I CARAVAGGESCHI

Italia

L’arte di Caravaggio attraversò come un’ondata l’Italia del primo decennio del XVII secolo. Se non la sommerse, certamente la percorse tutta. Ma ben presto l’ondata si ritirò. Certo, riaffiorò di tanto in tanto nel corso del secolo come una corrente sottomarina, ma tre decenni dopo la morte di Caravaggio, avvenuta nel 1610, solo a Napoli il caravaggismo continuava a essere una forza vitale della pittura italiana. Durante questa breve storia, furono pochi gli artisti che, come Bartolomeo Manfredi, si immersero nei flutti del caravaggismo per l’intera durata della loro carriera. Molto più numerosi furono coloro che, come Orazio Gentileschi e Carlo Saraceni a Roma o Jusepe de Ribera a Napoli, se ne lasciarono trasportare per qualche anno per poi intraprendere altre strade. I più, come Guido Reni, vi sguazzarono per così poco tempo da restare praticamente asciutti. Privo di ‘vortici’ paragonabili alla scuola dei Carracci e alle botteghe di Ludovico, di Annibale e dei loro successori, il caravaggismo ebbe i suoi centri a Roma e, in secondo luogo, a Napoli. Nella sua evoluzione si possono discernere alcuni fili conduttori. Fino alla fuga di Caravaggio dalla città papale, nel 1606, dopo l’uccisione di un uomo, i suoi dipinti non trovarono molti imitatori. Se fece ricorso ad aiutanti, ciò avvenne di rado. Caravaggio dunque non si formò dei successori ai quali trasmettere i principi in base ai quali concepiva i suoi dipinti o i procedimenti mediante i quali li eseguiva. In più, si mostrava ostile nei confronti di chiunque osasse tentare un’imitazione del suo stile, come nel caso di Giovanni Baglione. Caravaggio era stato amico di Orazio Gentileschi, l’unico dei suoi seguaci a essere più anziano di lui; ma nel 1603 i due avevano litigato. Anche Orazio Borgianni, l’unico altro componente del circolo caravaggesco romano che secondo le nostre fonti lo aveva conosciuto direttamente, si era allontanato da lui. Dopo la fuga da Roma, Caravaggio viaggiò troppo e troppo in fretta, e la sua vita divenne troppo randagia perché egli potesse affermarsi come caposcuola. Eppure, qualche anno dopo la sua morte il caravaggismo era divenuto uno degli stili pittorici più affermati a Roma, e andava rapidamente diffondendosi non solo in Italia ma anche nel resto d’Europa. La diffusione dello stile di Caravaggio ebbe luogo da una parte attraverso i dipinti del maestro, in originale o in copia, dall’altra attraverso l’operato dei suoi seguaci. Il corpus maggiore di opere del Merisi si trovava a Roma in chiese famose e grandi collezioni private, facilmente accessibile a chi desiderasse studiarlo. Opere importanti erano visibili anche a Napoli e in tutte le altre città dell’Italia meridionale nelle quali aveva soggiornato, mentre la Medusa si trovava a Firenze e il Canestro di frutta a Milano. Può darsi che qualche suo dipinto fosse anche nelle Marche e a Genova, dove pare che abbia brevemente soggiornato nel 1604 e nel 1605. In Emilia il suo stile penetrò nel 1607, quando il duca di Mantova acquistò la Morte della Vergine. Quando era impossibile procurarsi tele originali di Caravaggio, alcuni collezionisti si accontentavano di copie. Le prime di cui abbiamo notizia sono due versioni (oggi perdute) dell'Incredulità di san Tommaso, comparse a Bologna e a Genova non più tardi del 1606. La consuetudine di realizzare copie era assai diffusa, così come la loro dispersione. Alcune erano assai convincenti. A quanto pare, quelle di Angelo Caroselli, un pittore alla periferia del circolo caravaggesco romano, riuscirono a ingannare lo stesso Borgianni. Diverse furono eseguite da copisti di professione, come il Suonatore di liuto e i Giocatori di carte (originariamente appartenuti alla collezione Barberini) di Carlo Mangone; altre probabilmente da studenti. Evidentemente la produzione di copie era pratica corrente tra i seguaci romani di Caravaggio, e in particolare tra gli italiani della bottega di Carlo Saraceni. Caroselli firmava le sue copie con il monogramma AC, ma non tutti i copisti erano altrettanto scrupolosi. Molte copie probabilmente furono spacciate per originali dai loro autori o da mercanti di pochi scrupoli. Dopo la precipitosa fuga dell’artista da Roma, i potenziali imitatori non furono più inibiti dalla sua minacciosa presenza. Quattro anni più tardi, all’epoca della morte del Merisi, tanto Gentileschi quanto Borgianni e Manfredi eseguivano dipinti caravaggeschi, seguiti ben presto da Carlo Saraceni. Questi quattro pittori formarono la ristretta cerchia, potremmo dire la prima ondata, dei seguaci italiani di Caravaggio a Roma. Essi non costituivano un gruppo organizzato, né collaboravano reciprocamente. Ma con poco più di centomila abitanti, Roma era una città abbastanza piccola da far ritenere estremamente improbabile che ciascuno di loro non conoscesse gli altri e la loro opera. Nei pochi casi in cui collaborarono, ciò avvenne nell’esecuzione di affreschi decorativi in cui non era possibile riprodurre il caratteristico chiaroscuro di Caravaggio, né rappresentare i suoi personaggi plebei. Lavorando indipendentemente, ciascuno di loro sviluppò lo stile del maestro secondo una linea personale. I pittori appena citati, tuttavia, non esercitarono alcun monopolio sul caravaggismo. Anche Caroselli e Antiveduto Grammatica - che probabilmente avevano entrambi conosciuto Caravaggio di persona - avevano iniziato a dipingere in stile caravaggesco.

A essi si unirono ben presto alcuni pittori italiani della generazione successiva, tra i quali il messinese Alonzo Rodriguez, il marchigiano Gian Francesco Guerrieri, il veronese Pasquale Ottino, forse il piemontese Tanzio da Varallo, e diversi stranieri, tra i quali spiccano Hendrick Ter Brugghen di Deventer, nei Paesi Bassi, e Louis Finson di Bruges. Intorno al 1610 quello che fino ad allora era stato a Roma uno stillicidio di nuovi arrivi si trasformò in un’autentica piena i cui esponenti più importanti, in termini di attività e di influenza future, furono stranieri: Gerrit van Honthorst (Gherardo delle Notti), di Utrecht, all’inizio del secondo decennio del secolo, Valentin de Boulogne nel 1611 circa, e Simon Vouet alla fine del 1613.

A questi stranieri se ne aggiunsero molti altri provenienti dalla Francia e dai Paesi Bassi. Non meno numerosi furono gli italiani: i veronesi Alessandro Turchi e Marco Bassetti, il senese Rutilio Manetti, il pisano Orazio Riminaldi, il lucchese Pietro Paolini, il ligure Domenico Fiasella e i napoletani Massimo Stanzione e Giovan Battista Caracciolo detto il Battistello. Negli stessi anni giunsero alla maturità Artemisia Gentileschi, figlia e allieva di Orazio, e il viterbese Bartolomeo Cavarozzi. Anche lo spagnolo Jusepe de Ribera trascorse qualche anno a Roma prima di stabilirsi a Napoli.

Alcuni di questi giovani pittori, nell’arrivare a Roma, erano certamente già al corrente delle vette raggiunte dall’arte di Caravaggio, e ansiosi di prenderla a modello. Tutti quanti poterono studiare i suoi dipinti; ma l’autore non c’era più.

In cerca di sostituti del maestro, si rivolsero così alla prima ondata dei suoi seguaci, alla cerchia più ristretta. Alcuni entrarono addirittura nelle botteghe dei maestri più anziani - in particolare con Saraceni - come allievi-aiutanti. Per quanto ne sappiamo, tuttavia, ben pochi pittori della generazione successiva intrattennero rapporti ufficiali con la cerchia più ristretta; nella maggior parte dei casi, essi operarono indipendentemente. Ciò nonostante, tutti quanti fecero riferimento al caravaggismo modificato della prima generazione altrettanto e forse più che allo stesso Caravaggio. Tanti di loro furono influenzati dai caratteristici, cupi dipinti di Manfredi raffiguranti gruppi di soldati, così da creare uno stile in seguito definito dal pittore e storico tedesco Joachim von Sandrart (1606 - 1688) "genere alla Manfredi". Altri adottarono lo stile più raffinato di Orazio Gentileschi, rappresentando figure elegantemente abbigliate in composizioni sostanzialmente statiche. Altri ancora si rifecero a Saraceni. Nel loro complesso questi giovani pittori formarono la seconda ondata del caravaggismo.

All’inizio degli anni Venti del XVII secolo, a Roma non era rimasto più nessuno dei membri del circolo più ristretto. Borgianni e Manfredi erano morti, e così pure Saraceni che era tornato a Venezia dove era nato. Orazio Gentileschi non aveva riscosso particolare successo a Roma tra il 1615 e il 1620, e nel 1621 se ne andò dirigendosi al Nord, prima a Genova e a Torino, quindi in Francia e finalmente in Inghilterra, dove rimase fino alla morte, avvenuta nel 1639. Anche la maggior parte dei rappresentanti più significativi della seconda generazione aveva lasciato Roma, di solito per far ritorno in patria. Il bagaglio stilistico che ciascuno portava con sé era imparentato solo indirettamente con quello di Caravaggio, e spesso era stato ulteriormente modificato dall’influenza di altri artisti, in particolare Reni, Annibale Carracci e i seguaci di quest’ultimo.

Fatto ritorno in patria, questi seguaci di seconda generazione si misero in proprio creando botteghe e circondandosi di allievi-assistenti. Soggetti alle pressioni della tradizione, del conservatorismo della committenza locale, di forze irresistibili quali l’influenza di van Dyck a Genova o la ricchezza coloristica dello stile decorativo barocco che si andava affermando in tutta Italia, si allontanarono ben presto dal caravaggismo. Verso il 1640 esso era pressoché scomparso ovunque, tranne che a Napoli.

I pochissimi che continuarono sulla via del caravaggismo, tra i quali Biagio Manzoni a Faenza e l’olandese Matthias Stomer in Sicilia, erano così isolati da non essere conosciuti fuori dall’ambito locale.

A Roma, nel frattempo, l’elezione al soglio pontificio del bolognese Gregorio XV, nel 1621, portò a un allontanamento della committenza dal caravaggismo. La pittura caravaggesca non restò completamente eclissata. Antiveduto Grammatica venne eletto principe dell’Accademia di San Luca; gli succedette Vouet, il quale tuttavia stava già uscendo dalla sua fase caravaggesca. Brillante fu la carriera di Valentin de Boulogne, culminata intorno al 1630 col successo ottenuto dal suo Martirio dei santi Processo e Martiniano contro il tetro Martirio di sant’Erasmo di Poussin.

Anche a una figura di secondo piano come Giovanni Antonio Galli detto lo Spadarino venne commissionata una pala d’altare per la basilica di San Pietro, il Miracolo dei santi Valeria e Marziale oggi nella Sala capitolare, finito nel 1633. Al caravaggismo si rifecero, per ‘modernizzarlo’, anche due giovani artisti italiani di talento come Giovanni Serodine di Ascona Ticino nel secondo decennio del secolo, e il calabrese Mattia Preti nel terzo. Ma Serodine morì nel 1630, e gran parte della carriera alquanto discontinua di Preti si svolse lontano da Roma.

Si tende a considerare Preti un esponente della pittura napoletana, sebbene in realtà egli abbia trascorso a Napoli solo brevi periodi della sua lunga esistenza. Secondo centro focale del caravaggismo italiano, Napoli ne è stata tradizionalmente considerata anche il centro continuatore.

In assenza di rivali locali della statura di Annibale Carracci e dei suoi successori romani, Caravaggio vi esercitò una grandissima influenza, e il suo stile continuò a dominare l’avanguardia pittorica napoletana nel corso degli anni Venti del Seicento. Alla fine del decennio, Napoli aveva avuto sufficienti contatti con la pittura del resto d’Italia perché il monopolio venisse spezzato. Ma il caravaggismo sopravvisse fino alla metà del secolo. A Napoli, il ruolo della cerchia più ristretta dei caravaggisti romani venne assunto da Caracciolo e Ribera, spalleggiati da Stanzione dopo il ritorno di quest’ultimo da Roma nel 1630, e ulteriormente rafforzati dall’arrivo nello stesso anno di Artemisia Gentileschi.

Tra il 1610 e il 1620 tanto Caracciolo quanto Ribera avevano elaborato uno stile personale che per qualità si avvicinava a quello dello stesso Caravaggio.

Ambedue, tuttavia, modificarono il proprio stile caratteristico dopo il 1620: il primo in seguito a lunghi viaggi che lo condussero a Roma, a Firenze e infine a Genova; il secondo per l’influenza della pittura bolognese e in particolare di Guido Reni.

Ribera continuò a rappresentare figure di popolani nelle vesti di santi e filosofi, con franchezza talvolta brutale. In altri soggetti religiosi, tuttavia, si addolciva, ammorbidendo tanto la maniera quanto il sentimento.

Stanzione, paragonabile alla seconda generazione dei pittori romani, si avvicinò al caravaggismo in alcuni dei suoi dipinti narrativi e nella toccante Pietà del 1638 per la chiesa della certosa di San Martino, ma rimase sempre alla periferia del movimento.

Ribera, che esercitò una vera e propria dittatura sull’ambiente artistico napoletano, raccolse intorno a sé stuoli di assistenti e imitatori, in particolare i fratelli Fracanzano, Francesco e Cesare, e l’anonimo Maestro dell’Annuncio ai pastori; questi elaborarono stili caravaggeschi derivati da quello di Ribera, che perdurarono fino alla metà del secolo. Il caravaggista napoletano più significativo degli anni Trenta fu un allievo di Stanzione, Bernardo Cavallino, la cui collocazione a Napoli è in qualche modo analoga a quella di Serodine a Roma. Per un breve periodo Cavallino dipinse con una drammaticità paragonabile a quella dello stesso Caravaggio. Ma a differenza di Serodine, visse abbastanza da allontanarsi dal caravaggismo. La peste della metà del secolo eliminò dalla scena un numero sufficiente di pittori napoletani da lasciare libero spazio a Luca Giordano e ai suoi successori. Questi ultimi non ignorarono completamente la lezione del caravaggismo, in particolare la colorita versione neoveneziana di Preti, giunta a Napoli in occasione di un soggiorno dell’artista alla fine degli anni Cinquanta. Qualche debito verso il caravaggismo si può riscontrare nei primi dipinti ribereschi di Giordano, o nell’uso delle luci e delle ombre da parte di Francesco Solimena. Ma si tratta di aspetti marginali in un’arte ormai trasformata tanto nello stile quanto nello spirito.

Dello stile di Caravaggio si imitano il più delle volte solo i tratti più evidenti, ossia la manipolazione delle luci e delle ombre e l’impiego di modelli dei ceti più umili. Tutti i suoi seguaci in qualche misura ripresero queste caratteristiche. Ma la sua capacità di penetrazione psicologica e l’autenticità con cui rappresentava l’umanità dei suoi personaggi erano al di là della capacità di comprensione dei suoi seguaci. La storia del caravaggismo italiano, dunque, consiste più in un adattamento dei tratti caratteristici dello stile del maestro che nella riproposta dello spirito della sua arte. A partire dalla cerchia più ristretta dei caravaggisti romani, la maggior parte dei seguaci del Merisi spogliò progressivamente lo stile del maestro della sua profondità, e ne trasformò l’originalità in convenzionalità. Con l’andar del tempo - e in questo caso il tempo trascorse molto rapidamente - i dipinti di scuola caravaggesca si fecero sempre più aneddotici e pittoreschi. Si elaborarono i dettagli dei costumi e degli accessori. I modelli persero il loro carattere risolutamente plebeo, perdendo quell’umile dignità che il maestro lombardo aveva saputo scoprire in loro.

I personaggi del Caravaggio maturo sono stremati dal fardello dell’esistenza. Nelle loro tele i suoi seguaci si fecero invece sempre più giocosi, quasi fossero più ispirati dalla fascinosa Maddalena della romana galleria Doria Pamphilj o dalla prospera e sicura di sé Madonna dei palafrenieri, piuttosto che dalle impacciate e dolenti figure del Seppellimento di santa Lucia. Gli angeli tornano a comparire nelle opere dei primi caravaggisti anche quando le Scritture non lo richiederebbero, divenendo una presenza costante nei dipinti dei più lontani seguaci del maestro, così come la rappresentazione esplicita di quelle apparizioni miracolose che Caravaggio lasciava solo intuire. Alcuni dei suoi seguaci seppero creare dipinti che catturavano in gran parte lo spirito della sua arte: la Giuditta di Orazio Gentileschi, pur nel suo splendido costume, riesce a essere apprensiva e insieme determinata; il San Lorenzo di Serodine è commovente nella sua giovinezza, diffidente e al tempo stesso sollecito; e la contrizione dell’adolescente Figliol prodigo di Cavallino appare non meno sincera della pietà del padre. Ma solo di rado i caravaggisti italiani riescono a raggiungere tanta partecipazione e penetrazione psicologica.

Con l’eccezione di alcuni storici locali come De Dominici a Napoli, la maggior parte degli scrittori di cose d’arte del XVII secolo trattò i caravaggisti alla stregua di note a piè di pagina della vita e delle opere di Caravaggio.

Il caravaggismo italiano è stato riscoperto in questo secolo, soprattutto dal 1951, specialmente in quanto corollario della riabilitazione dello stesso Caravaggio. Questo processo di riscoperta è stato favorito da collezionisti e mercanti d’arte che, come i loro predecessori italiani dopo la morte del Merisi, in mancanza di opere del maestro si sono rivolti a quelle dei seguaci. Fenomenologicamente, il caravaggismo sotto molti aspetti può essere paragonato al ‘giorgionismo’. Tra i pittori italiani che si rivolsero più che episodicamente a Caravaggio, tuttavia, si cercherebbe invano un giovane Tiziano. Le loro opere riflettono quelle del maestro in modo solo parziale, con una distorsione che si fa sempre più accentuata con il trascorrere del tempo e con la diffusione del caravaggismo da Roma e Napoli ai centri artistici minori. Tracce dell’influenza di Caravaggio si possono ritrovare nell’opera di artisti il cui talento li fa assurgere dal ruolo di seguaci a quello di capiscuola. Ma queste tracce sono fugaci nell’opera di Reni, sfuggenti in quella di Lanfranco, e intermittenti in quella di Preti. Per quanto successo possa avere avuto il caravaggismo durante il primo quarto del XVII secolo, esso non costituì la corrente principale della pittura italiana del Seicento, ma solo un filone secondario. La maggioranza dei più espliciti imitatori di Caravaggio sarebbe rimasta pressoché sconosciuta se non si fosse aperta alla sua influenza. Fu l’arte di Caravaggio a innalzare questi artisti al di sopra delle proprie possibilità. Ma essi furono incapaci di mantenere un livello così elevato, e ben presto decaddero nel provincialismo. Il paradosso è che a parte Ribera e de La Tour, i pittori che sembrano avere approfittato del caravaggismo nella maniera più durevole e profonda - capiscuola della statura di Lanfranco e Rubens - sono coloro che palesano tale debito con minore evidenza.

Francia

Esistono tre storie del caravaggismo francese. In primo luogo, quella dell’’esercito’ di giovani pittori francesi giunti a Roma nel secondo decennio del XVII secolo; in secondo luogo, quella alcuni fra questi stessi artisti che si mantennero fedeli alla lezione del maestro anche dopo il ritorno in Francia; infine quella dei più grandi tra i pittori caravaggeschi: di Georges de La Tour non sappiamo nemmeno se si sia mai recato in Italia (per quanto ci riguarda, siamo convinti di sì); dei fratelli Le Nain, non si sa quale dei tre abbia creato i capolavori di vita campestre conservati al Louvre.

Caravaggio morì lo stesso anno di Enrico IV di Francia, su una spiaggia vicino a Porto Ercole, in Toscana, vicino Grosseto. Molto probabilmente nessun caravaggista francese lo conobbe mai personalmente. Il caravaggismo si sviluppò intorno ad alcuni temi di vita quotidiana: scene di taverna con giocatori di carte, musicanti, indovini. Gli dei e gli eroi del mito, bruscamente esclusi, vengono sostituiti da vegliardi stracciati e rugosi, vecchie sdentate, rozzi soldatacci e fanciulle dalla dubbia moralità. Talvolta si nota l’aggiunta di animali. Per quanto riguarda i temi biblici, questi vengono privati di ogni sacralità. Come si è spesso osservato, il caravaggismo offriva al tempo stesso una formula plastica rivoluzionaria e una nuova spiritualità.

Una delle caratteristiche fondamentali del movimento fu il suo internazionalismo. A Roma, artisti di diversa nazionalità vivevano e lavoravano insieme. Separare gli artisti francesi dagli altri sarebbe non solo falso, ma assurdo. Ne è un esempio eloquente il caso di Nicolas Régnier. Nato a Maubeuge, allora città fiamminga anche se oggi si trova in territorio francese, la sua formazione artistica ebbe luogo ad Anversa. Ma siccome la sua arte è strettamente legata a quella di Vouet, Tournier e Valentin de Boulogne, viene generalmente annoverato tra i caravaggisti francesi. Nell’individuazione dei seguaci francesi di Caravaggio si incontrano anche difficoltà di altro genere. Molti di loro restano tuttora nell’anonimato, come il Maestro del Giudizio di Salomone, Cecco del Caravaggio, o il cosiddetto Pensionante del Saraceni. Com’è possibile affermare con certezza che tutti e tre fossero veramente nati in Francia? All’inizio del XVII secolo Roma era la capitale della pittura europea e godeva di immenso prestigio; e tanto maggiore era il suo splendore in quanto in Francia le difficoltà economiche e politiche non rendevano certo facile la vita di chi volesse dedicarsi all’arte. Per gli artisti della giovane generazione Roma fu come una calamita che nel secondo decennio del XVII secolo esercitò un’attrazione irresistibile, un po’ come Parigi nel XIX secolo, o meglio ancora Montparnasse negli anni fra la prima e la seconda guerra mondiale. Nel caso di Roma, a essere infestata dagli artisti era tutta la zona intorno a piazza di Spagna e via Margutta, con le parrocchie di Sant’Andrea delle Fratte, San Lorenzo in Lucina e Santa Maria del Popolo.

Il primo caravaggista francese (con Guy François) a giungere a Roma fu Valentin de Boulogne (Coulommiers-en-Brie 1594 circa - Roma 1632), forse già intorno al 1611-1612 ma certamente prima del 1614. Niente sappiamo della sua formazione, e la cronologia delle sue prime opere ci sfugge completamente. Il suo primo lavoro documentato è datato 1627, cioè cinque anni prima della sua morte prematura. Da allora in poi la produzione di Valentin è tanto ampia quanto ben documentata: lavorò per San Pietro, per i Barberini, per Cassiano dal Pozzo e per Valguarana. Il già menzionato Sandrart afferma che fu discepolo di Vouet, ma l’opera di Valentin manifesta scarsi punti di contatto esteriori con quella del presunto maestro, e certamente non ne porta avanti i presupposti. Solo l’arte di Caravaggio doveva realmente influenzarlo. Valentin tuttavia non ne riprese tanto la violenza, quanto piuttosto il naturalismo. Personaggio solitario (ci è noto un solo compagno di bottega, il fiammingo Douffet), rivela la sua personalità in composizioni monumentali con figure immobili, contraddistinte da solennità e da una sognante malinconia. Le sue tele assai contrastate, dai colori lividi, rappresentano spesso i temi del concerto, dell’indovino (come quelle conservate al Louvre o a Pommersfelden) o della partita a carte. I soggetti religiosi, da lui trattati nello stesso modo, esprimono tuttavia una straordinaria intensità spirituale, come per esempio la Cena di palazzo Corsini, a Roma. Completamente diverso da Valentin de Boulogne è Simon Vouet (Parigi 1590 - 1649). Di temperamento vitale ed estroverso, divenne ben presto un’autorità grazie all’importanza della sua bottega, alla pensione che Luigi XIII gli versò a partire dal 1614 - 1615 e alla sua elezione alla carica di principe dell’Accademia di San Luca a Roma nel 1624. Nella città papale Vouet risiedette dalla fine del 1613 al 1627, senza interruzioni tranne un breve viaggio a Genova e a Milano nel 1620-1621. Meno fedele a Caravaggio di Valentin, introduce il movimento nelle proprie composizioni dal carattere spesso teatrale, raffiguranti personaggi robusti, dai lineamenti pesanti, messi in rilievo da una luce violenta. Nell’ampio trattamento delle tappezzerie e nell’uso di colori vivaci si può già scorgere il gusto di Vouet per il decorativo. Nelle opere romane quali la Nascita della Vergine nella chiesa di San Francesco a Ripa (1618-1620), San Francesco rinuncia ai suoi averi e la Tentazione di san Francesco della chiesa di San Lorenzo in Lucina (1624) egli unisce l’eleganza decorativa a un poderoso realismo.

Tra gli altri artisti del gruppo è d’obbligo rammentare Nicolas Régnier (Maubeuge 1591 - Venezia 1667) . Il suo Giocatori di carte e buona ventura, oggi nel museo di Budapest - una scena di taverna con figure a mezzo busto - deriva direttamente dalla cosiddetta "maniera scura" di Manfredi, alla quale Régnier si mostrò particolarmente sensibile. Egli tuttavia vi aggiunge un’eleganza e una duttilità interamente sue. Le figure femminili dal viso pieno e dalle labbra ben definite richiamano senz’altro alla mente l’arte di Vouet, mentre l’immobilità dei personaggi fa pensare a Valentin.

Tra i seguaci di Manfredi si può annoverare anche Nicolas Tournier (Montbéliard 1590 - Tolosa, prima del febbraio 1639). Sappiamo che nel 1619 era a Roma, ma quasi certamente vi risiedeva già da qualche tempo. Tournier riprende i temi cari a Manfredi, aggiungendovi una nota poetica e una solennità affatto personali, come per esempio nella Scena di banchetto del museo di Saint Louis. Il Cristo benedice i bambini di palazzo Corsini a Roma mostra, rispetto a Valentin, una maggiore piattezza d’esecuzione e un’atmosfera più raccolta, sebbene vi si riscontri la medesima concentrazione religiosa.

Ci restano da considerare gli artisti francesi che formarono la scuola del ‘francofilo’ Saraceni: Guy Francois (Le Puy, prima del 1580 - ivi 1650), Jean le Clerc (Nancy 1587 circa - 1633) e, naturalmente, il "Pensionante del Saraceni" (attivo a Roma tra il 1610 e il 1620 ?).

Il soggiorno romano del primo inizia nel 1608, sebbene non ci sia nota nessuna opera documentata che si possa far risalire con certezza a questo periodo. Se, come siamo convinti, la Santa Cecilia di palazzo Corsini a Roma è sua, essa lo colloca tra gli artisti francesi di Roma più eleganti e raffinati. Del secondo, che accompagnò Saraceni a Venezia dove finì le opere del maestro prima di stabilirsi in Lorena, non sappiamo molto; le sue dense composizioni sono tradotte in uno stile nervoso e spigoloso. Per quanto riguarda il terzo, il "Pensionante del Saraceni", gli viene attualmente attribuita una serie di sei tele caratterizzate dalla stessa luce morbida, dalla stessa placida e delicata poesia e dallo stesso malinconico ritegno.

Non possiamo trascurare Claude Vignon (Tours 1593 - Parigi 1670), grande viaggiatore e artista prolifico, il cui soggiorno a Roma dal 1617 al 1623 fu occasione di un interludio caravaggesco che lasciò tracce indelebili nella sua arte. L'Adorazione dei magi (1619) di Dayton, con i suoi impasti iridescenti, evita quella facilità che tanto danneggiò la reputazione dell’artista. Non ricorderemo qui Mellan e tutti gli artisti francesi che come lui soggiornarono a Roma dal 1610 in poi. Non ricorderemo nemmeno quelle opere caravaggesche che per il loro carattere sognante e malinconico, per il loro ritegno e la loro poesia sono state etichettate come ‘francesi’. Ci limiteremo a dire che il contributo degli artisti francesi al movimento caravaggesco internazionale fu importante e originale, con profonde differenze rispetto all’opera dei loro contemporanei italiani, fiamminghi e spagnoli. A partire dagli anni Venti del Seicento il gruppo si dissolse: nella maggior parte dei casi, il periodo di apprendistato si era concluso. Vignon fece ritorno a Parigi nel 1623, per riprendere un manierismo pieno di brio e di spirito. Aubin Vouet tornò a Parigi nel 1625; suo fratello Simon lo seguì due anni dopo, facendo tappa a Venezia e Lione: nella capitale francese divenne il pittore preferito del re e profuse il suo talento in grandi opere decorative in cui utilizzò una tavolozza di tenui colori pastello, mostrando nello stile una marcata influenza dell’arte bolognese. Parigi anzi, nonostante la presenza di opere di Caravaggio (e de La Tour!) voltò decisamente le spalle al caravaggismo.

Le cose andarono diversamente in provincia: Guy François fu il primo a lasciare la ‘città eterna’ intorno al 1613 per tornare a Le Puy, Jean le Clerc tornò a Nancy alla fine del 1621, mentre Tournier partì nel 1626 per il Sud della Francia, stabilendosi a Tolosa nel 1632. Tutti e tre restarono fedeli a una formula artistica che a Roma e a Parigi era già considerata ‘antiquata’. Sempre nel 1632 Régnier si stabilì a Venezia, dove ben presto abbandonò il caravaggismo. Valentin restò solo a Roma, dove morì quello stesso anno, mentre le sue opere venivano assai criticate.

Il più grande e noto dei caravaggisti francesi, il lorenese Georges de La Tour (Vic-sur-Seille 1593 - Lunéville 1652), è al tempo stesso il più sfuggente. Il suo apprendistato ci è del tutto sconosciuto. Se evidente è il ruolo di Le Clerc, così come quello di Bellange, per quanto ci riguarda siamo convinti, come altri studiosi, che egli abbia anche soggiornato a Roma in data imprecisata tra il 1610 e il 1616. Giunto rapidamente al successo, ottenne il titolo di pittore ufficiale del re e, a partire dal 1644, ricevette l’incarico di dipingere le opere offerte da Lunéville al maresciallo de La Ferté, duca di Lorena. L’opera di de La Tour, la cui cronologia è tuttora incerta, può essere divisa in due periodi e due stili: "diurno" e "notturno". Da una parte, cioè, abbiamo le opere giovanili dalle forme spigolose, come Il denaro versato di L’vov e gli Apostoli di Albi; dall’altra, le opere mature caratterizzate dall’illuminazione artificiale e dalle dolci forme arrotondate. De La Tour, come Caravaggio, sapeva dipingere l’emozione interiore, la gravità del momento, la solitudine dell’uomo, la sua disperazione ma anche le sue speranze.

L’influenza del caravaggismo sui tre fratelli Le Nain fu soprattutto di natura spirituale. I Le Nain non si recarono mai in Italia. Dipinsero con grande originalità scene di vita quotidiana, musicanti, contadini, bambini. Sebbene affrontassero anche temi mitologici e religiosi, il loro mondo restò quello della realtà quotidiana. Ormai il problema dell’attribuzione delle diverse opere all’uno o all’altro dei fratelli sembra essere in gran parte risolto. Il maggiore dei tre, Antoine Le Nain (Laon 1600/1610 - Parigi 1648) si stabilì a Parigi nel 1629, ed è a lui che probabilmente vanno attribuiti i piccoli ritratti di gruppo raffiguranti persone riunite intorno a un tavolo o intente ad ascoltare dei musicisti, dipinti su rame con grande maestria nel trattamento dei colori. Louis (Laon 1600/1610 - Parigi 1648), il genio della famiglia, resta il più misterioso. A lui certamente si debbono i toccanti interni in cui un'atmosfera di solennità immobilizza nella medesima, assorta malinconia personaggi di tutte le età. Malinconica e toccante, introversa e concentrata, l'arte di Louis esplorò, nella sua eleganza, nuove direzioni. Mathieu (Laon 1607 circa - Parigi 1677), è dei tre quello che trascorse il periodo più lungo a Parigi, e di conseguenza il più documentato; egli resta tuttavia il più superficiale e, come autore, il meno importante. La durata del caravaggismo nella pittura francese è sorprendentemente lunga. Jacques-Louis David (Parigi 1748 - Bruxelles 1825) fu senz'altro il primo a riscoprire, dall'epoca del suo soggiorno a Roma nel 1775 - durante il quale copiò la Cena di Valentin - una vena caravaggesca. Il suo senso della drammaticità, il suo linguaggio realistico e il suo uso di un modellato scultoreo intensamente illuminato in opere come il Marat di Bruxelles affondano le loro radici nel caravaggismo. Analogamente, anche Géricault (Rouen 1791 - Parigi 1824) e Courbet (Ornans 1819 - La Tour-de-Peilz 1877), ciascuno a suo modo, ammirarono e riproposero aspetti del genio di Caravaggio.

Oggi, nel panorama europeo, è forse proprio in Francia che Caravaggio ha meno estimatori. Egli tuttavia compie la sua vendetta attraverso Georges de La Tour.

Paesi Bassi

Gli aspetti che rivelano l’influenza di Caravaggio nei Paesi Bassi rispecchiano al tempo stesso le divisioni politiche della regione all’inizio del XVII secolo. A partire dal 1579, le province settentrionali furono separate da quelle meridionali dall’Unione di Utrecht, che creò la repubblica delle Province Unite.

Il territorio delle Fiandre restò invece dinasticamente unito alla Spagna. Liegi, infine, formò un principato ecclesiastico completamente indipendente. E appunto in Olanda, nelle Fiandre e a Liegi ci troviamo in presenza di tre variazioni diverse e originali dei temi caravaggeschi.

Il fatto stesso che l’opera di Caravaggio fosse conosciuta indica che nei Paesi Bassi vi erano pittori che in gioventù avevano soggiornato in Italia e in particolare a Roma: sono alcuni di quegli "innumerevoli fiamminghi e francesi che vanno e vengono", per citare l’espressiva immagine usata nel 1620 da Giulio Mancini, medico del papa. Un dato interessante, tuttavia, è la presenza nei Paesi Bassi, già negli anni precedenti, di opere originali di Caravaggio portate dall’Italia da Louis Finson. Già nel 1617, infatti, si sente parlare di una Giuditta e Oloferne ad Amsterdam, oggi perduta; della Madonna del rosario (Vienna, Kunsthistorisches Museum), acquistata per la chiesa domenicana di Anversa da un gruppo di mercanti della stessa città olandese dietro consiglio di Rubens; di una Crocifissione di sant’Andrea, che secondo alcuni esperti di Amsterdam sarebbe un originale di Caravaggio.

Louis Finson eseguì inoltre numerose copie di temi caravaggeschi; è pertanto possibile che questa lista non sia affatto completa. Alcuni artisti che non si recarono mai in Italia mostrano talvolta influssi caravaggeschi, anche se di seconda mano e forse dovuti all’influenza di qualche loro collega. Così avviene per esempio nel caso di Jan Vermeer. Del caravaggismo fiammingo vale la pena di sottolineare tre diversi e importanti aspetti: il ruolo di Louis Finson come iniziatore e propagandista del nuovo stile; la sottile relazione di Rubens con l’opera del maestro italiano, per cui possiamo affermare che tra i pittori nordeuropei egli fu colui che meglio comprese lo spirito di Caravaggio; la nascita del cosiddetto ‘genere alla Manfredi’, esemplificato da Gérard Seghers e Theodoor Rombouts.

Louis Finson (Bruges, prima del 1580 - Amsterdam 1617) è il tipico pittore internazionale dell’epoca. La sua formazione artistica avviene nell’ambito del manierismo tardofiammingo; nel 1604 lo ritroviamo a Napoli, dove tornerà nel 1612. Le opere di questo periodo mostrano il suo grande eclettismo: ritratti, Annunciazioni (Napoli, Capodimonte; Avignone, Musée Théodore Aubanel) in stile elegantemente tradizionale. La Resurrezione di Cristo (Aix-en-Provence, Saint-Jean de Malte) è così caravaggesca che Roberto Longhi si chiese se non fosse per caso un’interpretazione della Resurrezione della chiesa di Sant’Anna dei Lombardi a Napoli, un dipinto di Caravaggio distrutto dal terremoto del 1805. Finson fu probabilmente uno dei pochi caravaggisti stranieri a conoscere di persona il Merisi; vale la pena di osservare che a Napoli si trovano alcune delle opere più alte dell’artista. Al suo ritorno in Provenza, all’inizio del 1613, la sua opera venne ammirata dall’umanista Nicolas-Claude Fabri de Peiresc, futuro amico di Pieter Paul Rubens; de Peiresc scrisse di lui che "ha tutta la maniera di Michel Angelo Caravaggio, e si è nutrito di lui per lungo tempo", e che tra i suoi bagagli aveva "una trentina dei più bei dipinti che si possano vedere". Riconosciuto a partire dal 1613 come discepolo di Caravaggio, Louis Finson unì all’attività di pittore quella, allora assai diffusa, del mercante di quadri. Nei suoi viaggi in Francia dal 1613 al 1615 ebbe un ruolo importante nella diffusione del nuovo stile. Alcune delle sue opere, come l'Incredulità di san Tommaso (Aix-en-Provence, Saint-Saveur) o il Martirio di san Sebastiano (Rougiers, chiesa parrocchiale) sono tra i capolavori di questa scuola. Tra gli artisti appartenenti al movimento caravaggesco non è in genere citato Pieter Paul Rubens. Creatore di uno stile originalissimo, durante il suo soggiorno in Italia dal 1600 al 1608 aveva studiato tutto il patrimonio artistico del paese quasi senza eccezioni, dall’antichità al Rinascimento fino ai contemporanei. Rintracciare le fonti italiane dei vari aspetti della creatività di Rubens è per lo storico dell’arte un gioco affascinante. Il suo interesse per Caravaggio è dimostrato dal ruolo che egli ricoprì nell’acquisto della Morte della Vergine (Parigi, Louvre) da parte del duca Vincenzo Gonzaga nel 1607, e successivamente in quello della Madonna del rosario, rimasta fino ad allora in possesso di Louis Finson ad Amsterdam. In più abbiamo un numero notevole di opere di Rubens in cui sono presenti "citazioni" da Caravaggio. La famosa Deposizione (Ottawa, National Gallery of Canada) deriva dall’omonimo lavoro di Caravaggio che Rubens aveva ammirato nella Chiesa Nuova di Roma (Santa Maria in Vallicella), ripensandone la composizione in uno schema circolare. Eseguita diversi anni dopo il suo ritorno ad Anversa, questa copia interpretativa può essere vista nel contesto delle personali ricerche di Rubens sul tema della Deposizione, soggetto del trittico nella cattedrale di Anversa (1612). Alla fine del periodo italiano, Rubens aveva eseguito per gli oratoriani di Fermo un'Adorazione dei pastori (Fermo, Pinacoteca civica), nella quale il suo debito nei confronti della Notte di Correggio risulta pari a quello verso il naturalismo di Caravaggio; è un tema che doveva riprendere più volte tra il 1607 e il 1610. Ancora più interessanti sono alcuni lavori che risalgono all’inizio del periodo di Anversa, in cui le tracce dell’influenza della pittura del maestro lombardo sono così evidenti che nel corso degli anni queste stesse opere sono state spesso oggetto di erronee attribuzioni.

Una Giuditta e Oloferne, oggi perduta ma a noi nota attraverso un’incisione di Cornelis Galle il Vecchio, è forse lo stesso dipinto che nel 1621 faceva parte della collezione di Giacomo I d’Inghilterra, e a proposito del quale Lord Danvers scrisse "di Rubens non abbiamo nulla tranne una Giuditta e Oloferne, poca cosa in confronto al suo immenso talento".

Sansone e Dalila (Londra, National Gallery) è un esempio eloquente di questo stile paradossalmente definibile, considerati gli sviluppi della pittura del maestro fiammingo, ‘antirubensiano’, che oggi viene rivalutato e che si può ritrovare in alcuni dipinti datati dal 1609 al 1610. Poche opere sono storicamente meglio documentate; eppure la sua attribuzione andò perduta durante il XVII secolo, dato che lo stile violentemente espressionistico e la brillante luminosità non sono caratteristiche normalmente associate all’opera di Rubens.

Cupido e Psiche (in collezione privata, ad Amburgo), eseguito alcuni anni dopo, mostra lo stesso senso del chiaroscuro e l’identica gamma cromatica del Sansone e Dalila. Analogamente, la Cena di Emmaus (Madrid, Casa de Alba) costituisce una meditazione sull’opera omonima di Caravaggio oggi alla National Gallery di Londra. In queste opere i mondi diversi di Rubens e Caravaggio si incontrarono. Attorno al 1610, dunque, Rubens tentò una sia pur limitata esperienza caravaggesca, presto dimenticata ma per noi affascinante.

Nel 1675, nel suo trattato storico e tecnico Accademia tedesca, il pittore Joachim von Sandrart conia, riferendosi all’artista di Anversa Gérard Seghers (1591 - 1651) l’espressione "genere alla Manfredi", spiegando che il giovane artista aveva imitato i contrasti tra luci e ombre tanto cari a Bartolomeo Manfredi, rappresentando figure a tutto tondo su uno sfondo scuro. I dipinti italiani di Seghers (Giuditta e servitori, Roma, Galleria nazionale di arte antica; Ercole e Onfale, sempre a Roma, in collezione privata) illustrano bene questa definizione. Tornato ad Anversa, l’artista eseguì varie versioni del Rinnegamento di san Pietro, in cui introdusse un’illuminazione artificiale. Ma la linea evolutiva della sua arte lo portava più verso una forma moderata di rubensismo. La stessa tendenza, tuttavia, si può rilevare in Theodoor Rombouts (Anversa 1597 - 1637) le cui opere migliori vennero eseguite a Roma, come per esempio i Musicanti (Lawrence Museum of Art, University of Kansas) e il Concerto (Roma, Galleria nazionale di arte antica). L’esempio di Liegi è più circoscritto, emarginato rispetto al resto dei Paesi Bassi. Gérard Douffet (1594- 1661/1665) si recò in Italia tra il 1614 e il 1623. A Roma abitò con artisti francesi: Nicolas Tournier nel 1619, Valentin de Boulogne dal 1620 al 1622.

Le prime pale d’altare eseguite a Liegi dopo il suo ritorno (Papa Nicola V alla tomba di san Francesco e l'Invenzione della santa croce, Monaco di Baviera, Bayerische Staatsgemaldesammlung) sono esempi di uno stile più in consonanza con quello dei caravaggisti francesi di ambiente romano. Questo è uno dei motivi per cui Gérard Douffet viene spesso identificato col Maestro del Giudizio di Salomone (un caravaggista nordeuropeo che nello stile ricorda da vicino Valentin), così chiamato in riferimento all’omonima tela conservata nella galleria Borghese a Roma.

In Olanda, il nome di Caravaggio giunse piuttosto rapidamente alla notorietà. Il primo riferimento al Merisi, "che a Roma dipinge cose straordinarie", si trova nello Schilderboek di Carel van Mander, che può essere considerato una sorta di Vasari dei Paesi Bassi.

La fonte, in questo caso, potevano essere solamente i giovani artisti di ritorno dall’Italia, forse Bernard van Someren (genero di Arnold Mytens, un pittore nordeuropeo morto a Roma nel 1601), gli ultimi dipinti del quale (per esempio Incoronazione di spine, Stoccolma, Nationalmuseum) tratti luministici paragonabili a quelli di Caravaggio. Nelle province settentrionali dei Paesi Bassi il caravaggismo si identifica in gran parte con la scuola di Utrecht. Essa aveva il suo fulcro in una generazione di giovani pittori la cui formazione aveva avuto luogo nelle botteghe di Abraham Bloemaert e Joachim Uytenwael, e che avevano soggiornato a Roma nel secondo e terzo decennio del XVII secolo. Hendrick Ter Brugghen (Deventer 1588 - Utrecht 1629) fu in Italia tra il 1604 e il 1614. Il problema delle opere da lui eseguite durante il periodo italiano è tuttora da risolvere; la sua prima opera documentata è infatti la Penitenza di san Pietro (Utrecht, Centraal Museum), del 1616. I motivi di rammarico sono ancora maggiori se si pensa che fra i pittori del gruppo egli fu certamente il più originale, nonché uno dei più creativi, capace di innovare sulle basi degli elementi comuni del caravaggismo internazionale. Nell’uso del colore e nel senso della luce Ter Brugghen anticipa, sotto certi aspetti, la scuola di Delft, e a buon diritto viene annoverato tra quei pittori del Secolo d’oro olandese che raggiunsero il massimo grado di armonia cromatica e di abilità tecnica nell’uso di sottilissime velature di colore. Tra le sue opere più importanti bisogna ricordare le due versioni della Chiamata di san Matteo (Le Havre, Musée Municipal; Utrecht, Centraal Museum), l'Adorazione dei magi (Amsterdam, Rijksmuseum), il Martirio di san Sebastiano (Oberlin, Allen Memorial Art Museum), e L’Annunciazione (Diest, chiesa del Béguinage).

Gerrit van Honthorst (1590 - 1656) è forse il più noto pittore caravaggesco di Utrecht, grazie ai notturni che gli valsero il soprannome di Gherardo delle Notti. Van Honthorst fu attivo in Italia tra il 1610 circa e il 1620; tra i suoi numerosi committenti ricordiamo il marchese Vincenzo Giustiniani, il cardinale Scipione Borghese e il granduca Cosimo II de’ Medici. La deliberata austerità delle opere italiane come il Cristo schernito (Roma, Santa Maria della Concezione) o l'Adorazione dei pastori (Firenze, Uffizi) cedono il passo nel terzo decennio del secolo a più vivaci scene di genere come la Servetta con pulci (Basilea, Offentliche Museum) o la Mezzana (Utrecht, Centraal Museum). Dopo un soggiorno in Inghilterra, nel 1628 alla corte di Carlo I, lo stile di van Honthorst perse gradualmente i suoi tratti caravaggeschi. Anche Dirck van Baburen (Utrecht 1590 circa - 1624), che soggiornò a Roma dal 1617 al 1620, seguì la medesima parabola. Nella Deposizione (Roma, San Pietro in Montorio) propone un’interpretazione personale e al tempo stesso fedele di un tema caravaggesco, quello del dipinto omonimo oggi conservato nella Pinacoteca vaticana. Vicino allo stile di Bartolomeo Manfredi e di Valentin de Boulogne, van Baburen ammorbidì le proprie figure specializzandosi in scene di genere quali la Mezzana (Boston, Museum of Fine Arts) o i Giocatori di tavola reale (Akron, Ohio, Art Institute).

Con Jan van Bijlert (Utrecht 1603 - 1671), giunto in Italia all’inizio degli anni Venti e rimasto nella penisola fino al 1625, ci troviamo di fronte a un artista che presenta una sintesi dell’arte dei suoi predecessori, con una certa predilezione per le scene pastorali, come per esempio nel Canto dei pastori (Wuppertal-Eberfeld, Stadtisches Museum), allora in gran voga in Olanda a causa dell’influenza del Pastor fido scritto da Battista Guarini.

Matthias Stomer costituisce un caso a sé, da una parte poiché come artista appartiene alla generazione successiva, dall’altra in quanto trascorse tutta la sua carriera attiva non solo in Italia, ma più precisamente nel Meridione (muore in Sicilia dopo il 1650). Nel 1630, a Roma, eseguì dipinti caratterizzati da grande nobiltà di composizione come l'Incredulità di san Tommaso (Madrid, Prado), che per stile richiamano da vicino van Honthorst. A Napoli dal 1631, quindi in Sicilia a partire dagli anni Quaranta, si specializzò in notturni dai toni caldi e forti come la Cattura di Cristo (Ottawa, National Gallery of Canada) o Cristo e i mercanti nel Tempio (Monaco, Bayerische Staatsgemaldesammlung). In Olanda si possono rinvenire tracce di caravaggismo non solo nelle opere di numerosi pittori (Crabeth, Couwenbergh, Bor, Bramer) che avevano compiuto il rituale pellegrinaggio artistico in Italia, ma anche nei lavori di altri artisti la cui conoscenza del maestro italiano era solo indiretta, come Frans Hals o Jan Vermeer.

A proposito di quest’ultimo, nel 1938 le teorie degli storici dell’arte dovettero affrontare una dura prova che per più d’uno doveva concludersi amaramente: la comparsa della Cena in Emmaus (Rotterdam, Museum Boymans-van Beuningen), ispirata all’omonima tela di Caravaggio conservata alla pinacoteca di Brera, che parve confermare il caravaggismo latente delle opere giovanili di Vermeer (come per esempio Diana e le ninfe, L’Aja, Mauritshuis; o Cristo nella casa di Marta e Maria, Edimburgo, National Gallery of Scotland). Purtroppo la tela si rivelò opera di un abilissimo falsario, Hans van Meergeren, che riuscì così a innestarsi da parassita nella vicenda del caravaggismo nei Paesi Bassi.

Spagna

Nella pittura spagnola del XVII secolo la presenza di influssi caravaggeschi costituisce un elemento importante e assai studiato. L’intenso naturalismo e il violento chiaroscuro che caratterizzano gran parte della pittura spagnola nella prima metà del XVII secolo e che danno risalto a personalità dell’importanza di Ribalta, del giovane Velázquez e di Zurbarán, sono stati spesso visti in relazione al grande artista lombardo, considerato maestro e centro focale di tutto questo capitolo della storia della pittura spagnola.

Negli ultimi anni le nostre conoscenze a proposito dei circoli artistici spagnoli dell’inizio del Seicento si sono notevolmente accresciute. Roberto Longhi ha sottolineato gli stretti contatti intercorsi tra Spagna e Italia alla fine del XVI secolo, periodo nel quale un nuovo linguaggio artistico si andava diffondendo in tutta l’Europa cattolica. Questo linguaggio, che si fondava sul recupero della realtà, culminò senza dubbio nella ricchezza poetica di Caravaggio che costituì da una parte il prodotto maturo di tutti i precedenti tentativi di cogliere la concretezza della realtà quotidiana, dall’altra una forza poderosa e vitale che doveva permettergli di condizionare profondamente, tramite la sua visione estremamente personale e sofferta dell’aspetto religioso, gran parte della produzione artistica successiva.

Oggi è facile cogliere con maggior precisione la portata e il significato del terremoto caravaggesco che scosse i circoli artistici spagnoli nel primo decennio del XVII secolo. Nei centri principali, ossia la corte (Madrid e Toledo), Siviglia e Valencia, la pittura spagnola aveva iniziato a esprimersi con un linguaggio ‘verosimile’ derivato dal ‘manierismo riformato’ di quegli artisti, perlopiù toscani, che Filippo II aveva chiamato all’Escorial, e da una incrollabile devozione al gusto veneziano del quale erano magnificamente rappresentate nelle collezioni spagnole le opere dei maggiori esponenti.

L’arrivo di dipinti eseguiti dallo stesso Caravaggio, nonché di numerose copie delle sue tele più famose, così come la presenza di alcuni dei suoi più stretti seguaci e imitatori, sia in carne e ossa sia rappresentati dalle opere che giungevano da Roma, costituivano un elemento innovatore estremamente significativo che non poteva lasciare indifferenti i giovani artisti spagnoli. In Spagna non è facile però parlare di ‘caravaggismo spagnolo’ negli stessi termini in cui parliamo di un caravaggismo romano, napoletano, francese o olandese. Nella Spagna di quegli anni la mancanza quasi assoluta di pittori che avessero soggiornato in Italia (cosa insolita e forse difficile), insieme al numero limitato di originali di Caravaggio, situati in collezioni reali o nobiliari alle quali solo pochi privilegiati potevano accedere con facilità, così come l’insistenza nei testi a stampa e nelle conversazioni di bottega sul fatto che la novità del Merisi e la sua scandalosa originalità derivassero dal suo invito a copiare la natura, cospirarono a far sì che la sua lezione si dimostrasse, come spesso si afferma, forse più teorica che pratica. In Caravaggio i pittori spagnoli scorgevano più un atteggiamento che un modello: un invito a copiare direttamente la natura, insomma, e non le opere del maestro. In più, si deve tener presente che la mancanza di un ceto borghese e quindi di una committenza laica a fianco di quella ecclesiastica (che per gli artisti spagnoli continuò a restare l’unica) limitò grandemente l’evoluzione di una delle correnti più fertili del caravaggismo ortodosso, ossia quella delle scene di genere raffiguranti taverne e bordelli, musicanti e giocatori; in altre parole, quel "genere alla Manfredi" allora in gran voga nelle Fiandre, in Olanda e in Francia. In Spagna esso ricevette una pessima accoglienza, e venne condannato dai teorici. Vincente Carducho, pittore e scrittore, nei suoi Dialogos de la pintura (1633) censura certi "artefici" di quegli anni che "poco sapendo, venivano tenuti in scarsa considerazione, in quanto riducevano la generosità dell’Arte a concetti così umili che tuttora vediamo molte nature morte dal soggetto umile e volgare, e molti altri dipinti con ubriachi, giocatori di carte e simili soggetti senza invenzione né contenuto, tranne il desiderio del pittore di ritrarre quattro sfaccendati e un paio di giovani trasandate in assenza dell’Arte stessa e con scarsa considerazione per l’Artificio". La presenza in Spagna di opere originali di Caravaggio è documentata già a partire dal 1610, l’anno della morte del maestro ma anche quello in cui la collezione del conte di Benavente, fino ad allora viceré di Napoli, giunse a Valladolid. Essa comprendeva il Martirio di Sant’Andrea (identificato nel dipinto uscito di recente dalla Spagna e oggi a Cleveland), e la Testa decapitata di un santo vescovo, non identificata ma da citare in quanto precede la larga diffusione in Spagna di questo genere di rappresentazione di martiri. Nella penisola giunse anche nel 1617 il David del Merisi, portato dal conte di Villamediana, don Luis de Tarsis y Peralta, insieme al Ritratto di giovane con in mano un fiore d’arancio, titolo che ci fa pensare al dipinto oggi a Berlino. Nessuna di queste opere è ancora stata identificata con sicurezza, ma è necessario ricordare che il David del Prado deve essere giunto in Spagna abbastanza presto, se ne esistono alcune copie antiche. La splendida Santa Margherita resuscita un ragazzo venne donata al re Filippo IV nel 1646 dall’ammiraglio di Castiglia don Juan Alfonso Enriques de Ribera come opera di mano di Caravaggio. Attualmente conservata al Prado, non è stata ancora analizzata a fondo dagli studiosi, e sulla sua attribuzione il dibattito è tuttora aperto. Comunque sia, il dipinto giunse in Spagna troppo tardi per poter influire sulla fase iniziale del naturalismo spagnolo.

Analogamente, non sappiamo la data d’arrivo nella penisola di altre due magnifiche opere. Oggi la maggior parte dei critici concorda nell’attribuirla a Caravaggio: parliamo della Salomé (o Erodiade) con la testa del Battista, sicuramente in Spagna dal 1636 e oggi nel Palazzo reale di Madrid, e di un Giovane san Giovanni Battista, oggi nella cattedrale di Toledo. Anche se ci mancano notizie precise riguardo alla data del loro arrivo in Spagna, è necessario ricordare le numerosissime copie di dipinti di Caravaggio reperibili in chiese, collezioni private o musei, o chiaramente citate nei testi letterari del XVII secolo. Esse testimoniano la fama e il prestigio di Caravaggio che così riceveva da parte di artisti e trattatisti un evidente tributo di ammirazione, per quanto spesso associato a reticenza da parte di coloro che seguivano una scuola di pensiero più idealistica.

Francisco Pacheco, suocero e maestro di Velázquez, fa riferimento alle copie della Crocifissione di san Pietro in Santa Maria del Popolo a Roma, allora assai nota a Siviglia, per sottolineare la necessità di tenere sempre presente la natura al fine di copiarla fedelmente: "Così fece Michel Angelo da Caravaggio; e lo si può scorgere benissimo nella Crocifissione di san Pietro [anche se si tratta solo di copie] ". Altre copie di questa famosa opera si possono trovare in altre città spagnole, e se ne conosce una che porta addirittura la firma di Francisco Ribalta, il grande pittore di Valencia. In Spagna ci si trova spesso di fronte a copie di due famosissime tele di Caravaggio; di qualità talvolta non eccelsa, esse sono tuttavia testimonianza del suo prestigio. Si tratta dell'Incredulità di san Tommaso, il cui originale è sicuramente quello di Potsdam, e del Sacrificio di Isacco, il cui originale è tuttora sconosciuto, ma del quale esistono numerose versioni sia in Italia sia, soprattutto, in Spagna.

Giunti nella penisola iberica fin dai primissimi anni del nuovo secolo, alcuni caravaggisti italiani lasciarono tracce evidenti in quei circoli artistici spagnoli che si proponevano di creare un nuovo linguaggio pittorico realistico, caratterizzato dall’illuminazione diretta.

Si tratta di nomi già incontrati: prima Orazio Borgianni (intorno al 1605), poi Bartolomeo Cavarozzi (nel 1617), introdussero in Spagna la propria personale interpretazione della rivoluzione caravaggesca. Il primo aveva particolare sensibilità e passione per la scuola veneziana, che esercitava un evidente richiamo sul gusto spagnolo ed era da questo ampiamente accettata. Che si tratti di opere a sé stanti o di importanti cicli come quello della pala d’altare del convento di Portacoeli a Valladolid, le copie delle sue composizioni sono frequenti; Borgianni esercitò una notevole influenza su vari artisti spagnoli dell’epoca come Eugenio Cajés (1574 - 1634) o Luis Tristán (1585 circa- 1624).

Cavarozzi, dallo stile più pacato e quasi sentimentale, grande ammiratore di Raffaello, possedeva una profonda conoscenza dei circoli classicisti vicini al Domenichino; egli introdusse nei circoli artistici spagnoli uno stile a mezza strada tra la realtà immediata e una morbida delicatezza pittorica che trovò numerosi seguaci. Alcune opere di Cavarozzi sono state in passato attribuite a Zurbarán, e numerose sue composizioni - rappresentate con la medesima sensibilità - si possono riconoscere nel giovane Murillo.

Nello stesso periodo giunsero in Spagna da Roma numerose opere di artisti italiani - anche questi già ricordati - allievi, imitatori o comunque seguaci di Caravaggio, che contribuirono a influenzare la pittura spagnola. Anche un pittore come Antiveduto Grammatica, figura di secondo piano nel panorama artistico italiano, inviò in Spagna molte sue opere, alcune delle quali sono state identificate solo negli ultimi anni. La sua dolente convenzionalità e il suo ingenuo, elementare chiaroscuro legavano bene con il gusto religioso spagnolo, ciò che spiega il suo successo.

Più importante fu Carlo Saraceni, il cui rapporto con i mercanti d’arte spagnoli, aragonesi e soprattutto catalani attivi a Roma è ben documentato. Nel 1613 inviò alla cattedrale di Toledo alcune importanti tele, commissionate per l’occasione dal cardinale Sandoval y Royas, con soggetti specificamente legati a santi toledani: Santa Leocadia in carcere, il Martirio di sant’Eugenio e l'Apparizione della Vergine a Sant’Ildefonso. Nel suo caso, come in quello di Borgianni, gli elementi poetici del contrasto caravaggesco tra luci e ombre si fondono con una struttura di base marcatamente veneziana, anch’essa in perfetta armonia col gusto spagnolo.

Queste tele incontrarono così un notevole successo, soprattutto il Sant’Ildefonso, e vennero frequentemente copiate.

Un caso a parte in questo traffico di opere tra l’Italia e la Spagna è rappresentato da quello che è certamente uno dei caravaggisti più importanti: Jusepe de Ribera. Nato a Játiva, presso Valencia, si stabilì in Italia non più tardi del 1615 per non tornare mai più nella sua terra natale. Ribera è un artista che occupa un posto fondamentale nella storia della pittura europea, e un ruolo di non minore importanza sia in Italia (specialmente a Napoli, dov’era senza dubbio il pittore più creativo e influente) sia in Spagna dove, come pittore preferito del viceré di Napoli e suddito fedele della monarchia spagnola, continuò a inviare importanti opere di altissima qualità. Ribera, che doveva il suo stile personale all’assimilazione della pittura caravaggesca, propose un’interpretazione ricca, sensuale e appassionata delle forme del Merisi che doveva esercitare una durevole influenza su numerosi artisti spagnoli sia nella composizione (le sue figure vengono spesso riprese dai pittori spagnoli), sia nella resa delle figure e nella maniera di interpretare la drammatica luminosità di Caravaggio. Estremamente emblematica è l’influenza di Ribera su alcune delle composizioni di Zurbarán negli anni tra il 1630 e il 1640 e sulle opere del giovane Cano, di Pereda e di molti altri pittori minori da Madrid a Siviglia e Valencia.

Pochissimi sono i pittori spagnoli che si riferiscono direttamente al mondo di Caravaggio. Come abbiamo già detto, pochi di loro poterono compiere il viaggio in Italia. Non c’è dubbio che il contributo della pittura italiana, in particolare veneziana, toscana e lombarda del secondo Cinquecento, sia stato notevole. Il primo naturalismo spagnolo non si rifaceva tanto al genio di Caravaggio quanto a Bassano, a Luca Cambiaso e al ‘manierismo riformato’ degli artisti medicei.

Vi fu tuttavia almeno un artista che sicuramente si recò a Roma ed entrò in intimo contatto con l’inquieto circolo di giovani artisti che affluivano da tutta Europa e facevano del caravaggismo il loro vessillo di libertà. Parliamo di Juan Bautista Mayno, nato a Pastrana (Guadalajara), figlio di un cavaliere milanese e di una nobildonna portoghese appartenente all’entourage della principessa di Eboli. Tra il 1600 e il 1610, egli visse l’intero ‘rinascimento’ romano che ebbe luogo proprio in quegli anni, e al suo ritorno in Spagna lasciò nei suoi dipinti (oggi al Prado) per l’altare di San Pietro Martire a Toledo (dove nel 1613 si fece frate domenicano) un’eco vivace, genuina ed estremamente diretta, di ciò che aveva visto a Roma. Sebbene il mondo raffigurato sia quello di Caravaggio - nei personaggi risoluti, nelle ‘ambigue’ figure degli angeli, nei giovani dall’aria di monelli di strada, nel gusto per le figure nude violentemente contrastate e nell’insistenza sulle piante dei piedi sporche di fango - non si può trascurare la netta inclinazione di Mayno per il caravaggismo ‘leggero’ di Orazio Gentileschi e di certi pittori nordeuropei. Il pittore e scrittore d’arte spagnolo Jusepe Martínez, che lo conosceva bene, sottolineò il suo rapporto con Guido Reni, e in più occasioni, riferendosi ai suoi splendidi paesaggi, l’evidente e inequivocabile influenza di Adam Elsheimer.

Mayno fu indubbiamente il più cosmopolita degli artisti spagnoli della sua epoca, e rappresenta a un altissimo livello qualitativo tutto ciò che vi era di più vivace e attivo nell’avanguardia romana del periodo. Insieme a Mayno, anche il quasi sconosciuto Pedro Núñez del Valle, anch’egli vissuto a Roma dove divenne membro dell’Accademia di San Luca, rivela di conoscere e ammirare l’arte del Merisi attraverso la propria versione, per quanto più delicata e imbevuta di classicismo, di un Cavarozzi o di un Cecco di Caravaggio, al quale si avvicinava soprattutto nell’uso di colori abbastanza freddi e nel gusto per le minute pieghettature di un bianco abbagliante.

Da Roma passò anche Luis Tristán (morto nel 1624), nativo di Toledo. La sua formazione artistica si colloca nel filone dell’esasperato manierismo di El Greco, del quale fu allievo; si convertì al naturalismo caravaggesco durante un soggiorno in Italia dal 1606 al 1613. Anche se non perse mai del tutto il gusto per le pose artificiali e le proporzioni allungate tipiche del maestro, assimilò senza difficoltà la ruvida energia delle figure di popolani rappresentati nelle vesti di san Pietro o san Francesco, proprio come assimilò la violenta luminosità ‘tenebrista’ in composizioni e soggetti facilmente rintracciabili in Borgianni e persino in Tanzio da Varallo che, com’è noto, soggiornò a Roma dal 1610 al 1616, ossia almeno in parte negli stessi anni di Tristán.

Anche Pedro Orrente (1580 - 1645) soggiornò in Italia dal 1604 al 1610. Nella sua opera sono presenti echi caravaggeschi, ma la componente fondamentale del suo stile è veneziano-bassanesca. Alcuni elementi che potrebbero far pensare a Caravaggio (i nudi violentemente contrastati in alcune delle sue composizioni) derivano più probabilmente da Mayno, che si trovava a Toledo nello stesso periodo in cui vi soggiornò Orrente.

Francisco Ribalta (1565 circa - 1628) era catalano di nascita ma si formò artisticamente in Castiglia e in seguito (dal 1599) si stabilì a Valencia. L’intenso naturalismo riscontrabile in alcune delle sue opere mature - con la loro illuminazione rigorosamente diretta e il loro pathos dolente e introverso - hanno portato a suggerire che egli in qualche modo conoscesse Caravaggio. L’esistenza, alla quale abbiamo accennato più sopra, di una copia della Crocifissione di san Pietro firmata da Ribalta parrebbe indicare che questi conoscesse direttamente l’opera del maestro. Si potrebbe avanzare l’ipotesi di un viaggio in Italia tra il 1613 e il 1615, oppure tra il 1616 e il 1620, periodi in cui la sua presenza a Valencia non è documentata. Questa teoria spiegherebbe perfettamente la sua profonda e autentica umanità, l’analiticità nella rappresentazione degli umili, e l’uso decisamente caravaggesco della luce.

Negli artisti nati all’inizio del XVII secolo e che indubbiamente rappresentano il punto culminante nella storia dell’arte spagnola, l’influenza di Caravaggio è sensibilrmente presente. Sia nei dipinti di genere (che nella composizione riprendono modelli fiamminghi, sebbene il trattamento e l’illuminazione siano inequivocabilmente caravaggeschi) sia nei soggetti religiosi, il giovane Velázquez della fase sivigliana mostra di conoscere lo stile di Caravaggio, anche se non sappiamo come sia giunto a tale conoscenza.

Zurbarán resta fedele per tutta la sua carriera attiva agli intensi effetti luminosi che isolano, proprio come in un primo piano cinematografico, le sue figure ascetiche piene di misticismo e di appassionata vita interiore. Il giovane Alonzo Cano e altri artisti meno conosciuti quali il valenciano Jacinto Jerónimo Espinosa (1600 -1667) o il frate benedettino Fray Juan Rizi (1600 -1680) continuano ad applicare fedelmente i canoni dell’imitazione della natura e gli effetti di luce ‘tenebristi’ che costituiscono gli elementi base della rivoluzione caravaggesca.

Come abbiamo già accennato, in Spagna non nacque una pittura di genere capace di assimilare la lezione degli eredi di Caravaggio come doveva accadere per alcuni pittori fiamminghi, olandesi o francesi. Solo nel campo della natura morta si può scorgere, se non un vero contatto, qualche influenza.

Più che con Caravaggio, Sanchez Cotán può essere messo in rapporto con i predecessori lombardi del Merisi, o con Luca Cambiaso. Certamente van der Hamen, Antonio Ponce o Juan Labrador ebbero l’opportunità di venire a conoscenza di ciò che avveniva a Roma attraverso Gian Battista Crescenzi che si stabilì a Madrid nel 1616 e che, com’è noto, protesse apertamente gli artisti dei circoli naturalisti.