ISIN - Relazione PREMESSE STORICHE E CULTURALI DELL’INSORGENZA NEL BERGAMASCO E NEL BRESCIANO di Paolo Martinucci
ISTITUTO PER LA STORIA DELLE INSORGENZE


Copertina

Convegni

PREMESSE STORICHE E CULTURALI DELL’INSORGENZA NEL BERGAMASCO E NEL BRESCIANO

(Seconda parte)

4. Le società segrete, la congiura rivoluzionaria e la nascita delle Repubbliche

Negli anni successivi alla Rivoluzione del 1789, la massoneria, in particolare il Grande Oriente di Francia, diventava la centrale organizzativa della propaganda rivoluzionaria all'estero. Inizialmente essa agiva in Italia attraverso gli agenti diplomatici della Repubblica Francese nei vari Stati, come Charles-Louis Huguet de Semonville (1730-1839) a Genova, François Cacault (1743-1805) a Napoli, François Charles Hénin (1771-1847) a Venezia, Alexandre de La Flotte (1766-1794) in Toscana, Nicolas-Jean Hugon de Bassville (1753-1793) e il generale Léonard Duphot (1769-1797) a Roma. Le logge massoniche davano vita a club giacobini o si trasformavano direttamente in essi. L'abate massone calabrese Antonio Jerocades (1738-1805) fondava il primo club massonico-giacobino in Italia, dipendente dall'omologo circolo di Marsiglia, chiamato «Sans compromission» (1).

La composizione sociale dei club rivoluzionari era eterogenea: nobili, borghesi, preti, popolani: piccoli borghesi e professionisti ne costituivano la maggioranza. Numericamente rilevante era la presenza del clero. Non mancavano i giovani universitari, mentre notevolissimo era il numero degli ebrei, che lo storico Carlo Zaghi definisce «[...] gruppo potenzialmente “innovatore”, sensibile più di ogni altro alla ventata di libertà e di civiltà che veniva dalla Francia rivoluzionaria» (2). Lo storico Carlo Botta (1766-1837), che ben conosceva i giacobini italiani, essendo stato egli stesso uno di loro, li definiva in questo modo: «[...] utopisti, i quali [...] credevan esser nata un'era novella, e prepararsi un secol d'oro» [e che] «[...] misuravan gli antichi governi solamente dal male che avevano in sé e non dal bene» [e, ancora, tali che] «[...] ognuno si vantava di essere repubblicano» [, mentre a loro] «[...] le storie della Grecia e di Roma infiammavano gli animi» (3).

Il cospiratore per eccellenza, la figura dominante del settarismo italiano, era in quell'epoca Filippo Buonarroti (1761-1837) (4). Dichiaratamente seguace di Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) — confessava: «[...] i dogmi dell'uguaglianza e della sovranità popolare infiammavano il mio animo» (5) — fu l'ispiratore di tutte le congiure giacobine che precedettero la seconda fase — iniziata nel 1796 — della campagna d'Italia dei francesi. Dopo la svolta termidoriana del 16 luglio 1794 veniva imprigionato dal nuovo governo rivoluzionario, perché coinvolto nella congiura comunista di François Nöel «Gracchus» Babeuf (1760-1797). Tornato in libertà, in qualità di rappresentante dei giacobini italiani, illustrò al generale Pierre-François-Charles Augereau (1757-1816) il piano di insurrezione da attuarsi nel Regno di Sardegna — in guerra contro la Francia a partire dal 1792 — prima dell'invasione per propiziarne la riuscita. I punti-chiave del piano erano: unità d'azione fra tutti i gruppi rivoluzionari in vista dell'unità politica d'Italia, insurrezione nella capitale il giorno prima dell'attacco finale dei francesi e proclamazione della repubblica a Torino, instaurando un governo provvisorio, che evitasse le durezze dell'occupazione militare. Secondo lo storico francese Jacques Godechot (1907-1994) (6), i rivoluzionari italiani avevano ben capito l'ideale dei giacobini francesi e lo avevano adattato con intelligenza alla loro situazione, grazie alla decisiva influenza che su di loro aveva esercitato Maximilien-François-Isidore de Robespierre (1758-1794). Certamente si erano a lui ispirati Buonarroti, il chirurgo romano Liborio Angelucci (1746-1811) — che da Venezia invocò l'occupazione dell'Italia da parte della Repubblica Francese —, don Giovanni Antonio Ranza (1741-1801), Enrico Michele L'Aurora (1760/64-1803?), e Carlo Salvador (?-1813), aggregato all'Armata d'Italia.

4.1 La congiura a Bergamo

Il vescovo Giampaolo Dolfin (1777-1819), nel 1793, in una lettera agli Inquisitori veneti, lamentava il decadimento della pietà cristiana, la corruzione dei costumi, soprattutto in città, causati dalle «guaste e perverse massime oltramontane» (7). Nel 1794, due emigrati di Bàresi, nella Val Brembana, tornati dalla Francia al loro paese, vi piantavano l'albero della libertà. Nel 1796 venivano denunciati alcuni cittadini per i loro discorsi, in quanto avevano gioito per le vittorie francesi di quell'anno. Gli Inquisitori invitavano le autorità locali ad aumentare la vigilanza. Frattanto il Capitano della Repubblica Serenissima, conte Alessandro Ottolini, riceveva dal proprio servizio di spionaggio a Milano — vi aveva inviato il suo segretario particolare, Guglielmo Stefani — informazioni sui rivoluzionari di origine bergamasca lì trasferitisi per organizzare l'insurrezione a Bergamo. Tra i rivoluzionari adunatisi a Milano figurava un abate di Cenate di Sopra — nella Val Cavallina —, distinto letterato, don Ottavio Morali, che, secondo il magistrato veneto, «[...] non aveva mai dato saggi di onesta condotta» (8). A Milano — dove si rallegrava di sentirsi «[...] chiamare col sacro nome di cittadino» (9) — don Morali aveva inoltre ascoltato il giacobino Ranza, il quale si era scagliato contro il Capitano Ottolini e la «rimbambita ma cadente aristocrazia» (10). Operavano, tra Bergamo e Milano, anche l'agente francese — incaricato fra l'altro da Napoleone Bonaparte (1769-1821) di sorvegliare politicamente i vertici dell'Armée — colonnello Jean Landrieux (1756-1830).

4.2 L'«incidente dei teatri»

La notte del 12 gennaio 1797 veniva distrutto dalle fiamme il teatro Riccardi di Bergamo. Una memoria del tempo (11) indica nei «frammassoni» bergamaschi, interessati a fomentare incidenti, i responsabili dell'incendio; secondo tale fonte, l'esecutore, tale Bono, che abitava a Bergamo di fronte alla chiesa di San Carlo, poco distante dalla locale loggia massonica, era poi stato ucciso perché non parlasse. Si presentava quindi al Capitano Ottolini un avvocato romano, il quale gli comunicava che un ufficiale francese, che aveva fatto la rivoluzione in America e in Francia, disgustato dagli esiti sanguinari di quest'ultima, gli aveva riferito che durante il prossimo carnevale sarebbe scoppiata una insurrezione a Bergamo, ad opera dei rivoluzionari, fra i quali numerosi aristocratici, «[...] tutti notori per la più sguaiata impudente aderenza alle turpi massime francesi» (12). L'avvocato, in contatto con il colonnello Landrieux agiva in questo modo per «salvare» i generali francesi, qualora l'insurrezione fosse fallita. Lo stesso Napoleone Bonaparte — forse fingendo —, quando gli presentarono le lettere compromettenti di Landrieux trovate tra le carte degli Inquisitori, disse che il colonnello era un miserabile che aveva agito per interesse personale, avendo Landrieux chiesto del denaro in cambio delle informazioni date. Questi infatti comunicava al segretario del Capitano che i francesi, pur non collaborando direttamente all'insurrezione, all'occorrenza sarebbero intervenuti in aiuto dei rivoltosi; che la rivoluzione sarebbe scoppiata prima a Brescia e poi a Bergamo e Crema; infine, che allo scopo si spargeva denaro fra i contadini delle valli, i quali, in numero di oltre duecento erano pronti a due miglia dalla città. Il conte Ottolini mandava a Venezia l'elenco delle persone che intendeva arrestare: sessantatré, inclusa «qualche dama» (13).

La mattina del 12 marzo 1797 si notava in città un insolito movimento di truppe francesi, che andavano a schierarsi nei punti strategici. Il commissario francese Faivre aveva già convocato i capi della Municipalità e, attorniato dai rivoluzionari locali, voleva che i dirigenti cittadini giurassero fedeltà alla «libertà» e chiedessero l'unione di Bergamo alla Repubblica Cispadana. Alcuni membri del Consiglio rispondevano però che non potevano lamentarsi di Venezia, ma che comunque avrebbero firmato, qualora il conte Ottolini fosse stato d'accordo. Questi non era però della stessa idea, dicendo che non bisognava firmare l'«infame carta» (14), ma gli aristocratici oppositori, temendo reazioni, firmarono ugualmente. Lo stesso atto veniva poi sottoscritto da numerose persone del consiglio, sempre per timore. Faivre fece in quel frangente «il diavolo» (15), gridando «Viva la libertà», cercando di aizzare contro i nobili la popolazione presente, composta quasi esclusivamente da lavoranti e domestici di aristocratici filo-rivoluzionari!

Nella notte tra l'11 e il 12 marzo 1797, ammainato il vessillo della Serenissima dal pennone del castello, in una sala di Palazzo Roncalli, l'agente politico francese L'Hermite nominava la nuova municipalità provvisoria, composta di otto membri, fra cui un marchese e altri cinque nobili: questa era la nuova rappresentanza democratica del popolo bergamasco! Il Capitano Ottolini doveva di conseguenza lasciare la città. Come estrema umiliazione, prima di partire — cosa che fece il 13 marzo —, il capitano doveva firmare una lettera, con la quale si impegnava, una volta giunto a Venezia, a «[...] fare il possibile acciocché tutti i bergamaschi detenuti in Venezia o esiliati per opinioni favorevoli alla Rivoluzione Francese [venissero] restituiti alle loro famiglie» (16). L'ultimo rappresentante della Serenissima in terra bergamasca prendeva quindi la via di Brescia, assieme alla consorte, Margherita Querini, la quale, sembra, era stata «alleggerita» da l'Hermite di tutti i suoi gioielli (17).

4.3 La Repubblica Bergamasca

Il vescovo Dolfin si dimostrava favorevole e «partigiano» delle novità. Si diceva che fosse stato colpito dal fatto che dei soldati francesi si inginocchiavano al passaggio del Santissimo Sacramento, mentre altri affermavano che la «conversione» fosse stata opera del segretario particolare, tale Recuperati, fanatico della «libertà» e della «uguaglianza». In realtà il vescovo era un debole — Lorenzo Mascheroni (1750-1800) aveva scritto di lui «[...] se hai la mitra, mancati la testa» (18) — e un simpatizzante della nuova libertà, al punto che, in occasione della presa del velo dal parte di una religiosa in quei giorni, il vescovo tenne un discorso di intonazione «patriottica» (19). Ma la maggioranza della popolazione si mostrava contraria alle «novità», sia per motivi religiosi, essendo nota l'ostilità della rivoluzione nei confronti delle tradizioni cattoliche, che politici, in quanto le valli e il territorio, dal 1428, avevano goduto privilegi nei confronti della città e ogni mutamento poteva significarne la perdita. A Zogno in Val Seriana, il 19 marzo 1797, si presentava un inviato del governo rivoluzionario, un certo «cittadino» Rillosi, per chiedere all'assemblea dei capifamiglia — che nelle zone montane durante l'antico regime aveva dignità di autorità sovrana — il giuramento di fedeltà alla nuova Repubblica, ma ne otteneva come risposta un fermo diniego, anche se non definitivo. Mons. Dolfin mandava allora un suo incaricato dal commissario Faivre per sottoscrivere il suo giuramento di fedeltà al nuovo governo — «Giuro perpetuo odio alla tirannia oligarchica e fedeltà al popolo di Bergamo» (20) —e invitava alla sottoscrizione anche il suo clero, inviando in data 14 marzo ai parroci della diocesi una lettera pastorale «democratica», in cui si leggeva: «[...] chi obbedisce alle secolari potestà, a Dio obbedisce, e chiunque vi fa resistenza resiste a Dio [... .] [Occorre] spiegare con zelo e con chiarezza nei parrocchiali vostri sermoni e catechismi l'essenza del dovere, che hanno li rispettivi parrocchiani di obbedire con sentimento cordiale alle giuste leggi di questo Popolo bergamasco, rappresentato dalla sua legittima Municipalità e difeso dalla sincera e valida protezione della Repubblica Francese [...]» (21). Nel contempo veniva requisita dai francesi la metà degli oggetti di argento delle chiese — eccetto i calici, le reliquie e gli ostensori —, con la promessa di pagarne in seguito il valore! Il tutto con l'autorizzazione del vescovo Dolfin (22). Gli occupanti richiedevano altresì un'imposta di guerra — da pagarsi in due rate di 858.460 lire ciascuna —, calcolata sul vecchio estimo. Il colonnello Landrieux, infine, compilava «rapidamente» una costituzione, la cui adozione imponeva al nuovo governo bergamasco.

4.4 L'insurrezione bresciana

Anche a Brescia era attiva l'organizzazione massonica, cui gran parte dei capi dei rivoluzionari bresciani apparteneva. La loggia di Brescia aveva il nome di «Amalia Augusta». Parecchi adepti erano sacerdoti, più spesso regolari che secolari. Quando il massone Benjamin Franklin (1706-1790), nel 1776, era giunto in Europa, chiedendo aiuto per gli insorti americani, aveva suscitato entusiasmi anche a Brescia. Il padre del letterato Giovita Scalvini (1791-1843) partiva per il Nuovo Mondo e si arruolava al servizio del generale marchese Marie-Joseph-Paul-Yves-Roch-Gilbert de Motier marchese di La Fayette (1757-1834). Il conte Giacomo Lechi aveva nel suo studio di Calvisano, nella pianura bresciana, i ritratti di George Washington (1732-1799) e di La Fayette. Lo storico Ugo da Como (1869-1941), nella sua storia della Repubblica Bresciana, descrive i cospiratori quali individui agitati, eccessivi, ambiziosi, temerari: «[...] un gruppo minuscolo[, ...] crocchi di giovani nobili studiavano e pensavano; il popolo li credeva increduli come, secoli prima, li aveva creduti quasi stregoni» (23). Si trattava per lo più di giovani cresciuti in famiglie ricche. Fra di essi spiccavano il conte Francesco Gambara (1769/71-1848) — vissuto lontano dalla propria terra perché il padre ne era stato bandito —, feudatario ambizioso ed indipendente, che nutriva un odio profondo contro la Serenissima e i cinque fratelli Lechi, il cui nonno, Pietro, aveva fatto dipingere nella sala d'onore del palazzo di Montirone, a sud del capoluogo, questi soggetti: il Genio umano che trionfa sull'oscurantismo, la Ragione, la Verità, la fama, la Storia, tutte le tematiche care alla cultura illuministica e massonica del secolo. Tre di essi — Giuseppe (1766/67-1836), Angelo (1769-1850) e Teodoro (1778/79-1866) — furono anche generali, il primo dell'esercito imperiale, fino al 1793, e poi di quello della Repubblica Cisalpina, gli altri delle truppe italiche al servizio di Bonaparte. Alcuni di questi rampolli cercavano a Milano «una più libera educazione liberale» (24). Tutti i giacobini bresciani erano figli di grossi proprietari terrieri, da tempo seguaci delle nuove idee, in lotta per abbattere il potere veneto, che secondo loro si rivelava refrattario a ogni istanza di progresso e incarnava il privilegio sociale. Anche secondo lo storico Marino Berengo, il primo giacobinismo presentava prevalentemente aspetti anti-nobiliari, in sintonia, in questo, con ciò che pensavano gli Inquisitori di Stato. La svolta si verificò nel marzo 1792, quando venne costituito il «Casino dei Buoni Amici», il cui presidente era Francesco Gambara, un membro del quale, tuttavia, in un incontro pubblico si scagliava contro il «genio francese» (25). In seguito aderiva alla «società» pure Giuseppe Lechi, che era allora ufficiale dell'esercito imperiale. A Vienna, nel 1792, questi, aveva incontrato alcuni esponenti del circolo e aveva deciso di sposare la causa rivoluzionaria, convinto anche dal fratello Giacomo, che era rimasto ammaliato dal discorso che un generale francese aveva tenuto agli ufficiali austriaci dopo la resa di Spira, in Germania (26) e non nascondeva di privilegiare, ora, la costituzione francese, rispetto a quella americana. Nel novembre del 1792, la Convenzione Nazionale francese dichiarava di garantire «soccorso» e «fratellanza» a ogni popolo che anelava a essere libero. Era il segnale atteso. Nell'agosto 1793 i «buoni amici» si riunivano per festeggiare un tenore di successo e la riunione conviviale fu vista come una prima manifestazione di giacobinismo; la stessa interpretazione venne poi data a una serie di pranzi di società tenutesi nella località Motta di Ghedi, nella pianura bresciana. Infatti, in quelle occasioni i presenti avevano gridato pubblicamente «viva la libertà» (27). Un nobile veneto, in una lettera a Giovanni Giacomo Casanova (1725-1798) del 19 marzo 1794, scrive «[...] à Brescia on a fait una ragazzata. Des jeunes nobles et quelques dames invitées à un diner de campagne, se sont respectivement coupé les cheveux, on à pris le bonnet rouge et on à crié: vive la liberté» [«A brescia hanno fatto una ragazzata. Alcuni giovani nobili e qualche dama invitati a una colazione in campagna, si sono tagliati a vicenda i capelli, si è preso il berretto rosso e si è gridato: viva la libertà»] (28). Ugo da Como, riportando il pensiero del generale Francesco Gambara, interpreta che quei giovani intendevano riferirsi alla «italiana libertà» (29): effettivamente alcuni aderiranno in seguito alla Società dei Raggi o Lega Nera, che mirava all'unità nazionale.

Fin qui, tutto si svolgeva alla luce del sole. Ma già nell'autunno del 1794 a Brescia si riunivano «società segrete», formate dai «buoni amici», da uomini colti della borghesia e da qualche artigiano: molti di questi si trovano nell'elenco dei firmatari del manifesto del giuramento del 17 marzo 1797 (30). Nell'aprile 1794 a palazzo Mazzuchelli, a Brescia, si radunavano trenta o quaranta persone per «[...] realizzare perniciose massime di insubordinazione, illimitata libertà ed assurda eguaglianza», almeno così pensava il rappresentante veneto a Brescia in una denuncia al Consiglio dei Dieci (31). Il 4 maggio 1794, all'uscita del teatro, ci furono degli arresti tra i sovversivi e poco dopo veniva anche chiuso il «Casino dei Buoni Amici». Arrivava a Brescia, nel luglio dello stesso anno, il nuovo rettore mandato da Venezia, deciso a reprimere «[...] il veleno e la vertigine che viene dalla Francia» (31). Nel giugno del 1795, tre esponenti del circolo, fra cui Giacomo Lechi — quest'ultimo individuato dagli storici come «la mente filosofica della rivoluzione» (32) — giravano per la città con abbigliamento e acconciature «rivoluzionarie», ossia senza la parrucca e la cipria nei capelli, con la barba incolta e i capelli tagliati alla Brutus: essi avevano fondato una società segreta «col vincolo di fratellanza indissolubile» (33) insieme a un avvocato, un sellaio, un parrucchiere e il figlio di questi. In agosto, a teatro, il nuovo rettore, stanco di sentire i Lechi deridere i nobili bresciani fedeli alla Serenissima, reagiva furiosamente e vietava loro di abbandonare il territorio della Repubblica. Giuseppe e Angelo Lechi violavano però la consegna e partivano per Bormio. Il rettore scriveva agli Inquisitori di Stato, che quella dei Lechi era «[...] una famiglia che per destino essere deve ingrata al Governo, molesta a questa città, perniciosa al costume e alla Società» (34). Ma il padre dei fratelli fuggiaschi riusciva a ottenere che i figli rientrassero in patria e restassero chiusi in casa per qualche tempo: Giuseppe andrà poi di nascosto a Milano presso società segrete «gallofile» e qui conoscerà anche i primi emissari politici francesi.

Il 1796 è l'anno decisivo per i rivoluzionari. A Brescia i fedeli alla Repubblica di Venezia erano la maggioranza, in ogni ceto sociale, nobili, clero e popolo. Ma erano tuttavia timorosi, silenziosi, chiusi nella quiete delle loro famiglie; solo nelle valli si trovavano persone disposte a impugnare le armi per difendere l'antico regime delle libertà concrete. In un manoscritto di un cronista di Castenedolo — borgo posto a sud est di Brescia —, tale Domenico Giacomo Stanga, si legge «[...] tutto andava sotto sopra. E tutto ciò per timore del cattivo nome che aveva li francesi. [...] La Francia al tempo della sua rivoluzione aveva fatto gran stermini anche nelle Chiese e nella Religione [...]. In secondo luogo di gran timore fu quella parola che ha nome libertà perché credevasi [...] che a loro fosse lecito commettere ogni sorta di oscenità e di impudicizia con chi a lor piaceva senza riguardo a stato o condicione e di qualunque sesso [...] al veder qualche francese pareva che si vedesse un demonio [...]» (36).

Il 27 maggio 1796, Napoleone Bonaparte, «in tiro a quattro», entrava in Brescia dalla porta di San Nazzaro (37). I rivoluzionari lombardi, non conoscendo ancora i disegni di Bonaparte — Milano era stata occupata solo dodici giorni prima e Brescia faceva parte di uno Stato che si era dichiarato neutrale nella guerra tra Francia e Impero —, cercavano di organizzarsi autonomamente, favoriti anche dalla condotta ambigua del colonnello Landrieux. Un club giacobino milanese aveva deciso che i primi a sollevarsi dovessero essere i bresciani. Il Capitano Ottolini, che aveva trasmesso a Venezia le informazioni avute dal segretario Stefani, aspettava l'intervento deciso del nuovo Provveditore Straordinario di Terraferma, Francesco Battagia (1750ca-1803?), a Brescia (38). Questi, invece, non accennava a muoversi e, dopo avere segnalato a Bonaparte che pochi scellerati minacciavano la pace pubblica, asserendo di agire in nome del generale, chiedeva consigli al conte Ottolini, che era giunto in città, dopo essere stato scacciato da Bergamo. Il 16 marzo Battagia emetteva un proclama — l'ultimo, dopo trecentosessant'anni di dominio della Serenissima —, in cui si garantiva «[...] intero perdono [a coloro che]ffossero sospetti di voler turbare il buon ordine» (39). Chiamava poi a colloquio, il 17 marzo 1797, i principali esponenti rivoluzionari e li rimproverava, in quanto colpevoli di essersi fatti superare in tempestività dai bergamaschi (40). I congiurati, riuniti in casa Lechi a Sant'Agata, avevano intanto mandato a Milano e a Bergamo Francesco Filos (1772-1864) per chiedere rinforzi. La sera del 17 marzo 1797, a Palazzo Poncarali, trentanove cittadini giuravano sul tricolore di «vivere liberi o di morire» (41). Nel pomeriggio del giorno dopo giungevano sessanta uomini della Legione Lombarda e circa cento rivoluzionari bergamaschi. I «patrioti» davano così l'assalto all'indifeso palazzo del Broletto, sede della Municipalità e del governo veneto. I soldati schiavoni della guarnigione veneziana, su ordine di Battagia, non uscirono neppure dalla caserma. Giuseppe Lechi, in divisa gallo-lombarda, entrava nel grande salone del palazzo e davanti al Provveditore e ai deputati leggeva uno scritto in cui si affermava che «[...] il popolo si era volontariamente dedicato al Governo veneto ma che voleva recuperare la sua libertà e sovranità» (42). Battagia rispondeva che si lusingava che il Governo veneto non avesse fino ad allora dato motivi di lagnanza ai sudditi; che egli si adattava alla nuova universale volontà e già aveva dato ordine che non si spargesse sangue; diceva inoltre di sperare di non aver offerto, nei suoi otto mesi di reggenza, «motivi di doglianza» (43). Ma, verso sera, al quartiere di San Giuseppe, ci fu un tumulto a causa del ferimento di un bergamasco. Subito dopo Battagia veniva assalito, insultato e tenuto prigioniero dai sollevati per parte della notte. Nel moto giacobino non vi furono violenze sulle persone, ma sulle cose sì: venivano infatti regolarmente distrutti stemmi, lapidi, sculture, tutto ciò che ricordasse pubblicamente il governo veneziano. Durante la notte una commissione composta di giacobini bresciani compilava la lista dei membri dei sette comitati in cui si divideva il governo provvisorio: vigilanza, finanza, viveri, istruzione pubblica, custodia della cosa pubblica, militare e mansioni varie. Solo sette dei trentanove congiurati del 17 marzo ne facevano parte, mentre venti erano di famiglie «prima d'ora nobili» (44). Il modello della repubblica era l'antica Grecia, il governo della polis. Venivano subito istituiti un tribunale criminale e una milizia cittadina. Il timore di ricadere sotto la «dittatura di Venezia [fece operare] di un balzo [la scelta] dell'unità nazionale» (45). Mentre la città era caduta subito in mano dei rivoluzionari, le valli bresciane e la riviera di Salò, invece, manifestarono immediatamente la loro opposizione al regime ribelle. L'8 maggio 1797 veniva celebrata la festa della pacificazione, con l'erezione dell'albero della libertà in Piazza Vecchia, oggi Piazza della Loggia. Nasceva la Repubblica Bresciana — che sarebbe durata soli otto mesi —, la quale indirizzava il Manifesto di Brescia a tutti i popoli dell'Italia libera, contenente, fra l'altro, l'affermazione — in risposta all'accusa di federalismo nei confronti dei bresciani, fatta dal governo veneziano — di volere l'«unità indivisibile della repubblica italiana» (46). Poiché tutti coloro che erano veneziani venivano incolpati di ogni nefandezza, si criticava aspramente anche il vescovo, mons. Giovanni Nani (1773-1804), che aveva abbandonato a trentacinque anni la politica, dimettendosi dal Maggior Consiglio e che ora la politica coinvolgeva nuovamente. A differenza del comportamento del vescovo di Bergamo, mons. Nani aveva mantenuto un condotta lineare, retta. Nei giorni della rivolta in Val Sabbia, pur essendo violentemente attaccato dai «democratici», invitò i parroci a predicare la pace e a esporre la «[...] giusta idea del Governo democratico che ha per base la Religione di Gesù Cristo e l'interesse della Società» (47). Il 29 giugno veniva proclamata la Repubblica Cisalpina, che non comprendeva ancora Brescia, in conseguenza di una clausola — la frontiera al fiume Oglio — stabilita nei preliminari di pace tra Francia e Impero asburgico a Leoben in Stiria. La repubblica giacobina bresciana rafforzava le sue milizie aumentando gli arruolamenti. Fu anche istituita una commissione straordinaria criminale e creata una «Società di Istruzione» popolare, sul modello dei club rivoluzionari, dove si invitava il popolo a discutere di ogni problema. I giacobini bresciani si sopravvalutavano decisamente: il Giornale Democratico di Giovanni Labus (1775-1853), il 28 giugno, riportava che il governo di Brescia «[...] sparge gran fama in ogn'angol della Terra» (48): in effetti il Moniteur di Parigi aveva esaltato la democraticità dei bresciani (49). Figura singolare quella di Giovanni Labus: ex seminarista, poi giacobino, esule a Parigi, dopo la prima esperienza della Repubblica Cisalpina, si convertirà e scriverà libri di agiografia, diventando anche monarchico convinto. La Repubblica, sotto la spinta dei suoi esponenti influenzati dal giansenismo, adottava misure «giuseppine», quali, per esempio, la riforma delle regole dei conventi femminili, come si legge nel Giornale Democratico del 21 ottobre 1797 (51). Pochissime, tuttavia, furono le defezioni filo-giacobine fra il clero: fra i pochi ecclesiastici bresciani che abbracciarono le idee rivoluzionari si trovava don Vincenzo Rosa (1750-1819), di Palazzolo sull'Oglio, il quale era custode del Museo dell'Università di Pavia e nel maggio del 1796 era stato testimone e cronista dell'insorgenza e del saccheggio della città ticinese.

5. BERGAMO E BRESCIA NELLA REPUBBLICA CISALPINA

Il 17 ottobre 1797 a Campoformido, nei pressi di Udine, venne stipulato il trattato di pace tra la Francia e l'Impero asburgico. La Terraferma veneta, ad esclusione di Bergamo, Brescia, Crema e una parte della provincia di Verona — che serviva ai francesi per smembrare il sistema di fortificazioni austriaco all'imbocco della valle dell'Adige, detto Quadrilatero — passava sotto la corona asburgica. Questa rinunciava «a perpetuità» (52), come veniva detto nei capitoli VII e VIII del documento, agli altri territori italiani a favore della Repubblica Cisalpina. Il Bresciano veniva suddiviso in tre dipartimenti che prendevano nome dai vari fiumi della zona: il dipartimento dell'Adda e dell'Oglio, di cui faceva parte la Val Camonica, con capitale da stabilire; il dipartimento del Benàco, dalla sponda sinistra del Chiese fino all'Adige, con capoluogo Desenzano del Garda; infine, il dipartimento del Mella, comprendente Brescia. Bergamo diventava capoluogo del dipartimento del Serio. Una brigata di soldati bresciani, guidata da Giuseppe Lechi, si spostava nelle Romagne al seguito dell'Armée. La popolazione doveva sottostare a una fortissima pressione fiscale: già prima del trattato di Campoformido era stato stipulato un trattato di alleanza e di commercio con la Francia, ma occorre rammentare che per l'esponente del Direttorio di Parigi Lazare Nicolas Marguerite Carnot (1753-1823) l'Italia era solo «[...] un citron à pressurer» (53). In conseguenza di tali accordi la Repubblica Cisalpina avrebbe partecipato a tutte le guerre della Repubblica Francese e, allo scopo, avrebbe organizzato un'armata di italiani; avrebbe comunque mantenuto sul proprio territorio 25.000 soldati francesi, mentre in ogni fortezza cisalpina metà della guarnigione doveva essere francese. Ma non bastava. Il 15 settembre 1797 venivano fissate le indennità di guerra in un'imposta una tantum di tre milioni e trecentomila franchi, più un milione di franchi al mese fino al rientro in patria dell'Armée. Dopo la pace di Campoformido veniva stipulato un nuovo trattato con cui la Repubblica Cisalpina diventava un vero e proprio stato vassallo della Francia. L'accordo prevedeva infatti un contributo di diciotto milioni di franchi all'anno e il mantenimento completo dell'armata francese sul suolo cisalpino. Le trattative avevano segnato un contrasto tra la Francia e la Repubblica Cisalpina, acuito anche dai contrasti interni alla repubblica transalpina. Il corpo dei «seniori» cisalpini si era infatti opposto alla ratifica del pesante ed oneroso trattato di alleanza con la Francia. Di conseguenza tre «seniori» bresciani erano stati destituiti dalla loro carica. Il generale Louis-Alexandre Berthier (1753-1815), capo di stato maggiore dell'armata d'Italia, destituendo dei «seniori» realizzava un vero e proprio colpo di stato; il ministro del Direttorio Charles-Maurice Talleyrand-Perygord (1754-1838), dopo le firme di ratifica del trattato del 1° giugno 1798, diceva di avere «[...] bridé les Cisalpins avec des chaines de fer» [«legato i Cisalpini con catene di ferro»] (54). Gli «iuniori» bresciani, fra i quali Giacomo Lechi, abbandonavano il Consiglio per protesta contro l'accettazione del trattato.

Sul territorio della Repubblica Cisalpina, accanto alle autorità civili dei dipartimenti e delle città, vigeva l'autorità militare della Repubblica francese, che manteneva in Lombardia cinquantamila uomini. Tale presenza di militari stranieri diventava nel tempo un peso insopportabile per i cisalpini: bisognava mantenerli, sopportare le loro prepotenze e gli atti di concussione perpetrati dagli ufficiali di grado superiore. Ciò produceva un po' in tutti gli ambienti uno stato d'animo di risentimento. Nonostante ciò, il 21 gennaio 1797, si celebrava davanti alla loggia bresciana una festa di riconoscenza alla Repubblica Francese, nello stesso giorno in cui in Francia si commemorava la «decollazione del Capeto» (55), ovvero la decapitazione di re Luigi XVI. Il giornale di Labus diventava sempre più fazioso, sì che ne fu sospesa l'uscita per un mese e il suo direttore veniva censurato, in quanto aumentava l'ardire dei «briganti» e dei ribelli valsabbini. Il tribunale criminale continuava la repressione contro gli insorgenti; molte erano le condanne a morte, tutte per reati comuni; i «politici» erano inviati a Pizzighettone, nei pressi di Crema, ai lavori forzati. Relativamente alla legislazione in materia religiosa, i giansenisti giocarono un ruolo fondamentale. Infatti l'abate Pietro Tamburini (1737-1827), il 5 febbraio 1798, riprendeva l'incarico di insegnante al seminario diocesano. Le idee gianseniste, recepite da molti rivoluzionari, trovavano vasta eco nelle discussioni delle assemblee cisalpine. Alla Chiesa di Roma era contrapposta la «Chiesa di Cristo»; venivano formulate critiche continue all'organizzazione gerarchica e si assisteva a una incessante esaltazione della «democratica» Chiesa «primitiva», mentre veniva sferrato un attacco ideologico alla proprietà ecclesiastica, che era ritenuta contraria alla purezza evangelica e di ostacolo all'austerità religiosa. Venivano in questo modo ripresi tutti gli elementi della polemica protestante e delle altre sette eterodosse, che il cristianesimo aveva conosciuto nei secoli della sua storia. Propagandisticamente, mentre veniva «gonfiata» l'entità dei beni posseduti dagli ecclesiastici, si polemizzava sul numero eccessivo dei preti. Si affermava — ed era singolare che proprio i giansenisti lo dicessero — che la vita democratica era impossibile ove il cattolicesimo era alleato col dispotismo. Mentre si dichiarava l'incompatibilità tra la Chiesa, organizzazione gerchica, e il regime repubblicano, agli ebrei e agli acattolici veniva concessa la più ampia libertà civile. Il «democratico» Giuseppe Fantuzzi (1762-1800) proclamava: «Noi non saremo mai liberi fino a che resteremo cattolici. Libertà e cattolicesimo non possono restar uniti: questi vocaboli si escludono l'un l'altro» (56). Con legge 23 luglio 1797, il matrimonio civile veniva ad avere la precedenza su quello religioso. Tuttavia, poiché la disposizione non veniva osservata, il ministero dell'interno fu costretto ad inviare una serie di circolari alle municipalità, mentre il Gran Consiglio decretò che i preti esigessero, prima di celebrare l'unione religiosa, la certificazione del matrimonio civile. Seguirono altre disposizioni sui «vescovi stranieri» e sui «parroci stranieri»; nelle zone di confine i parroci dovevano fare riferimento al vescovo più vicino del territorio nazionale; i fedeli avrebbero dovuto frequentare la parrocchia più vicina. Ancora: erano soppressi i fedecommessi — ossia la possibilità per il testatore di scegliere il proprio erede — ed era vietato ai notai di procedere alla rogazione di tali atti; erano altresì annullate le disposizioni già date in merito. Le parrocchie minori vennero assorbite dalle maggiori e ciò determinava fortissime opposizioni, soprattutto nei paesi di montagna. Con la legge del 4 dicembre 1797, i preti «stranieri» ancora presenti sul territorio della Repubblica non potevano esercitare atti di culto; i vescovi, eletti dal Direttorio Esecutivo, dovevano prestare giuramento e fare atto di sottomissione alla Repubblica; era stabilito che il parroco venisse eletto dall'assemblea dei «cittadini attivi». Al candidato servivano i certificati favorevoli del ministro di polizia, dell'Amministrazione dipartimentale, del ministro dell'Interno e del vescovo. Lo scrutinio dei voti doveva avvenire alla presenza di un agente del governo. Le ordinazioni sacerdotali dovevano essere fatte solo in numero sufficiente ai «bisogni» della popolazione: ogni ordinando doveva avere l'approvazione del Direttorio. Venivano aboliti gli atti ed i simboli di presa di possesso del beneficio ecclesiastico: era l'autorità civile che accompagnava il sacerdote alla porta della chiesa. Nella prima costituzione repubblicana, l'articolo 353 assegna alla legge ordinaria il compito di determinare gli effetti dei voti religiosi già emessi; secondo l'articolo 355, la libertà di culto è garantita a tutti conformemente alle leggi ed è proibito l'esercizio delle funzioni ai ministri che « [...] hanno demeritato la confidenza del governo» (57); nessuno, poi, è obbligato a sostenere spese per il culto. Nella seconda costituzione, del 1798, l'articolo 340 non riconosce né voti religiosi, né alcun impedimento ai diritti naturali dell'uomo. L'articolo 349 proclama che l'esercizio del culto è libero e che nessuno può essere forzato a contribuire alle spese di alcun culto. La seconda costituzione, rispetto alla prima, poteva sembrare più rispettosa del cattolicesimo: in realtà le direttive del governo rimasero immutate e non si registrò alcun cambiamento di clima. Il vescovo di Brescia, a causa delle sue decise prese di posizione con le parole e gli scritti, veniva esiliato per tre mesi a Milano. Al suo ritorno, nel marzo 1798, gli veniva comunicato che i suoi beni erano stati confiscati, compreso il palazzo vescovile. Il 2 maggio 1798, per ordine del Direttorio della Repubblica Cisalpina, il presule veniva allontanato dalla città, per «resistenza agli ordini del Governo»[, ...] opposizione all'autorità costituita [e] incivismo» (58). Due giorni dopo si trasferiva a Venezia e in seguito a Padova. Ma non sembrava ancora sufficiente. Con atti del Gran Consiglio cisalpino venivano privati di riconoscimento i cardinali presenti sul territorio della Repubblica in quanto ritenuti una corporazione di uno Stato straniero, quindi in contrasto con gli articoli 352, 357 e 361 della costituzione: i loro beni erano incamerati dalla nazione. Oltre a ciò, il Direttorio Esecutivo cisalpino stabiliva che i beni mobili ed immobili delle confraternite andavano inventariati, come tacita premessa alla confisca: di essi sarebbe in seguito stata autorizzata la vendita. La legge 8 maggio 1798 ordinava di sopprimere e fare traslocare monasteri e confraternite per «[...] colmare l'abisso delle nostre finanze» (59). Iniziava poco dopo una violenta campagna anti-cattolica. Ancora, fra l'8 maggio e il 16 luglio 1798, l'Assemblea degli Juniori approvava una legge sull'imposizione fiscale progressiva; decretava la proscrizione del latino dalle scuole e l'abolizione di tutti gli antichi appellativi nobiliari; stabiliva provvedimenti di emergenza contro gli «allarmisti», ovvero i diffusori di false voci di sconfitte delle armi francesi o di sedizioni. Seguivano una legge sul matrimonio, mentre tutti i beni di qualunque natura e specie applicati ad oggetto o ministero di culto erano dichiarati di proprietà della nazione. I beni così sequestrati erano talmente ingenti che si trovava difficoltà a venderli tutti, al punto che fu proposto di sospendere la legge, essendo caduti i prezzi e quindi vanificata la rendita. Venivano poi soppresse le corporazioni religiose ancora esistenti e vietate nuove vestizioni di religiosi. Era pure abolito il «diritto di banco in chiesa», ritenuto offensivo per l'ideale dell'uguaglianza, ed erano vietate le distinzioni nei funerali, per esempio negli arredi o nel suono delle campane (60). Eppure, il presidente del governo provvisorio bresciano aveva affermato che sarebbe stata conservata la «divina nostra religione cattolica» (61). Ma, afferma uno storico religioso bresciano, monsignor Paolo Guerrini (1880-1960), riportando un giudizio rivelatore dello stato d'animo dei «benpensanti» del tempo, «[...] i cisalpini erano in gran parte dei briganti, loschi e sanguinari, camuffati da patrioti a imitazione dei giacobini francesi loro maestri e condottieri. Non lasciarono che rovine [...] sulle quali [...] ballavano la tregenda della democrazia borghese in berretto frigio» (62). Tre fatti ci fanno intendere significativamente qual era clima politico-religioso di questi mesi. Le suore di Orzivecchi, nella bassa bresciana, nel 1797 avevano fatto una petizione per ottenere la «libertà». Lo scritto relativo iniziava così: «Viva Gesù, viva Maria, e il governo mai sempre in compagnia» (63). Durante la Quaresima del 1798, erano poi continuamente rappresentate commedie aventi per oggetto gli amori di frati e monache (64). Il 9 luglio, infine, un religioso, mentre portava di nascosto il viatico a un moribondo, veniva attorniato da una folla orante che, nonostante il divieto, voleva, secondo l'uso, accompagnarlo in processione coi lumi accesi (65). Tutte queste disposizioni, ispirate dal giacobinismo più radicale, preoccupavano il Direttorio francese, che inviava a Milano il commissario civile Charles-Joseph Trouvé (1768-1860) con l'incarico di allontanare dai corpi legislativi gli estremisti, rafforzare la Repubblica quel tanto che potesse essere di aiuto alla Francia, controllando nel contempo le autorità cisalpine. Trouvé convocava quindi il Consiglio cisalpino per chiedere l'approvazione di un disegno di legge di riforma costituzionale. Su 86 membri dell'assemblea, ventidue si opponevano e davano o confermavano le dimissioni: fra questi sette bresciani, fra cui Giacomo Lechi. Contro la nuova costituzione si schierava il generale Guillaume-Marie-Anne Brune (1763-1815), che voleva l'indipendenza della Repubblica Cisalpina dalla Francia ed era vicino ai bresciani. Nell'autunno del 1798 si avvicendavano i plenipotenziari e i generali francesi. Claude-Joseph Trouvé, moderato, e Brune, radicale, venivano sostituiti da Joseph Fouché (1759-1820), estremista e da François Vignaud de Rivaud (1754-1836), moderato; i nuovi generali erano Barthélemy-Catherine Joubert (1769-1799) e Barthélemy-Louis-Joseph Scherer (1747-1804). Il 27 ottobre 1798 la costituzione veniva sottoposta alle assemblee primarie. A Brescia veniva bocciata con 767 voti contrari e solo 3 «sì», in quanto si preferiva quella francese dell'anno V (1797), «[...] sortita dalle mani di Bonaparte», secondo il Giornale Democratico (66). Lo storico francese d'inizio 1900 Albert Pingaud definiva i rivoluzionari bresciani «montagnards cisalpins» (67). La costituzione voluta da Trouvé sanciva la supremazia della Francia. Fouché, che aveva richiamato i consiglieri dimissionari, la aboliva. Vignaud de Rivaud il 16 dicembre 1798 ripristinava la costituzione di Trouvé e richiamava nel Direttorio e nei Consigli cisalpini i deputati destituiti da Fuoché. Già circolavano notizie di ripresa della guerra. Molti rivoluzionari bresciani si riunivano nella segreta «Società dei Raggi». Per sanare le finanze, si adottavano rimedi drastici: 18 famiglie della ex nobiltà bresciana dovevano versare al nuovo stato la somma di 600.000 lire milanesi. Il Direttorio cisalpino decideva anche la leva di 9.000 uomini estratti a sorte. Il provvedimento suscitava scarsissimo entusiasmo e si assistette a fughe e diserzioni, in particolare fra i contadini e gli abitanti delle valli. A Brescia, erano sorteggiati 156 giovani, fra i quali 8 ex-nobili, 7 ricchi e anche 3 chierici. Numerose diserzioni venivano registrate anche nella legione bergamasca. Per il 28 maggio 1797 si prometteva però che le compagnie italiche sarebbero state formate da soli volontari. Il Direttorio cisalpino metteva a tacere i fogli democratici dissidenti. Il Giornale Democratico chiudeva il 28 gennaio e il direttore, Labus, ne fondava subito un altro, l'Iride, che dopo due mesi veniva anch'esso chiuso, per venire ripubblicato con una nuova testata, Il Circospetto. Nel contempo veniva proibita la diffusione delle gazzette venete. Solo otto «cittadine» parteciparono al veglione carnevalesco in teatro, organizzato dagli ufficiali francesi, rifiutandosi peraltro di ballare. Mentre la carestia desolava le valli, il teatro era sempre aperto e i preti, i frati e le monache continuavano a essere scherniti. L'attrice Gaetana Andolfati (1768-1830) — forse la più brava attrice del tempo — e la sua compagnia «Goldoni», non avendo nel repertorio commedie «istruttive e democratiche» (68), erano definite «aristocratiche», pur mietendo successi ovunque. Proibita era anche la maschera di Arlecchino.

Alla fine dell'anno le truppe del generale russo Alexandr Vassilievic Suvorov (1729-1800) avanzavano e, il 27 aprile 1799, sconfiggevano i francesi a Cassano d'Adda, nei pressi di Milano, ed entravano nella capitale. I capi della rivoluzione lombarda si rifugiavano in Francia — molti nella zona di Grenoble —, e a Genova, dove morirà, nel 1800, Giuseppe Fantuzzi.

Le immediate conseguenze dell'attività politica, svolta spesso per pura animosità ideologica, dal Direttorio e dalle Assemblee legislative della Repubblica Cisalpina sotto la protezione delle armi francesi esacerbarono così tanto gli animi, che nelle città e nei paesi liberati dalle armate russe e imperiali, ci si abbandonava a manifestazioni di gioia, si cantava il Te Deum, come avvenne a Brescia, nella chiesa di San Faustino. «Del resto — scrive lo storico milanese monsignor Carlo Castiglioni (1884-1964) — il Souvaroff protestava di essere “venuto a riparare la religione”. Per quanto egli fosse ortodosso, era noto per gli atti pubblici di devozione che egli compiva dovunque incontrasse tabernacoletti in aperta campagna. Entrando in Duomo per il canto del “Te Deum” si prostrava a terra a baciare per tre volte il pavimento, e con effusione abbracciava e baciava il vecchio arcivescovo» (69).

PAOLO MARTINUCCI

Note

(1) Cfr. Aldo A. [Alessandro] Mola, Storia della Massoneria italiana dalle origini ai nostri giorni, 2a ed., Bompiani, Milano 1997, pp. 55-56.
(2) Carlo Zaghi, L'Italia giacobina, Utet Libreria, Torino 1989, p. 25.
(3) Cit. in Walter Maturi, Partiti politici e correnti di pensiero nel Risorgimento, in Nuove Questioni di Storia del Risorgimento e dell'Unità d'Italia, vol. I, Marzorati, Milano 1961, p. 47.
(4) Su Filippo Buonarroti, cfr., fra gli altri, Pia Onnis Rosa, Filippo Buonarroti e altri studi, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1971.
(5) Cfr. W. Maturi, op. cit., p. 48.
(6) Cfr. Jacques Godechot, Les jacobins italiens et Robespierre, in Annales Historiques de la Révolution française, 1958, p. 65.
(7) Cfr. Bortolo Belotti, Storia di Bergamo e dei Bergamaschi, Ceschina, Milano 1959, vol. II, pp. 656-657.
(8) Ibid., p. 678.
(9) Cfr. una sua lettera, in data 19 ottobre 1796, cit. ibid
(10) Ibidem.
(11) Cfr. anche ibid., p. 678 e p. 694.
(12) Ibid., p. 679.
(13) Ibid., p. 681.
(14) Ibid., p. 683.
(15) Ibidem.
(16) Ibid., p. 685.
(17) Ibidem. Sull'episodio e sull'intera vicenda della repubblica bergamasca, cfr. anche Silvio Burattin, Tramonto veneziano. 1796-1797. La fine della Repubblica di Venezia, Moretti & Vitali, Bergamo 1994, pp. 75-96.
(18) Ibid., p. 696.
(19) Ibid., p. 688.
(20) Ibid., vol. III, p. 8.
(21) Ibidem.
(22) Cfr. lettera ai parroci e ai rettori di chiese e monasteri del 24 marzo 1797, cit. ibid., p. 16.
(23) Cfr. AA.VV., Dalla Repubblica bresciana ai nostri giorni (1797-1963), in Storia di Brescia, a cura di Giovanni Treccani degli Alfieri, Morcelliana, Brescia 1961, vol. IV, p. 3.
(24) Ibid., p. 4.
(25) Cfr. ibid., p. 7.
(26) Ibidem.
(27) Cfr. ibidem.
(28) Ibidem.
(29) Ibidem.
(30) Cfr. ibid., p. 8.
(31) Ibidem.
(32) Ibidem.
(33) Ibidem.
(34) Ibid., p. 9.
(35) Ibidem.
(36) Cfr. Domenico Giacomo Stanga, Annotazioni de' fatti successi a tempi nostri, ms. in Biblioteca Fondazione «Ugo Da Como», Lonato (Brescia).
(37) Cfr. AA.VV., Dalla Repubblica bresciana ai nostri giorni (1797-1963), cit., p. 11.
(38) B. Belotti, op. cit., vol. II, pp. 679-681.
(39) AA.VV., Dalla Repubblica bresciana ai nostri giorni (1797-1963), cit., p. 20.
(40) Lo afferma il ministro imperiale conte Louis di Cobenzl (1753-1809) in una lettera al barone Johann Amadeus Franziskus de Paula Thugut (1736-1818) del 28 febbraio 1798; cfr. ibidem.
(41) Ibid., p. 21.
(42) Cit. in Ugo da Como, La Repubblica bresciana, Zanichelli, Bologna 1926, pp. 61-62.
(43) Ibidem.
(44) Cfr. AA.VV., Dalla Repubblica bresciana ai nostri giorni (1797-1963), cit., p. 24.
(45) Ibidem.
(46) Cfr. ibid., pp. 25-27.
(47) Ibid., p. 28.
(48) Ibidem.
(49) Ibidem.
(50) Cfr. ibid., p. 42.
(51) Cfr. ibid., p. 28.
(52) Cfr. ibid., p. 29.
(53) Cfr. W. Maturi, op. cit., p. 54.
(54) Cit. in AA.VV., Dalla Repubblica bresciana ai nostri giorni (1797-1963), cit., p. 33.
(55) Cfr. ibid., p. 31.
(56) Cit. in W. Maturi, op. cit., p. 58.
(57) Cit. in Melchiorre Roberti, Milano capitale napoleonica. La formazione di uno stato moderno 1796-1814, in Storia di Milano, Fondazione Treccani degli Alfieri per la Storia di Milano, Milano 1946, vol. I, p. 418.
(58) Cit. in AA.VV., Dalla Repubblica bresciana ai nostri giorni (1797-1963), cit., p. 33; cfr. anche M. Roberti, op. cit., vol. I, pp. 418-419.
(59) Cit. in AA.VV., Dalla Repubblica bresciana ai nostri giorni (1797-1963), cit., p. 33.
(60) Cfr. M. Roberti, op. cit., pp. 415-431.
(61) Cfr. AA.VV., La dominazione veneta (1576-1797), in Storia di Brescia, a cura di Giovanni Treccani degli Alfieri, vol. III, Morcelliana, Brescia 1961, p. 202.
(62) Cit. ibid., pp. 201-202.
(63) Ibid., p. 202.
(64) Cfr. AA.VV., Dalla Repubblica bresciana ai nostri giorni (1797-1963), cit., p. 33.
(65) Cfr. AA.VV., La dominazione veneta (1576-1797), cit., p. 203.
(66) Cit. in AA.VV., Dalla Repubblica bresciana ai nostri giorni (1797-1963), cit., p. 35.
(67) Cit. ibidem.
(68) Cfr. ibid., p. 33.
(69) Monsignor Carlo Castiglioni, La vita ecclesiastica nei suoi atteggiamenti, in AA.VV., Milano napoleonica, Ed. Amici del Museo del Risorgimento, Milano 1950, p. 141.

 

BIBLIOGRAFIA DELLA PRIMA E DELLA SECONDA PARTE

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