dissipare ogni residuo dubbio sul fatto che la cultura tecnologica sia davvero una forma di vita autonoma e parassita utilizzerò una metafora “fantabiologica”.
   Immaginate una popolazione di insetti erbivori che vive su una grande isola. Il clima sull'isola è instabile, così la vegetazione cambia abbastanza frequentemente. Gli insetti hanno superato questo problema entrando in simbiosi con dei batteri che vivono nel loro apparato digerente: questi batteri hanno una velocità di risposta evolutiva eccezionalmente alta, e sono in grado di diffondersi con estrema facilità, per semplice contatto. Producono degli enzimi digestivi che consentono agli erbivori di digerire le foglie di cui si nutrono. Così quando la vegetazione cambia repentinamente sono subito in grado di assimilarla. Costituiscono quindi un fattore di stabilità in un ambiente instabile. Tutto così funzionava tranquillamente fino a quando non emerse una varietà di batteri del tutto nuova, che consentiva agli erbivori di digerire anche le foglie mature, ricche di tannini tossici. La popolazione in cui comparve questa mutazione batterica ebbe una notevole espansione demografica, e cominciò ad invadere i territori vicini, respingendo i residenti verso aree marginali. Le foglie mature mantenevano però degli effetti tossici di tipo cronico; inoltre le piante non potevano sopportare una pressione del genere, a cui non sono adattate; quindi cominciarono a morire. Dopo l'intossicazione, si diffuse così la carestia. Gli insetti che avevano accolto questi batteri morirono in molti e il sistema immunitario dei sopravvissuti diventò molto sensibile nel discriminare i vecchi batteri “sani” da quelli aberranti e pericolosi. Nonostante il pericoloso potenziale mutageno dei batteri, riuscivano a mantenere così un sostanziale equilibrio simbiotico con loro e con l'ambiente.
   Ma durante una crisi ambientale particolarmente violenta si presentò una mutazione batterica del tutto nuova, che metteva gli animali in grado di assimilare l'erba dei prati sterminando nel contempo le specie di insetti che avevano da sempre mangiato l'erba. Anche se questa dieta radicalmente nuova provocava fastidiosi effetti sul loro apparato digerente, i nostri insetti ebbero una esplosione demografica senza precedenti, che l'erba ora poteva sopportare grazie alla definitiva scomparsa dei suoi consumatori abituali e di tutte le piante a foglia larga. Ammassati in un'orda brulicante gli insetti non potevano più sviluppare il loro tipico repertorio comportamentale, e soffrivano di innumerevoli scompensi psicofisici.
   I batteri continuarono ad evolvere velocissimi fuori da ogni controllo, diventando infine persino capaci di rendere assimilabile il legno morto, di cui in alcuni punti dell'isola esistevano immensi accumuli, vecchi di secoli. Si formarono grandi ammassi batterici, simili ormai ad animali pluricellulari, che proteggevano gli insetti da ogni tipo di avversità e gestivano abilmente le loro sempre più numerose patologie fisiche e sociali. Un ceppo si differenziò fino a formare dei veri sistemi pseudo-cerebrali, che coordinavano tutti gli altri batteri nella trasformazione del legno in cibo e ripari dalle intemperie. Così il numero complessivo di insetti sull'isola continuò a crescere ancora, superando un punto limite oltre il quale le piante verdi improvvisamente si estinsero. I batteri allora svilupparono clorofilla e diventarono essi stessi cibo assimilabile. Si manifestò una grave carenza di vitamine, e i batteri risposero prontamente, cominciando a sintetizzare vitamine da precursori minerali. Ma invece di migliorare, la situazione peggiorò drammaticamente, e ci fu un'estinzione in massa.
   L'unica ragione per cui i batteri erano ancora legati agli erbivori era proprio perché dipendevano dalle vitamine. L'isola adesso era loro. Liberi da ogni “zavorra”, formarono una ribollente monocoltura batterica che ricoprì l'isola da un estremo all'altro come un'immensa massa cerebrale. Ma al primo inverno più freddo del solito divenne un monolitico blocco di ghiaccio, che il sole primaverile sciolse in una coltre fangosa.
   La metafora mi sembra così evidente da non richiedere particolari spiegazioni. Anche noi, grazie a una inusitata mutazione culturale (“batterica”) abbiamo cominciato a mangiare erba, arrivando persino a distruggere quei competitori dell'erba che erano stati il nostro cibo per milioni di anni (animali erbivori, piante perenni, alberi), e mettendoci così totalmente in mano ai “batteri”, liberi così di espandere tutto il loro aggressivo potenziale mutageno e neoplastico.
   Chi si affida a delle protesi che offrono benefici troppo grandi a breve termine crea un tale squilibrio nel complesso equilibrio della vita da produrre sicuramente un disastro. È come se si aggiungesse nitroglicerina al carburante di un normale motore: all'inizio diventerebbe molto più potente, ma poi finirebbe per guastarsi, essendo stato progettato, in ogni suo pezzo, per funzionare con della normale benzina. Se per non abbandonare gli additivi ci si affida a protesi ancora più complicate e innovative, non solo ci si immette in una spirale sempre più pericolosa, ma gli si dà comunque sempre più potere, andando incontro a regressione e strumentalizzazione parassitaria. Ci si trova così alienati in un mondo a misura di “batteri”, invece che di esseri umani.
   Infine il superorganismo “batterico” paga il prezzo della sua eccessiva virulenza: la formidabile iperplasia clonale e integrazione connettiva che gli hanno consentito di fagocitare l'intero ecosistema dell'“isola” (una proliferazione esplosiva che ricorda quella della felce Salvinia molesta sulla superficie del lago Kariba) lo riduce a una sola unità evolutiva, sbaragliando o inglobando qualsiasi altra: la grande Rete neuronale. A livello del pianeta Terra, infatti, non ha alcun modo di sviluppare le diversità locali, le barriere individuali e specifiche che davano al mondo biologico-culturale la sua incredibile varietà. Un unico immenso cervello planetario: scompare così ogni possibilità di produttiva selezione naturale che non coincida con l'inevitabile estinzione.

 

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