Maurizio Penzo

Essere e comprensione dell'essere

 

In alcuni passi della raccolta di saggi intitolata I fenomeni e le parole, Mario Ruggenini sostiene che Heidegger, pur essendo stato l'iniziatore (o uno degli iniziatori) di quella che poi sarebbe stata chiamata la "svolta linguistica" della filosofia, avrebbe mantenuto, per quello che riguarda la parola "essere", una concezione ancora tradizionalista e scolastica del rapporto tra il significato e il linguaggio. Secondo Ruggenini, in Heidegger permarrebbe ancora una "concezione intuitiva (fondamentalista) del significato dell'essere di provenienza scolastica, dalla quale non lo allontana nemmeno la rivoluzione ermeneutica che egli stesso ha avviato nelle pagine di Sein und Zeit"1. Heidegger, se da un lato pensa al linguaggio come al luogo dell'originaria apertura del senso e del mondo, dall'altro continua a mantenere, ma solo per la parola "essere", "una concezione del significato che lo immagina precostituito rispetto alla sua espressione linguistica. Un significato che prima si dà, poi si parla"2. Heidegger rimarrebbe, su questo punto, prigioniero di quell'intuizionismo di origine husserliana e scolastica, per cui il senso dell'essere si darebbe (Es gibt das Sein) al di fuori e indipendentemente da qualsiasi mediazione linguistica. Per Ruggenini, al contrario, se si vuole pensare a fondo la rivoluzione ermeneutica, bisogna sostenere che di "significati assoluti" – di significati che si danno al di fuori del gioco linguistico – "non ce ne sono né uno solo, né pochi, né molti. Trovare l'essere nel linguaggio significa trattarlo innanzitutto come parola, che in tanto il pensiero può pensare in quanto la interpreta in relazione alle altre"3. Non c'è una datità prelinguistica del senso dell'essere. La parola "essere" è una parola come le altre, il cui senso deriva e si costituisce su un piano interamente linguistico. Bisogna pensare fino in fondo "la radicale linguisticità dell'essere: non vi è parola – nemmeno la parola dell'essere – che decida del linguaggio in virtù di una comprensione preliminare, poiché il linguaggio istituisce l'essere mediante la parola"4.

Non c'è alcun dubbio che Ruggenini tocca qui un punto decisivo del pensiero heideggeriano, ed è pur vero che Heidegger, anche dopo la Khere, continua a mantenere una sorta di primato della comprensione (del senso dell'essere) sul linguaggio stesso. Così, ad esempio, nell'Introduzione alla metafisica:

Supponiamo che questo significato indeterminato dell'essere non si dia, e che non comprendiamo nemmeno ciò che vuol dire. Che cosa ci sarebbe allora? Solo una parola di meno nella nostra lingua? No. Non ci sarebbe allora in generale alcun linguaggio5.

Qui è detto nel modo più chiaro che il senso dell'essere non è un effetto di linguaggio, ma che proprio a partire dalla comprensione preliminare – e quindi, in qualche modo, extra-linguistica – di questo senso è possibile qualcosa come il linguaggio.

Quello che vorrei mostrare, nelle considerazioni che seguono, è che questa "ambiguità" o "ingenuità" del pensiero di Heidegger nasconde in realtà una serie di problemi di difficile soluzione. Mantenere il senso dell'essere, almeno in parte, al di fuori del gioco linguistico era forse una condizione necessaria per salvaguardare l'essenza del linguaggio stesso.

 

Già in Essere e tempo il problema dell'essere, ovvero del senso dell'essere, si configura, almeno nelle primissime battute, come un problema apparentemente "linguistico". Scrive Heidegger:

Abbiamo noi oggi una risposta alla domanda intorno a ciò che propriamente intendiamo con la parola "essente"? Per nulla. È dunque necessario riproporre il problema del senso dell'essere. Ma siamo almeno in uno stato di perplessità per il fatto di non comprendere l'espressione "essere". Per nulla6.

La questione, come si vede, non è tanto quella di chiarire il senso dell'essere inteso come totalità dell'ente, quanto quella d'indagare intorno al senso (Sinn) della parola "essere". Il senso di questa parola, in tutte le sue coniugazioni, per quanto in modo oscuro, vago e aconcettuale, sarebbe già da sempre, in qualche modo, compreso. Se noi non comprendessimo ciò che significa "essere" non comprenderemmo nulla, e non potremmo nemmeno chiederci, come stiamo facendo, "che cos’è "essere"?".

Il senso dell'essere deve quindi esserci già accessibile in qualche modo. Come dicemmo, noi ci muoviamo già da sempre in una comprensione dell'essere[...]. Non sappiamo che cosa significa essere. Ma per il solo fatto di chiedere:"Che cos'è "essere"?" ci manteniamo in una comprensione dell'"è", anche se non siamo in grado di stabilire concettualmente il significato di questo "è"[...]. Questa comprensione media e vaga dell'essere è un fatto7.

Che la questione dell'essere non sia un problema filosofico tra gli altri ma "l'autentico e unico tema della filosofia"8 deriva dal fatto che, se non è stato chiarito il senso dell'essere, allora non è stato chiarito nulla. Possiamo discorrere e teorizzare su qualsiasi cosa ma, se alla fine non riusciamo a spiegarci su ciò che intendiamo con la parola "essere", il nostro discorso rimane come sospeso sul vuoto. Detto in altri termini, se il nostro sapere ha la forma della proposizione apofantica "S è P" – l'unica, come dice Aristotele, ad essere capace di sostenere il vero o il falso –, non basterà chiarire il significato di S e di P (degli enti di cui si parla), ma occorrerà innanzitutto chiarire il significato dell'"è". La cosa stupefacente, l'autentica meraviglia da cui prende le mosse il pensiero di Heidegger, è proprio la quasi assoluta mancanza di problematizzazione, nella filosofia, della questione dell'essere. Si dà per scontato, per ovvio, ciò che prima di ogni altra cosa andrebbe indagato ed esplicitato.

Bisogna dunque riproporre questo problema quale compito più urgente del pensiero. Il punto di partenza è costituito dal fatto che la parola "essere" ha un senso che noi in qualche modo comprendiamo (Seinsverständnis)9. Che la parola "essere" abbia un senso e non sia una semplice parola vuota, come ad esempio kzomil10, è il presupposto, la pre-condizione essenziale perché ci sia del significato in generale. Se non comprendessimo il senso dell'"è" in una proposizione "S è P", non comprenderemmo né che cos'è S né che cos'è P, non comprenderemmo il significato globale della proposizione, e quindi non comprenderemmo nulla del linguaggio che quotidianamente usiamo per comunicare agli altri ed a noi stessi.

È evidente che per Heidegger il problema dell'essere non è un problema puramente linguistico –anche se verrà sempre di più identificato con la questione del linguaggio –, perché attraverso l'essere ne va del nostro rapporto con tutto ciò che è, vale a dire con la totalità dell'ente. Senza la comprensione di ciò che significa "essere" noi non potremmo rapportarci ad alcunché di essente, e di conseguenza non avremmo nessuna esperienza, come incontro con qualcosa che innanzitutto e necessariamente è. Per Heidegger, su questo punto molto vicino al pensiero di Husserl, la comprensione presuppone lo svelamento, il manifestarsi o il darsi (sich geben) di ciò che è compreso. Il "fatto" che l'essere sia compreso implica che esso sia in qualche modo svelato, dato, manifesto. Solo a partire dalla comprensione o svelamento dell'essere noi possiamo comprendere – può esserci svelato – qualcosa come l'ente. L'essere è il primum cognitum, e proprio per questo non può essere un "concetto" ricavato per via astrattiva dall'ente, perché esso sta "prima" – da un punto di vista trascendentale – dell'apparizione dell'ente. L'essere non è, insomma, il concetto più generale e vuoto di tutti, "l'ultimo fumo della svaporante realtà" (Nietzsche). Esso è un dato – ""es gibt" das Sein"11 –, non un prodotto dell'intelletto. Il tema centrale della differenza ontologica è già chiarissimo sin dall'epoca di Essere e tempo e rivela immediatamente la sua origine fenomenologica: "Qualcosa come l'essere deve darsi in qualche senso, se noi a buon diritto ne parliamo e se ci rapportiamo ad un ente comprendendolo in quanto essente, cioè nel suo essere"12. Questo darsi dell'essere insieme al darsi dell'ente (dove "insieme" sta ad indicare una condizione di possibilità), verrà sempre mantenuto da Heidegger al centro del suo pensiero e sarà sempre, sino alla fine, riferito alla fenomenologia di Husserl13. Questo permanere del tema della Gegebenheit è precisamente ciò che impedisce ad Heidegger di risolvere (e di dissolvere) il problema del senso dell'essere – e quindi del significato e del linguaggio – su di un piano puramente linguistico. Ciò che "si dà" non può darsi che a partire da se stesso, così com'è in se stesso, e perciò al di là e al di fuori di ogni mediazione linguistica.

 

La comprensione dell'essere è dunque un "fatto", l'essenza stessa di ogni fatticità, l'evento nel quale già da sempre ci troviamo. Ma il senso dell'essere, pur rendendo possibile il significato e la proposizione, vale a dire il linguaggio, non è a sua volta articolabile o significabile. Una proposizione del tipo "l'essere è P", dove P dovrebbe dirmi che cos'è "essere", è impossibile. In questa proposizione, infatti, il significato di P dovrebbe essere già stato esplicitato da una precedente proposizione "P è Q", la quale già presuppone il senso dell'"è". Ciò che va chiarito è in realtà il presupposto di ogni chiarificazione. Dire, ad esempio, che l'essere è copula o sintesi non porta a nessuna delucidazione, perché prima bisogna definire ciò che la copula o la sintesi sono, bisogna, cioè, che il senso dell'"è" sia già dato. L'essere sfugge alla predicazione e alla significazione perché è ciò a partire da cui ogni predicazione e significazione è possibile. Scrive Derrida:

Lo si consideri come essenza o esistenza [...] lo si consideri come copula o posizione di esistenza [...], l'essere dell'essente non appartiene al campo della predicazione, perché è già implicato in ogni predicazione in generale e la rende possibile14.

Il senso della parola "essere" non è un effetto dell'articolazione linguistica, perché è ciò su cui tale organizzazione si fonda e si organizza. Quand'anche facessimo il giro di tutto il vocabolario, definendone tutti i termini che vi sono contenuti (S è P, P è Q ecc.), alla fine resterebbe sempre da definire il significato dell'"è" –– quello che tutte le parole invocano per chiudere il cerchio della significazione –, perché non ci sarebbero materialmente più parole a disposizione. L'essere non può venire spiegato né significato da nessun'altra parola, il suo senso non può essere esplicato nel linguaggio o col linguaggio. Il significato di ogni parola, alla fine, rinvia a questo senso che, almeno in parte e proprio per questo motivo, non potrà darsi che al di fuori e indipendentemente dal linguaggio. Per usare la terminologia di Derrida, potremmo dire che il senso dell'essere è l'unico che sfugge al "gioco del significante"15, al rinvio incessante delle parole tra di loro – rinvio che, nella sua stessa impossibilità di essere fermato o "centrato", costituisce, per Derrida, l'essenza stessa della significazione. L'essere non è un effetto di questo gioco. Andrebbe quindi rovesciata la famosa formula di Gadamer: "Sein, das verstanden werden kann, ist keine Sprache"16, e rimeditata un po' di più questa osservazione di Heidegger: "Se l'uomo deve ancora una volta ritrovare la vicinanza dell'essere, deve prima imparare ad esistere nell'assenza di nomi"17.

 

Anche la filosofia scolastica, sulle orme di Aristotele, sosteneva che l'essere definiri non potest. Se l'individuo, ovvero ciò che è unico, è il vero soggetto di tutte le predicazioni, l’essere, che è il termine più generale di tutti, perché compete a qualsiasi cosa, non potrà avere alcun attributo. L'essere non ha definizione perché non c'è una categoria più "estesa" che possa servirgli da predicato essenziale. La predicazione e la definizione implicano infatti che l'attributo sia più esteso di ciò che funge da soggetto (posso dire "l'albero è un vegetale" ma non "il vegetale è un albero"). Questa argomentazione sfocia naturalmente nell'affermazione dell'assoluta indeterminatezza e vuotezza dell'essere. Hegel, com'è noto, riassumendo per certi aspetti gran parte della riflessione filosofica sulla nozione del "puro essere", arriva a sostenere che "questo puro essere è la pura astrazione, e, per conseguenza, è l’assolutamente negativo, il quale, preso anche immediatamente, è il niente"18.

Secondo quanto sostenuto sopra, invece, l'essere non è indefinibile tanto per la sua estrema generalità, quanto piuttosto per la sua radicale unicità. Se predicare è mettere in relazione qualcosa con qualcos'altro, un soggetto con un predicato, l'essere non sarà mai definibile proprio perché non è relazionabile ad altro, non essendoci nulla al di fuori di esso. L'essere è "quanto vi è di più unico" perché non "può essere paragonato con nessun'altra cosa. Solo il nulla è per lui l'altro. E qui non c'è nulla da paragonare"19. Tutto ciò che possiamo dire dell'essere è che esso è, perché non possiamo aggiungere alcun predicato all'asserzione "l'essere è". La predicazione deve fermarsi necessariamente alla copula. L'essere è talmente unico da non poter essere che "se stesso"20. Esso è l'unico termine del linguaggio il cui significato sia identico al significante, il cui significato, cioè, non sia un altro significante. Il gioco dei rinvii si arresta qui. Il suo senso, perciò, non proviene da questo gioco.

Questa radicale unicità o singolarità rende il senso dell'essere qualcosa di "altamente determinato"21, anzi ciò che di più determinato e univoco si dia. Possiamo dubitare di qualsiasi ente, ma non possiamo dubitare di ciò che significa "essere" in contrapposizione a "niente"22:

Si può certo dubitare che in un luogo o in un tempo qualsiasi un singolo ente sia oppure no. Ci si può ingannare, ad esempio, sul fatto che quella finestra, che pure è un ente, sia chiusa o non lo sia. Eppure, anche perché semplicemente una cosa di tal genere possa venir messa in dubbio, occorre che sia presente una precisa distinzione fra essere e non essere. Quello di cui, in questo caso, non dubitiamo affatto, è che l'essere sia diverso dal non essere23.

La questione è della massima importanza, perché è a partire da questa determinatezza dell'essere che si decide dell'essenza del linguaggio. O l'essere è l'assolutamente indeterminato, al punto che il suo senso è il nulla, come sostiene Hegel, e allora il linguaggio, che alla fine si sostiene sul senso di questa parola, non significa nulla, non rappresenta niente; oppure l'essere ha un senso che si oppone in modo assoluto a quello di "nulla", e allora il linguaggio ha un senso, vale a dire una referenza che, per definizione, sta al di fuori del linguaggio stesso.

Heidegger scrive, in verità, che l'essere si rivela anche come qualcosa di "pienamente indeterminato"24. Ma la coppia determinato/indeterminato non è qui una coppia di contrari. Se "determinato" è quasi sinonimo di "univoco", "indeterminato" non significa "plurale" o "molteplice", quanto piuttosto "debole", "evanescente". A noi, oggi, l'essere pare qualcosa di vago, una "parola evanescente [...] perché siamo caduti fuori del suo significato e non riusciamo più a ritrovarne l'accesso"25 (questo affievolirsi del senso dell'essere è del resto la radice ultima del nichilismo, ovvero della perdita di senso e di valore che investe ogni cosa, e che ha raggiunto proprio nella nostra epoca il suo culmine).

La non concettualizzabilità dell'essere, dunque, non implica una sua insignificanza; è vero anzi il contrario. Il pregiudizio nasce perché si confonde il senso (Sinn) con il significato (Bedeutung), ovvero con ciò che è articolabile in una definizione. È l'ente nominato, definito, che contiene in sé necessariamente un alone d'indeterminatezza e d'inafferrabilità a causa del suo esser preso nel sistema di rinvii che accompagna ogni nominazione. Se ogni parola, come sostiene il pensiero ermeneutico, è un crocevia di rimandi e di risonanze semantiche che ne sfumano il significato in un proliferare indefinito e non chiudibile d'interpretazioni, la parola "essere", al contrario, sfugge al gioco delle interpretazioni in virtù del suo senso "altamente determinato". Proprio perché non è concettualizzabile e definibile, e il suo senso si dà – insistiamo: almeno in parte – al di fuori di ogni mediazione linguistica, sull'essere non sono possibili punti di vista, prospettive o interpretazioni. In un passo dei Concetti fondamentali Heidegger scrive ancora:

Noi diciamo "il tempo è bello"; ci si può chiedere se sia realmente bello e se "durerà", o se piuttosto non stia già per cambiare improvvisamente. Sullo stato di questo ente – sullo stato del tempo – può sorgere un dubbio mentre non si può dubitare dell'"è", di ciò che qui l'"è" vuol dire[ ...]. L'"è" – ciò che con esso intendiamo – non ha nulla di problematico in se stesso 26.

Se il senso dell'essere fosse problematico, se fosse esso stesso esposto alle "peripezie dell'interpretazione"27, nessuna interpretazione in quanto tale sarebbe possibile. Non ci sarebbero più interpretazioni, ma solo una molteplicità disparata di discorsi senza più nessun legame tra di loro. Questo vincolo al linguaggio, questa necessità che impedisce alle parole di accostarsi a caso, questo limite al moltiplicarsi indefinito delle interpretazioni è costituito dal modo "pienamente determinato" con cui è inteso il senso dell'essere. L'"indubitabilità" di questo senso è la zavorra che impedisce al linguaggio di essere un flusso inarrestabile e incontrollabile di parole in libertà.

Potrà sorprendere che si faccia qui di Heidegger una sorta di pensatore dell’evidenza, tralasciando i temi importanti del "nascondimento" e della "velatezza". Certo l'essere non è un ente, non è qualcosa che si manifesti frontalmente, che stia di fronte (Gegen-stand) come un oggetto. Non è nemmeno il summum ens della tradizione teologica, né si confonde con la totalità dell'ente. Già in Essere e tempo è scritto che esso non è l'ente trascendente ma il "trascendens puro e semplice"28, ovvero la pura eccedenza o differenza rispetto ad ogni ente o essenza (tutto ciò richiama sicuramente l' epekeina tes ousias di Platone, cioè l'idea del Bene che, in quanto essenza delle essenze, e perciò oltre l'essenza, è il fondamento sia dell'essenza sia dell'ente sensibile che su di essa si regge; ma Platone, per Heidegger, avrebbe determinato troppo presto questa trascendenza o apertura al di là dell'ente come agaton29). Questo darsi dell'essere come differenza, comunque, non implica affatto che il suo senso sia qualcosa di ambiguo o d'indeterminato. Semmai è proprio l'eccesso di evidenza con cui questo senso si manifesta che ci rende come ciechi di fronte ad esso. È ciò che è "il più vicino"30 (das Nächste) ad essere il più nascosto, è il più concretamente pensato di ogni pensiero la cosa più difficile da pensare. Se la verità, come dice la parola greca aletheia, è s-velamento e manifestazione, essa contiene in sé la possibilità del nascondimento e della velatezza. Ogni manifestazione presuppone un "venir fuori" da uno stato di occultamento, nonché l'"inclinazione" a ritornarvi. Aletheia non significa che in ogni manifestazione ci sia qualcosa che sfugge, un residuo che rimane nascosto, ma che la verità, proprio perché è svelatezza, ama occultarsi. "Solo ciò che per essenza si s-vela (ent-birgt) e deve svelarsi può amare velarsi. Solo ciò che è svelato può essere velamento"31. Se la verità fosse sempre e comunque manifesta, non sarebbe nemmeno esperita come tale. Se non la percepissimo come un "venir fuori" da (e un poter ritornare in) una condizione di velatezza, non avremmo nessuna esperienza della verità. Il mostrarsi della verità "non è mai uno scenario immobile, a sipario costantemente sollevato"32; esso ha invece il carattere dell'irruzione e dell'avvenimento: qualcosa si apre all'improvviso, per poi rinchiudersi nuovamente. Per questo il senso o la verità dell'essere è, a un tempo, la cosa più evidente e quella più nascosta. Ciò che è massimamente manifesto, "il cuore" stesso della svelatezza33, è anche ciò che meno si dà a vedere. Ma questo, ancora una volta, non vuol dire che l'essere sia oscuro o misterioso (misterioso, semmai, è il darsi dell'essere, non il suo senso). Heidegger non critica affatto la metafisica in quanto determinazione o riduzione del senso dell'essere a "presenza", per sostituirla con chissà quale intuizione mistica dell'essere. La metafisica, piuttosto, dimentica che è la presenza stessa dell'essere, vale a dire la manifestazione del suo senso, che condiziona ogni possibile manifestazione dell'ente in quanto, appunto, ente-presente (qui o altrove, ora o allora ecc.). Dimentica così ciò su cui essa stessa si fonda. Anche per la metafisica essere significa presenza o esser-presente, ma essa non fa attenzione alla duplicità (Zwiefalt) di ogni presentazione o manifestazione: ciò che si presenta non è solo l'ente ma anche, e innanzitutto, l'esser-presente stesso (Anwesen selbst). Noi "vediamo" la cosa presente solo perché "vediamo" (comprendiamo) ciò che significa esser-presente o Presenza. Nel Seminario di Zähringen, ricordando quanto la sua meditazione debba al pensiero di Husserl, Heidegger dice:

L'"è" – con il quale io accerto la presenza [ad esempio] del calamaio come oggetto o sostanza – è "eccedente" tra le altre affezioni sensibili. Ma sotto un certo aspetto è del tutto analogo alle affezioni sensibili: l'"è" non viene infatti aggiunto alle affezioni sensibili, ma viene "visto" – pur essendo visto diversamente da ciò che è visibile sensibilmente. Per essere "visto" in questo modo bisogna che sia dato34.

L'essere è "visto", anche se noi crediamo di vedere solo ed esclusivamente l'ente. Avviene come se il nostro pensiero non potesse soggiornare che nella penombra, nel chiaroscuro di determinatezza e indeterminatezza propria di ogni ente nominabile. È al senso dell'essere, comunque, e alla sua piena determinatezza e "indubitabilità" che noi facciamo riferimento ogni volta che formuliamo un giudizio su questa o quella cosa. La comprensione dell'essere è, per così dire, il "grado zero" della comprensione, ciò che è presupposto da ogni sapere articolabile e che non può, a sua volta, divenire oggetto di sapere, congettura o interpretazione. Il senso dell'essere è senso allo stato puro, senza oggetto, perché ciò che si esprime in questa parola non rappresenta niente di essente: "Non vi è alcuna cosa che corrisponda alla parola e al significato di "essere""35; ed è proprio grazie a questa pura apertura del senso come eccedenza o trascendenza dalle cose e dai loro nomi che il significato – il significato delle cose "manifestato" dalle parole – è possibile.

 

La parola "essere" (insieme sicuramente alla parola "nulla") è un elemento del tutto particolare all'interno del linguaggio. È l'unico termine il cui senso, pur non sussistendo prima del linguaggio – l'essere non è niente al di fuori del suo rapporto con gli enti nominabili, perché allora sarebbe esso stesso un ente –, proviene da una fonte che è in qualche modo esterna al linguaggio stesso: "Nell'"è" infatti si fa parola un appello propriamente suo, che proviene da una fonte propria e che non si esaurisce e non cessa nominando l'ente molteplice"36. Non si tratta però di riproporre la tradizionale concezione rappresentativa delle parole, per cui il significato sarebbe già compreso e pensato prima di essere parlato. C'è almeno un punto in cui il linguaggio "tocca" il senso, e questo punto è la parola "essere". Senza questo aggancio al suo fuori, senza questo "punto di capitone" – come direbbe Lacan – tra il significato e il significante, linguaggio e referenza resterebbero due ordini assolutamente eterogenei, del tutto incapaci di comunicare, anche solo "metaforicamente", tra di loro. La parola perderebbe la sua struttura essenziale, che non è solo quella di rapportarsi alle altre parole, ma anche, e soprattutto, quella di rinviare, seppure in modo enigmatico e indiretto, a ciò che sta fuori o al di sotto di essa.

Ciò che accomuna le moderne filosofie della cosiddetta "svolta linguistica" – siano esse, tanto per semplificare, di tipo ermeneutico, decostruttivista o post-analitico – è la convinzione che nel linguaggio ogni parola – ogni significante –, prima di rappresentare la cosa o il significato, rinvii ad altre parole, ad altri significanti dello stesso sistema o "gioco" linguistico. Il referente sfugge incessantemente sotto questo gioco di rinvii. Il linguaggio, così, pare chiudersi su se stesso: non c'è più alcuno sbocco, alcuna via d'uscita verso la "cosa". Il "reale" s'inabissa in una zona di totale inaccessibilità. Da una parte il linguaggio: ordine autosufficiente e autoreferenziale, senza alcun fondamento esterno; dall'altra la "cosa": entità fuori-senso (e perciò scritta tra virgolette), sempre mancata a causa dell'insuperabile metaforicità delle parole. Tra il piano del linguaggio e quello della referenza sembra non esserci più alcuna comunicazione: parole e cose sembrano ignorarsi reciprocamente.

Si potrà obiettare che non è questo il punto, perché si tratta di comprendere proprio il carattere linguistico della "realtà" o dell'ente in generale, per cui le cose non cadono fuori, ma dentro il linguaggio. E tuttavia, se le cose cui sembrano rinviare i segni linguistici sono esse stesse dei segni – "quando c'è un senso ci sono solo segni"37, scrive Derrida –, qual è la referenza e come si distinguono le parole dalle cose? Affermare il carattere linguistico della realtà non significa forse sostenere che c'è accesso al linguaggio solo in quanto la cosa è definitivamente perduta? Scrive Ruggenini "che noi abbiamo le cose dal linguaggio" solo in quanto abbiamo perso "da sempre e per sempre l'immediatezza della cosa"38.

Ora, non c'è dubbio che la nostra appartenenza al linguaggio ci sbarri l'accesso all'immediatezza e alla presenza in "carne e ossa" della cosa e che la cosiddetta realtà ci è data solo a partire da un'ottica interpretativa che è innanzitutto metafora linguistica, ma non bisogna nemmeno dimenticare che, se nemmeno un "grano" di reale passasse nel linguaggio, nessuna interpretazione, nessuna significanza, nessuna metafora, in quanto tale, sarebbe possibile. Il linguaggio non è certamente il calco fedele di un reale già dato, e le parole non sono delle etichette che corrispondono in modo univoco alle cose ed ai significati. Ma concepire il linguaggio come un ordine a sé stante, incapace di catturare la benché minima "briciola" di referenza, oppure come una totalità onnicomprensiva che contiene al suo interno anche ciò che dovrebbe rappresentare – e queste due tesi sono in realtà una sola –, significa fare delle affermazioni che, nella loro apparente radicalità, distruggono ciò che invece dovrebbero spiegare. Se infatti non c'è niente al di fuori del linguaggio, se "la cosa stessa è un segno"39, come si spiega – la domanda è ovvia – ciò per cui il linguaggio è linguaggio? Se sosteniamo la piena autoreferenzialità del linguaggio, se recidiamo tutti i fili che collegano il significante al significato, allora semplicemente trasformiamo la parola in cosa (e viceversa). L'articolazione, la strutturalità e il rinviarsi reciproco dei segni non sono in grado di spiegare di per sé l'essenza significante della parola. La parola, il significante in generale, come pensavano gli stoici, a differenza della cosa, non è autoreferenziale, ma sta per qualcos'altro che, alla fine, non può essere un nuovo significante. È sicuro che la natura di questo qualcos'altro è diventata oggi estremamente problematica. Ma se non fossimo in qualche modo "toccati", per quanto in via indiretta, da questo altro dal linguaggio, se questo referente au dehors non colludesse da qualche parte con le parole, noi non sapremmo nemmeno di aver a che fare con qualcosa come il linguaggio.

Bisogna dire perciò che c'è almeno un elemento del linguaggio in cui il linguaggio si salda a ciò che in esso si rappresenta: nella parola "essere", parola-faglia dove il linguaggio si apre al suo fuori o in cui il fuori entra nel linguaggio. Se ad ogni discorso fosse ugualmente inaccessibile la "cosa", se non ci fosse, nelle parole, perlomeno un'allusione a un riferimento esterno al linguaggio, qualsiasi discorso su qualsiasi cosa sarebbe ugualmente legittimo, e si sprofonderebbe in un relativismo assoluto del tutto incapace di spiegare innanzitutto se stesso40. Ogni tentativo di definire la verità come adeguazione non già all'ente, ma alle regole e agli usi interni del linguaggio – regole ed usi che sono storicamente e culturalmente situati – è destinato al fallimento, perché non sa dare alcun sostegno alla verità che inevitabilmente tenta di affermare41.

È a partire dal senso dell'essere e dal modo "indubitabile" con cui noi lo intendiamo, in quanto proveniente dal di fuori del linguaggio, che qualcosa come la verità è possibile. Noi diciamo che l'asserzione "S è P" è vera o falsa quando l'"è" viene usato in modo conforme o non conforme a ciò che con esso intendiamo. È perché l'essere ha un senso che comprendiamo in modo vincolante e "altamente determinato" e che si dà verità, non il contrario. Non c'è alcuna verità prima dell'apertura del senso dell'essere e l'apprensione (Vernehmung) di questo senso non può essere a sua volta alcunché di verificabile o falsificabile. ""Senso dell'essere" e "verità dell'essere" dicono la stessa cosa"42 . Non si dovrebbe mai dire, perciò, che, ad esempio, noi oggi, nell'epoca del cosiddetto nichilismo, intendiamo il senso dell'essere in modo falso o ingannevole, perché, quale che sia il modo in cui questo senso è inteso, è a partire da esso che noi abbiamo a che fare col vero o col falso, così come con il sensato e l'insensato.

Folli, fuor di metafora, sono forse coloro che non comprendono il senso dell'essere e che possono dire, in perfetta buona fede, "di essere dei re, mentre sono dei pezzenti; di essere vestiti di oro e di porpora, mentre sono nudi affatto ecc."43.

 

NOTE

1. M. Ruggenini, I fenomeni e le parole, Marietti, Genova 1992, p. 43.

2. Ibid.

3. Ibid., p. 48.

4. Ibid., p. 111.

5. M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano 1972, p. 91.

6. Id., Essere e tempo, Longanesi, Milano 1970, p. 14.

7. Ibid., p. 22.

8. Id., I problemi fondamentali della fenomenologia, il Melangolo, Genova 1988, p. 10.

9. In Essere e tempo Heidegger si propone di risalire al senso dell'essere partendo dal fenomeno della sua comprensione. L'ente in cui, in generale, si attua la comprensione è l'uomo, il Dasein. L'analisi del Dasein era dunque il punto di partenza per una corretta impostazione del problema dell'essere. Questa prospettiva sarà presto abbandonata, perché Heidegger si renderà conto che non è possibile risalire al senso dell'essere partendo dall'ente, nemmeno da quell'ente del tutto particolare che è l'uomo.

10. M. Heidegger, Introduzione alla metafisica cit., p. 89.

11. Id., Lettera sull’"umanismo", ora in Segnavia, Adelphi, Milano 1978, p. 287.

12. Id., I problemi fondamentali della fenomenologia cit., p. 212.

13. Vedi ad esempio il Seminario di Zähringen del 1973, ora tradotto in M. Heidegger, Seminari, Adelphi, Milano 1992, p. 145 sgg.

14. J. Derrida, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971, p. 172. È noto che "essere" può venire usato anche per sostituire alcuni verbi come "trovarsi", "appartenere" ecc. Ma ciò che è essenziale è che "essere" ha almeno due sensi assolutamente irriducibili e insostituibili: quando funziona da copula (esse come essentia) e quando indica una posizione di esistenza (esse come existentia). È questa irriducibilità, evidentemente, ciò che mi interessa sviluppare qui.

15. Id., Della grammatologia, Jaca Book, Milano 1969, p. 10.

16. H. G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano 1972, p. 542.

17. M. Heidegger, Lettera sull’umanismo cit., p. 273.

18 G. W. F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, Laterza, Bari 1973, § 87.

19. M. Heidegger, Introduzione alla metafisica cit., p. 88 sg.

20 Id., Lettera sull’"umanismo" cit., p. 286.

21. Id., Introduzione alla metafisica cit., p. 88.

22. Nel saggio Il soggetto e la tecnica, Bulzoni, Roma, 1977, p. 110, M. Ruggenini scriveva: "per quanto possa apparirci vago e indeterminato il significato dell'essere, esso è peraltro determinatissimo, in quanto nulla è più chiaro della suddetta distinzione" fra essere e nulla.

23. M. Heidegger, Introduzione alla metafisica cit., p. 88.

24. Ibid.

25. Ibid., p. 50.

26. Id., Concetti fondamentali, il Melangolo, Genova 1989, p. 41.

27. M. Ruggenini, I fenomeni e le parole cit., p. 50.

28. M. Heidegger, Essere e tempo cit., p. 69.

29. Cfr. Id., Dell’ essenza del fondamento, in Segnavia cit., p. 116 e sgg.

30. Id., Lettera sull’ "umanismo" cit., p.284.

31. Id., Sull’ essenza e sul concetto della fuésiv, in Segnavia cit., p. 255.

32. Id., Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 39.

33. Id., Seminari cit., p. 186. Mi rendo conto che il motivo della verità come svelamento meriterebbe una trattazione più approfondita, soprattutto per gli spostamenti di significato che la parola Unverborgenheit subisce nei testi di Heidegger. Comunque, insistere tanto sul tema del "nascondimento", come continua a fare gran parte della vulgata heideggeriana in Italia, alla fine fa perdere di vista l'essenziale, e cioè che al centro del pensiero di Heidegger c'è l'idea della manifestatività dell'essere. È da qui che bisogna partire se si vuole dare un senso ai temi della "differenza", dell'"assenza" e del "nascondimento".

34. Ibid., p. 150.

35. Id., Introduzione alla metafisica cit., p. 97.

36. Id., Concetti fondamentali, cit., p. 62.

37. J. Derrida, Della grammatologia cit., p. 55.

38. M. Ruggenini, I fenomeni e le parole cit., p. 75.

39. J. Derrida, Della grammatologia cit., p.55.

40. R. Rorty, in La filosofia dopo la filosofia, , Laterza, Bari 1989, sostiene che il filosofo "relativista" o "ironico" non deve preoccuparsi di "ribattere" a questa contestazione, ma "eluderla" (p.69). Ovvero: l'arte di schivare i problemi elevata a sistema.

41. Non mi vergogno affatto di riproporre questa argomentazione ritenuta per lo più sorpassata e "metafisica". Ritengo il relativismo filosofico ancora più obsoleto della sua confutazione. All'interno del pensiero occidentale – ma ce ne sono altri, per noi? – la sua insostenibilità è assoluta.

42. M. Heidegger, Introduzione a:"Che cos’è è la metafisica?", in Segnavia cit., p. 329.

43. R. Descartes, Meditazioni metafisiche, in Opere, Laterza, Bari 1967, vol. I, p. 200; i corsivi sono nostri.

 

 Questo articolo è apparso per la prima volta nella rivista Arché Ipotesi, forme di fedeltà, Panda edizioni, Padova 1996.

 

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