Il silenzio dell'anima.....  

   

Il Cenacolo nascosto
dalle volte dei crociati

di GIANFRANCO RAVASI*

Quella di ieri a Gerusalemme è stata per Giovanni Paolo II la giornata «ebraica» per eccellenza, con gli incontri con le autorità religiose e politiche israeliane e con l’emozionante testimonianza dell’Olocausto a Yad Vashem. Ma in mattinata egli aveva celebrato la messa al Cenacolo. Il Vangelo di Marco ci ha lasciato una descrizione di quel luogo ove Gesù consumò le ultime ore della sua vita terrena a contatto con i discepoli: «Una grande stanza con i tappeti, al piano superiore» di un edificio (14,15).
Ancor oggi si deve salire una scala per raggiungere una sala che lascia a prima vista un po’ sconcertato il visitatore. Se leva gli occhi al soffitto, scopre infatti le volte a sesto acuto tipiche dell’architettura gotica crociata: è la testimonianza di una cappella eretta nel XIV Secolo dai francescani con i fondi di Roberto, re di Napoli e di Sicilia. Ma se il pellegrino fissa la parete principale, vede un inequivocabile mihrab, cioè quella nicchia ad abside che indica ai musulmani la direzione della Mecca per la preghiera. È ovvio, quindi, che in passato la sala fu trasformata in moschea. Ma l’assenza di simboli e di arredi cristiani spiega il fatto che l’attuale proprietà dell’edificio è israeliana: a pianterreno dell’edificio si venera una (falsa ma molto amata) tomba del re Davide.
Difficile, proprio per questo accumulo di memorie di diverse religioni, è stato per gli archeologi avere accesso libero. Nel 1951 alcuni sondaggi permisero di isolare le fondamenta di un antico edificio a forma di sinagoga: che fosse la chiesa eretta dai primi cristiani di origine giudaica sul luogo del Cenacolo? Questa ipotesi sembrerebbe confermata da alcuni graffiti percorsi dal fremito della fede in Cristo: «Vinci, o Salvatore, pietà!... O Gesù, che io viva, o Signore Davide!».
È per questo che la tradizione cristiana da secoli in questo Cenacolo, apparentemente così lontano e diverso da quello originario, riascolta quelle parole pronunziate da Gesù davanti a un pane e a una coppa di vino al tramonto di una giornata primaverile di un anno tra il 30 e il 33: «Questo è il mio corpo ... Questo è il calice del mio sangue...». Oppure ripropone quel fluviale discorso d’addio rivolto ai discepoli riferito nei capitoli 13-17 del Vangelo di Giovanni: «...Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni e gli altri, come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la propria vita per i propri amici...» (15,12-13).
*monsignore, prefetto della Biblioteca Ambrosiana


dal corriere della sera, 24 marzo 2000    

Il silenzio del Cuore.......  


  "And to them I give in my house and within my walls a memorial. That shall not be out off.

(Isaia 56.5)  

 

  LO SCRITTORE ISRAELIANO

Amos Oz: «Da Wojtyla un rito di purificazione»

«Il capo della Chiesa è venuto a casa nostra con umiltà e deferenza: un gesto commovente»

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
GERUSALEMME — «No, decisamente mia zia non sarebbe stata soddisfatta del discorso del Papa al Museo dell'Olocausto. Ma va anche detto che mia zia vuole l'impossibile. Solo se il Papa si fosse tolto la croce dal collo e si fosse buttato a terra chiedendo perdono per i peccati storici della Chiesa nei confronti degli ebrei, lei si sarebbe lasciata sfuggire una smorfia di approvazione». Così reagisce a caldo Amos Oz, appena dopo la visita di Giovanni Paolo II ieri nel «tempio» israeliano del dolore e della memoria per la tragedia della Shoah. Sei giorni dopo il lungo articolo pubblicato dal Corriere, in cui descriveva le sue aspettative per l'arrivo del Papa, lo scrittore israeliano torna a commentare con noi l'esito di questa che dal punto di vista ebraico è stata probabilmente la giornata cruciale dell'intero pellegrinaggio di Wojtyla in Terrasanta.
Nel suo articolo sabato scorso lei ricordava la questione dei silenzi di Pio XII durante l'Olocausto. Una questione spinosa. In Israele e tra le comunità della diaspora erano in tanti ad aspettarsi che il Papa dicesse qualche cosa in più rispetto ai documenti e alle scuse nei confronti degli ebrei già avanzate dalla Chiesa. Ma non è avvenuto. Prova delusione?
«Io personalmente no. Per me ieri è stato un momento di profonda e indicibile catarsi. Sono rimasto come incantato dalle immagini trasmesse in diretta dalla televisione. Intendiamoci bene, non c'era nulla di nuovo nel discorso pronunciato dal Papa. Ma ciò era secondario. L'importante è invece il luogo dove lo ha fatto. Per la prima volta in casa nostra, nel cuore dello Stato ebraico. Il capo della Chiesa non ci ha parlato come a un pugno di ebrei erranti, ospiti in qualche Paese straniero, sempre in debito con chi ci accorda rifugio. Tutto l'opposto. Questa volta è stato il Papa a recitare il ruolo di nostro ospite e noi quello dei padroni di casa. Noi gli abbiamo dato il benvenuto e lui lo ha accettato con umiltà e deferenza. C'è una differenza immmensa per esempio con la visita di Paolo VI nel 1964: allora la Chiesa non aveva rapporti diplomatici con Israele, eravamo percepiti nel mondo come una realtà effimera, forse transitoria».
Però c'è chi dice che il discoso del Papa rappresenti addirittura un passo indietro rispetto al passato recente. Ha persino tracciato una sorta di parallelo tra antisemitismo cristiano e ostilità ebraica nei confronti degli cristiani.
«Lo so, è una questione aperta, se ne parlerà nell'ambito delle riunioni interconfessionali, c’è ancora tanto lavoro da fare. Ma io dico che si tratta, tutto sommato, di questioni minori. Invece, ci sono generazioni e generazioni di ebrei che avrebbero pagato non so che cosa per vedere quello a cui abbiamo assistito oggi a Gerusalemme. Ma ce ne rendiamo conto? Il capo della Chiesa che viene a rendere omaggio alle nostre vittime, che dice di voler comprendere le nostre sofferenze? È una svolta epocale, una rivoluzione di portata storica. È vero che il Papa ha fatto qualche cosa di simile nel campo profughi di Dahishe ieri (due giorni fa per chi legge, ndr), quando ha dimostrato ai palestinesi di condividere la loro epopea di sofferenze. Ma il significato è diverso, proprio perché la natura del rapporto tra ebrei e crisitiani è unica, irripetibile. E poi ci aggiungerei l'elemento molto umano di questo Papa anziano, visibilmente stanco, malato, provato, che a stento riesce a stare in piedi, parla con difficoltà, eppure accetta di sobbarcarsi il sacrificio e le fatiche di questo viaggio. Il suo non è solo il pellegrinaggio di un cristiano che viene a visitare i luoghi che furono la culla della sua fede. C'è di più, molto di più. Viene a visitare noi ebrei, ben consapevole delle nostre tragedie di mezzo secolo fa. Mi sembra estremamente commovente».
E il significato politico della visita?
«Aspetto a dare ogni interpretazione. Mancano ancora tre giorni alla fine della visita e può accadere di tutto, specie dalle nostre parti. Non dimentichiamo, per restare in tema, che in appena tre giorni Gesù Cristo è morto e risorto».
Non le sembra perlomeno scorretto che israeliani e palestinesi facciano di tutto per tirare il Papa dalla loro parte? Ogni volta che lo incontra, il premier Ehud Barak ripete che Gerusalemme è capitale «indivisibile» di Israele. E lo stesso fa Arafat.
«Mi sembra nella logica delle cose. Questo è il Paese dei miracoli, ma se fosse avvenuto l'opposo sarebbe stato un supermiracolo. Israeliani e palestinesi si sentono ancora tanto deboli e insicuri da cercare in ogni occasione la legittimazione internazionale delle loro aspirazioni nazionali».
 

dal Corriere della Sera 24 marzo 2000

 

Shalom!