Terra Santa nel Cuore
MANO
NELLA ROCCIA CHE SCIOGLIE UN GRUMO DI STORIA
Ferdinando
Camon
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Quando il Papa ha infilato in
una fessura del Muro del Pianto la richiesta di perdono, quello
è stato il punto più alto del suo viaggio a Gerusalemme. La
storia di coloro che guidano l'umanità non è diversa dalla vita
di coloro che guidano le famiglie: costoro si parlano, si
telefonano, ma quando una comunicazione deve restare "a
futura memoria", si scrivono lettere. Il biglietto infilato
dal Papa in una fessura del Muro del Pianto è stato dunque una
lettera, a futura memoria, a Dio. Per un attimo, il biglietto è
stato possibile vederlo. Il Papa lo teneva dal basso, il foglio
stava aperto, aveva il sigillo papale a sinistra in basso, e a
destra in basso la firma. Il testo era in inglese. Conteneva la
più pertinente delle sette richieste di perdono pronunciate il
12 marzo, quella che ha per tema le sofferenze patite dagli
ebrei. Dice: "Noi siamo profondamente addolorati per il
comportamento di quanti nel corso della storia hanno fatto
soffrire questi tuoi figli", e conclude: "Vogliamo
impegnarci in un'autentica fraternità con il popolo
dell'Alleanza".
Aver deposto quella richiesta di perdono in
una fessura del Muro del Pianto non è un'appendice che poteva
mancare, è anzi la sua destinazione esatta, e dunque la
pronuncia del discorso a Roma era stata un'anticipazione, in
vista dell'invio tramite quella cassetta postale. Il Muro del
Pianto è fatto di pietroni accostati, la fessura sta nella
seconda fila dal basso, ad altezza d'uomo: il Papa ha alzato la
mano destra ad altezza della testa e ha infilato il foglio. Lo
leggerà e lo conserverà l'umanità, la storia, Dio. Quello è
un punto dove tre storie diverse si sono scontrate, come i
continenti quando andavano alla deriva e urtandosi formavano
corrugamenti e sistemi montuosi, difficili da superare: lì in
pochi metri si toccano il sacro dei musulmani, il sacro degli
ebrei e il sacro dei cristiani. Il nobile santuario dei musulmani
indica il punto da cui Maometto salì in cielo, il Muro del
Pianto è ciò che resta dell'Antico Tempio ebraico, ed è il
punto a cui convergono le preghiere degli ebrei da tutte le parti
del mondo fin da quando furono dispersi, con ferocia,
dall'imperatore romano soprannominato "delizia del genere
umano". E lì c'è il Santo Sepolcro, che sta sul punto
esatto dove Cristo patì, morì, fu sepolto e risorse. Fra tutti
i luoghi della terra, questo è il più alto concentrato di
spiritualità.
Ora che il Papa
è tornato a Roma, comprendiamo che è venuto in questa
terra per dare qualcosa a tutti e tre i popoli che vi
abitano: 1) comprensione e aiuto ai palestinesi, 2)
richiesta di perdono agli ebrei, 3) incitamento verso una
nuova storia ai cristiani. Sono tre missioni in una.
Nessuna di queste tre missioni, singolarmente presa, era
facile, ma una concordanza di tutte e tre era
impossibile. Infatti non è riuscita. La relazione fra
cristiani ed ebrei, cristiani e musulmani, riparte da
basi nuove. Ma la relazione tra musulmani ed israeliani
resta quel che era, e del resto non si vede come la
visita del Capo del cattolicesimo potesse modificarla. I
musulmani non hanno dialogato con gli ebrei, perché non
hanno superato il loro divieto di incontrare e sedere
insieme con i rabbini; con gli israeliani non è stato
nemmeno toccato, forse per prudenza, lo status di
Gerusalemme. Ma se il viaggio papale avesse toccato e
risolto questi problemi, sarebbe stato un evento minore.
Perché in realtà il viaggio ha fatto molto di più.
Nella terra dov'è nato il cristianesimo vivono popoli
che sanno poco o nulla (parlo della gente comune) del
cristianesimo: per la prima volta hanno visto da vicino
il Capo del cattolicesimo, tremante, stanco, che veniva
avanti un passettino alla volta, usando la croce come un
bastone d'appoggio, deciso a combattere contro gli
ostacoli della storia, della politica, degli stati,
dell'età, della malattia, per dire a tutti qual è la
sua idea di bene, farsi dire da tutti qual è la loro, e
vedere se si può realizzarle insieme. Per la prima volta
hanno assistito, un'ora o due, a riti cristiani prima mai
trasmessi in tv, tra cui una messa: hanno sentito le
formule, visto i gesti, e si son meravigliati per la
ricerca di pace che contengono, di comprensione, di
intesa, e si son detti: "Ma è così, dunque? Mai
saputo". |
Ferdinando Camon |
GLI È RIUSCITO IL MIRACOLO
DI FARSI VOLER BENE
Elio Maraone
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Shalom,
«haver hadash» (nuovo amico). Difficile trovare una
sintesi più felice di questa - che l'influente
«Ha'aretz» mette in testa a un suo commento - per
riassumere il pensiero della maggior parte di Israele,
ora che il Papa è partito. Un pensiero mutato: dopo la
diffidenza iniziale, frutto di molti pregiudizi e anche
di molta ignoranza, Israele ha via via scoperto -
soprattutto grazie al forte rilievo simbolico dei gesti -
che quel vecchio fragile e attorto, talvolta come appeso
alla croce àstile, non era il capo di un'istituzione
nemica, un predicatore in cerca di proseliti, un
mestatore in caccia di facili consensi nel mondo
islamico, ma un amico vero. «Nuovo», appunto, fonte
della rara felicità che danno le buone scoperte, e
dunque amico ben oltre quella definizione di «haver
vatik» (vecchio amico) - di convenienza - che aveva dato
il nome in codice alla massiccia «operazione
sicurezza». Alla fine persino il capo della polizia Yehuda Wilk, uomo - come scrive ancora «Ha'aretz» - «non noto per il suo sentimentalismo», si è arreso all'evidenza, e davanti all'immagine di Giovanni Paolo II abbracciato al Sepolcro, in un solitario «fuori programma» che ha fatto tremare il seguito papale e i servizi di sicurezza, ha mormorato: «Chi non l'aveva ancora capito, può capire adesso quanto significhi per lui questo viaggio». Molti hanno capito e, a giudicare dalla crescente e via via più calorosa attenzione della gente e dei mass media, hanno compreso che non c'erano trucchi sotto la bianca veste che spiccava nella penombra dello Yad va-Shem (il memoriale dell'Olocausto), che sventolava sul Monte delle Beatitudini occupato da un'armata di giovani, che appariva tessuta di sofferenza nel campo dei rifugiati palestinesi di Deheisheh. In un indiscutibile atteggiamento di umiltà tramato di incrollabile fede, il Papa è apparso come il contemporaneo della Storia infinita non soltanto della Chiesa cattolica, ma anche di quella dei «fratelli maggiori». Questo infatti è stato, anche, un viaggio - al passato, al presente e, profeticamente, al futuro - nella sofferenza disperata e insieme nella speranza di milioni di uomini, di donne, di bambini. Derisi, emarginati, oppressi, variamente straziati. Non soltanto ebrei, come il Papa ha inteso dimostrare recandosi nella Betlemme palestinese e sulla spianata delle moschee musulmane. Cristiani anche, inevitabilmente, come quelli palestinesi che in Galilea, a Nazareth, hanno patito e patiscono non poche umiliazioni. Per tutti - in un estremo sforzo di cancellazione dell'orma di Caino - il Papa ha trovato parole e gesti di conforto, di invito (anche severo, per esempio nell'incontro con i rappresentanti delle Chiese cristiane) alla riconciliazione e al mutuo rispetto. Ma il Papa ha fatto anche più di tutto questo, in un passaggio storico - il nostro - che resta carico di tensione e di drammi, in questa primavera nella quale la ricerca di soluzioni pacifiche appare stremata, e se possibile più ardua dopo il fallimento dell'incontro fra Clinton e Assad a Ginevra. Nel giro di pochi giorni, il singolare uomo di Dio con la faccia da nonno polacco è riuscito a riportare idealmente gran parte del Paese alla sua origine, consentendo ai suoi popoli di ritrovare in primo piano, e non soltanto metaforicamente, la loro vicenda e le profonde radici della loro comune tragedia. I palestinesi con in mano le patetiche chiavi di uno Stato che ancora non c'è, i cristiani come abbagliati dalla memoria dell'Uomo crocefisso e risorto, gli ebrei avvinti al ricordo delle devastazioni e dei milioni di morti... Molti si sono chiesti - alla vigilia di un viaggio che, va sottolineato, si è concluso senza i temuti incidenti - se il pellegrinaggio del Papa non avesse un sottofondo politico e se, soprattutto, non potesse essere strumentalizzato sul piano politico. Si può rispondere, adesso che si è concluso, che il Papa ha saputo evitare ogni trabocchetto, smussare ogni punto di attrito, respingere ogni pressione o tentativo di appropriazione indebita. Più che decorosamente si sono comportati, a questo riguardo e nel complesso, i dirigenti palestinesi, mentre una nota di merito va al premier israeliano Ehud Barak, che proprio mentre fronteggiava crescenti difficoltà poltiche interne si è lasciato conquistare dalla disarmante serenità del Papa, smettendo alla fine, almeno in parte, la sua militaresca rigidità. Altrettanto non si può dire dei leader islamici, il Gran Muftì Akram Sabri e il suo «vice», lo sceicco Tamimi, che si sono lasciati andare a deplorevoli dichiarazioni antisemite e anti-israeliane. Nessuno può dire, date le intricate premesse alle quali abbiamo soltanto sommariamente accennato, come la situazione evolverà, e se, per esempio, il mutato atteggiamento di molti israeliani nei confronti del Papa sfocerà in una più vasta richiesta di ragionevoli compromessi, di concessioni anche politiche agli avversari. La Chiesa non fa politica. Però sappiamo che la Chiesa del Verbo incarnato cammina nella Storia, dunque, inevitabilmente, pure nella geopolitica. Anche con l'ultimo riferimento a Dio e ai discendenti di Abramo (nello scritto lasciato al Muro) Giovanni Paolo II ha invitato la gente di Terrasanta a levare lo sguardo, al di sopra dei propri egoismi, delle richieste appassionate, ma non sempre fondate. Qualcuno, come lo scrittore Ari Shavit, ha già risposto: «Dopo cinque giorni, all'improvviso, è sembrato che, a dispetto di tutto, riusciremo a parlare l'uno all'altro, cristiani ed ebrei, ebrei e palestinesi. Che riusciremo a ricordare quello che occorre ricordare, e dimenticare quello che si deve dimenticare. E che all'inizio, gradualmente, cominceremo a fasciare le ferite cruente di questa terra impossibile, intraprendendo il lento, quasi impossibile viaggio verso la riconciliazione». |
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prima di partire un
«fuori programma»: venti minuti in silenzio al calvario
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