Maurizio Penzo

 Sul nascondimento dell’essere nella filosofia di Heidegger

 

Il problema fondamentale di Essere e tempo, com’è noto, è quello di chiarificare il "senso dell’essere". Questo problema nasce da una duplice constatazione. 1) C’è innanzitutto il fatto fondamentale che noi comprendiamo necessariamente il senso dell’espressione ‘essere’. Senza questa comprensione preliminare non potremmo in alcun modo rapportarci all’ente, ed "ente è tutto ciò di cui parliamo, ciò a cui pensiamo, ciò nei cui riguardi ci comportiamo in un modo o nell’altro; ente è anche ciò che noi siamo e come noi siamo"1. Questa comprensione dell’essere (Seinsverständnis) non è una facoltà tra le altre, ma "appartiene alla costituzione essenziale del Dasein"2. Se non comprendessimo ciò che significa ‘essere’ non sapremmo distinguere l’essente dal non essente, non avremmo alcuna esperienza né di ciò che è né di ciò che non è. Non potremmo nemmeno dire che non si manifesta nulla perché, per fare un’asserzione di questo tipo, dovrebbe esserci già svelato il senso di "essere". "Noi possiamo cogliere gli enti in quanto tali, gli enti in quanto enti, solo se comprendiamo qualcosa come l’essere"3. La comprensione dell’essere consente ad Heidegger di circoscrivere il problema dell’essere nella sua differenza dall’ente. Non si tratta più, come nell’ontologia tradizionale, di stabilire ciò che veramente è e di coglierne l’essenza, ma di interrogarsi, fenomenologicamente, sul significato di ciò che noi intendiamo con la parola ‘essere’. 2) Se la comprensione dell’essere è ciò su cui si regge il nostro rapporto con l’ente, è evidente anche come questa comprensione sia avvolta da oscurità e indeterminatezza, per cui, ogni volta che tentiamo di spiegarci intorno all’essere stesso ( Sein selbst ), non riusciamo ad afferrare nulla. Il fatto è "che già da sempre viviamo in una comprensione dell’essere" ma, nel contempo, "il senso dell’essere continua a restare avvolto nell’oscurità"4. "Il concetto di ‘essere’ è anzi il più oscuro di tutti"5. Tutti comprendiamo il significato di enunciazioni come "sono contento", oppure "il cielo è azzurro" ma, se ci interroghiamo sul significato dell’è contenuto in queste enunciazioni, la cosa sembra sfuggirci di mano "e quando ci studiamo di afferrarla si dissolve come un brandello di nuvola al sole"6.

  

 Il problema è dunque questo: il senso dell’essere è manifesto e nascosto allo stesso tempo. Se da un lato la Seinsverständnis è il presupposto ultimo del nostro sapere, dall’altro il senso dell’essere è qualcosa di "fluttuante ed evanescente"7 che sembra sottrarsi a ogni indagine chiarificatrice. Noi comprendiamo il senso "ma non sappiamo che cosa significa ‘essere’", "non siamo in grado di stabilire concettualmente il significato di questo ‘è ‘"8 . In Essere e tempo Heidegger parla di una "comprensione media e vaga dell’essere"9 che, più che rivelare, occulta il fenomeno dell’essere. Il fine dichiarato è perciò quello di risalire, al di là di questa comprensione media dominante (che però contamina anche la scienza e l’ontologia tradizionale), a una determinazione più genuina del senso dell’essere: "il problema dell’essere deve essere posto e portato a soluzione nella piena trasparenza di se stesso"10 .Se dopo la ‘svolta’ verrà abbandonato, e a ragione, qualsiasi proposito di fare piena trasparenza, sarà perché il tema del "nascondimento" (Verborgenheit) avrà acquisito, nel frattempo, un’importanza sempre più grande. L’idea che l’essere abbia un’essenziale ‘inclinazione’ al nascondimento, o che si manifesti nascondendosi, diventerà anzi il filo conduttore per un’interpretazione unitaria dell’intera storia della metafisica.

  

Innanzitutto, la metafisica non presterebbe attenzione "all’avvenimento più degno di essere discusso, ossia al fatto che l’essere si schiude necessariamente al nostro comprendere"11. Così ci si dimentica dell’essere perché il suo concetto è ritenuto qualcosa di ovvio e di scontato. Sicuramente l’essenza dell’essere "si è già illuminata" ma "rimane ancora non problematizzata"12. La metafisica non riesce a pensare l’"essenza svelante" dell’essere: essa si rappresenta sempre e soltanto l’essente e non si rende conto che ciò è possibile solo perché "già traluce l’essere"13. Secondo questa interpretazione, ciò che dell’essere si nasconde non è tanto la sua verità, quanto il fatto che questa verità è manifesta. Ciò che la metafisica non vede è che l’essere è manifesto e apre il nostro rapporto con l’ente. Tant’è che Heidegger, in molti passi, parla di un senso "altamente determinato" dell’essere, di così determinato da essere "quanto vi è di più unico" e di autenticamente compreso14. Ciò che la metafisica dimentica di pensare è la differenza tra l’essere e l’ente. L’essere non è un ente, perché è ciò che "lascia essere" l’ente. L’essere, d’altra parte, non è neanche nulla, perché, se così fosse, non solo non ci sarebbe l’ente, ma non potremmo nemmeno avere ‘notizia’o nozione del nulla. Dell’essere stesso non possiamo dire né che è né che non è e tuttavia, se non ne comprendessimo il senso, non potremmo né affermare né negare nulla. La Seinsfrage è un nodo (logico?) sul quale Heidegger ha fatto inciampare il pensiero del nostro tempo, mostrando quanto concreta e determinante sia una questione così apparentemente ‘scolastica’. Che questa questione sia stata dimenticata dipende anche - così almeno talvolta lascia supporre Heidegger - da un progressivo ‘indebolimento’ che il senso dell’essere avrebbe patito nel corso della storia occidentale. Se oggi la parola ‘essere’ è un semplice flatus vocis, con un significato tanto vago quanto apparentemente superfluo, è "perché siamo caduti fuori dal suo significato e non riusciamo a ritrovarne l’accesso"15 .

  

Ma il fatto di ritirarsi nel non appariscente e di rendersi quasi invisibile al pensiero è solo un aspetto della Verborgenheit dell’essere. Rimane sempre da spiegare perché, una volta individuatane l’importanza ‘fondatrice’, sia così difficile afferrare e chiarire il senso dell’essere. Per quale motivo, ogni volta che tentiamo di rappresentarci l’essere, non riusciamo ad afferrare nulla? Questa impasse, per Heidegger, non dipende da un’insufficienza del nostro pensiero ma è da ascriversi interamente alla struttura dell’essere. L’essere "inclina di per sé all’autonascondimento"16, ama ritirarsi in una dimensione di oscurità e di mistero in cui il pensiero non lo può seguire. In questo caso ciò che si nasconde non è più la forza svelante dell’essere ma la sua stessa verità. A nascondersi, cioè, non è più il fatto che l’essere è manifesto; a nascondersi è proprio l’essenza dell’essere: " questo illuminante mantenersi in sé con la verità della propria essenza possiamo chiamarlo l’epoché dell’essere"17. Heidegger evidentemente suppone che l’essere abbia una verità propria che non coincide solo col suo esser differente dall’ente. L’idea che l’essere sia concepibile solamente come Differenza, sulla quale hanno insistito tanti interpreti, non esaurisce certamente il problema della Seinsfrage. Bisogna che l’essere abbia un’essenza propria affinché questa possa nascondersi. Sono famose le pagine dell’Introduzione alla metafisica in cui Heidegger, partendo dall’ambiguità del verbo scheinen (presente anche nell’italiano ‘apparire’), sostiene che l’essere appare - nel senso che si mostra e ‘risplende’ - solo in quanto è costantemente esposto al rischio di trasformarsi in semplice ‘parvenza’. L’essere propende a nascondersi "sia nel grande occultamento e silenzio, sia nella più superficiale finzione e dissimulazione"18.

 

La tesi che la "verità dell’essere" si nasconda, o che si dia in modo velato o parziale, implica che essa venga sostanzialmente fraintesa dal pensiero. Dire infatti che l’essere si nasconde, significa dire che il pensiero non può coglierlo se non in modo inadeguato. L’essenza dell’essere rimarrebbe sempre al di là del modo in cui viene intesa. Si introduce qui una frattura tra il modo in cui l’essere appare, e cioè viene compreso, e il modo in cui esso è. Che altro significa parlare di un ‘enigma’ dll’essere19 se non suggerire l’ipotesi che, dietro a ciò che si mostra e che noi comprendiamo, si celi dell’altro? L’essere, perciò, non sarebbe solo dimenticato ma anche essenzialmente frainteso. O perlomeno colto in maniera parziale, dato che parte della sua verità sarebbe sepolta in "tesori non ancora scoperti"20 che attendono solo di essere ritrovati. La velatezza dell’essere può avere vari significati: può voler dire che l’essere si manifesti solo in parte, oppure addirittura che si mostri per quello che non è. In ogni caso, abbiamo visto, essa presuppone una differenza tra il modo in cui l’essere è e il modo in cui esso appare. Questa idea è del tutto inaccettabile, proprio perché la differenza tra essere e apparire si fonda sul senso dell’essere così come appare, e quindi non è applicabile all’essere stesso. L’essere non può apparire che cos’ì com’è e non può essere altro da come appare, perché l’idea stessa di ‘apparenza’, cioè la possibilità che qualcosa possa manifestarsi altrimenti da com’è, è interamente contenuta e prescritta dall’essere così come ci appare. Per questo stesso motivo la verità dell’essere è necessariamente così come noi la intendiamo, perché l’ipotesi che una parte di essa sia nascosta, proviene dalla comprensione dell’essere che noi di fatto abbiamo. La verità dell’essere non può nascondersi né totalmente né parzialmente, perché l’opposizione manifesto/nascosto riposa interamente su quella parte di verità dell’essere che si manifesta e che, proprio per questo motivo, non potrà che essere tutta.

  

Parlare di un’’inclinazione’ dell’essere al nascondimento equivale ad applicare all’essere quella concezione della verità come adeguazione che Heidegger, si badi, non critica, ma fonda sullo svelamento (alétheia) dell’essere stesso. La verità come adeguazione, proprio come l’opposizione tra essere e apparire, deriva dal modo in cui l’essere è di fatto compreso, cioè dal suo senso. Per quanto riguarda l’essere stesso, c’è una corrispondenza perfetta tra ciò che noi comprendiamo - il senso21- e ciò che è compreso, tra il pensiero e la ‘cosa’. Se l’idea di verità proviene dal senso dell’essere, se "l’essere della verità" riposa sulla "verità dell’essere"22, non sussiste evidentemente alcuna differenza tra senso e verità dell’essere: "senso dell’essere e verità dell’essere dicono la stessa cosa"23. Qualunque sia il modo in cui noi intendiamo l’espressione ‘essere’, è a partire da esso che noi ci forgiamo le idee del vero e del falso. La verità dell’essere è interamente contenuta, senza residui, nella comprensione che ne abbiamo. Perciò non c’è alcun velo da togliere, nessuna dimensione di nascondimento, in quanto l’essere stesso - Sein Selbst - è quanto di più evidente e determinato si manifesti. Se ci fossero dei dubbi o delle ambiguità riguardo a ciò che significa ‘essere’, non avremmo alcuna possibilità di dubitare, vale a dire la possibilità di supporre un poter-essere, perché tale possibilità sussiste solo nella misura in cui noi comprendiamo l’essere in modo assolutamente certo e univoco. Le opposizioni fondamentali tra essere e apparenza, tra verità ed errore, tra certezza e dubbio - ovvero le distinzioni tra ‘ciò che è’, ‘ciò che solamente appare’, ‘ciò che appare ma non è’, ‘ciò che può essere’, ‘ciò che non è affatto’, ecc. - si costituiscono a partire dal modo del tutto determinato con cui noi intendiamo l’essere, senza che questa comprensione possa venir modificata o aprirsi su nuove prospettive o punti di vista. Heidegger ha sicuramente visto questa ‘datità’ assoluta del senso dell’essere, ma l’ha posta sullo stesso piano dell’indeterminatezza e dell’oscurità con cui questo stesso senso sembra manifestarsi24.

 

Il motivo per cui Heidegger avanza l’idea della Verborgenheit è dovuta al fatto, come abbiamo visto, che il pensiero non è in grado di cogliere e di fissare l’essere in concetti e significati. Ma l’impossibilità di dire e significare l’essere - di saperlo - non implica affatto che il suo senso sia oscuro, ma solo che esso proviene dal di fuori del linguaggio. Se, in via del tutto essenziale, non ci sono parole capaci di definire il senso dell’essere, è perché la definizione e il linguaggio presuppongono, come loro condizione di possibilità, la comprensione preliminare di questo senso, che allora sfugge alla presa di qualsiasi sapere proprio nella misura in cui lo rende possibile. Questa comprensione è assolutamente determinata e univoca in quanto è sottratta al gioco delle interpretazioni e dei rinvii semantici che sottende invece a qualsiasi forma di sapere concettuale. Non c’è perciò un accesso più o meno autentico alla verità dell’essere, e questo non nel senso che tutti i punti di vista siano ugualmente validi e giustificati - come sostiene la moderna scempiaggine relativista -, ma nel senso che la comprensione dell’essere non può che essere una, univoca, e necessariamente vera. Se non ci intendessimo in modo assolutamente univoco quando usiamo la parola ‘essere’ non ci intenderemmo su nulla, nemmeno sull’ipotesi che la comprensione e la comunicazione potrebbero anche non esistere. La Seinsverständnis, infatti, non si dà se non in quanto comprensione condivisa dagli altri: la necessità che l’altro intenda l’essere nello stesso modo in cui lo intendo io è costitutiva del senso dell’essere stesso.

  

Husserl sostiene che l’ente sensibile e spaziale si dà solo attraverso "adombramenti" e prospettive25, per cui c’è sempre la possibilità che, ad un certo punto, la cosa si riveli essere diversa da quella che pareva, o che addirittura si riveli non essere affatto (come nel caso dell’allucinazione o del sogno). Gli enti sensibili si offrono solo per "facce", e fa parte essenziale del loro "modo di darsi" la possibilità che essi siano diversi da come appaiono. Si dà sempre il caso che un nuovo aspetto metta in crisi tutta la serie di adombramenti precedentemente percepita in base alla quale io avevo costruito l’identità della cosa. E questo, dice Husserl, in infinitum26. "Per quanto dunque possiamo procedere nell’esperienza, per grandi che siano le continuità di percezioni attuali della medesima cosa da noi percorse, rimarrà sempre per principio un orizzonte di determinabile indeterminatezza"27. Non possiamo mai essere certi dell’ente sensibile, né riguardo la sua essenza né riguardo la sua esistenza. Esso si manifesta in modo necessariamente "inadeguato"28 e non c’è scienza capace di venire a capo di questa inadeguatezza costitutiva. C’è sempre una zona dell’ente che rimane nascosta. La cosa non perviene mai a una datità assoluta, ed è questo che la mantiene in una posizione di "trascendenza" nei confronti dell’io. Trascendenza che, peraltro, può sempre rivelarsi illusoria: non avremo mai la sicurezza che l’ente sensibile si dia veramente o non sia, piuttosto, un’illusione creata da noi (bisogna anche aggiungere che, simmetricamente, nemmeno la non esistenza della cosa può manifestarsi in modo definitivo). E’ noto che Husserl contrappone al "modo di darsi" inadeguato e solo presuntivo dell’ente trascendente il "modo di darsi" assoluto degli atti di coscienza o Erlebnisse : solo questi ultimi sono così come appaiono e perché appaiono : del loro essere e del loro esser-così non si può dubitare. Se il "principio di tutti i principi" stabilisce formalmente che solo ciò che "si dà" o "si offre" originalmente all’intuizione è fonte legittima di conoscenza, l’istanza del cogito prescrive che non le cose, ma solo gli atti con cui la coscienza le coglie si diano veramente. Le "cose stesse" a cui bisogna ritornare sono in realtà gli Erlebnisse. Ciò che allora originalmente si mostra alla coscienza non è altro che la coscienza stessa. Ma come potremmo parlare di ‘inadeguatezza’ o di ‘indeterminatezza’ nel modo di apparire dell’ente sensibile (in opposizione alla piena datità con cui si mostrano gli Erlebnisse) se non ci fosse già manifesto in modo assolutamente indubitabile ciò che significa ‘apparizione inadeguata’ in opposizione a ciò che è il ‘vero essere’? Se non avessimo già , cioè, una comprensione dell’essere come di un alcunché di distinto dall’apparire? La distinzione husserliana tra l’"essere assoluto dell’immanente" (la coscienza) e l’"essere puramente fenomenico del trascendente" (la cosa)29, ovvero la distinzione tra essere e apparire, presuppone uno svelamento in piena datità del senso dell’essere. Per cui, ciò che originalmente si offre all’intuizione, ciò che si manifesta in piena evidenza e senza alcun adombramento, la "cosa stessa" del pensiero, che precede per questo anche l’evidenza apodittica del cogito, è ciò che va sotto il titolo di ‘essere’. Ma se è vero, come dice Heidegger, che il cogito presuppone lo svelamento dell’essere, Husserl ha ragione quando sostiene che l’ente "trascendente" può manifestarsi solo in maniera parziale e presuntiva. E’ l’ente a nascondersi, non l’essere. E’ l’ente che può avere aspetti nascosti e mostrarsi sotto nuove prospettive. La comprensione dell’essere, che contiene in sé la comprensione della differenza tra essere e apparire, prescrive che ciò che è, vale a dire l’essente (non l’essere), non coincida necessariamente con la sua manifestazione e si trovi, per così dire, in uno stato di indecisione tra com’è e come appare. La verità dell’ente si produce come lotta tra svelamento e nascondimento, senza che sia mai dato a sapere se ciò che si mostra è finalmente il vero essere o solamente un’altra apparenza. E’ per questo che, tra l’altro, ogni verità ‘ontica’ può essere falsificata.

  

Ciò che non può essere invece mai falsificato è l’essere stesso. La nostra comprensione dell’essere, ad esempio, non potrà mai venire modificata da una nuova scoperta empirica, perché la ‘scoperta’ dell’essere è, nello stesso tempo, più vecchia e più ‘futura’ di qualsiasi scoperta empirica, ed è lo spazio già aperto senza il quale nessun avvenimento empirico potrebbe verificarsi. Il senso dell’essere non può né arricchirsi né precisarsi - né tantomeno essere falsificato - per semplice accumulazione di ‘dati’: esso è già dato una volta per tutte e in modo definitivo, prima di ogni dato particolare. E’ per questo che l’idea di una "storia dell’essere" solleva non poche perplessità. In fondo, se ci fosse una storia del modo in cui l’essere si dà o si manifesta, noi non ne sapremmo nulla. Come potremmo sapere ciò che l’essere era o ciò che sarà se non partendo da ciò che esso è ? Se non, cioè, dando per scontato che rimanga immutabile ? Pensare che l’essere possa avere avuto, o potrà avere, un senso diverso da quello che di fatto ha, è per noi del tutto impossibile. Anche perché l’idea di ‘storia’, insieme a quelle di ‘verità’ e di ‘sapere’, sparirebbe totalmente dal nostro orizzonte di pensiero.

  

Siamo ben lontani, come si vede, sia dalle tesi del pensiero ermeneutico (specialmente dalle sue varianti ‘deboli’) sia da quelle del cosiddetto decostruttivismo. Queste due tesi convergono nell’idea che l’essere non sia in alcun caso riducibile alla ‘categoria’ della presenza (origine delle deprecabili nozioni ‘forti’ di fondamento, arché, identità, centro, ecc.), essendo, nella sua dimensione più autentica, evento in différance, svelamento sempre di là da venire, ecc. L’essere non si presenterebbe mai in se stesso, e proprio questa sua celatezza essenziale costituirebbe la riserva a cui attingerebbe la storia nella sua inesauribile capacità di produrre il nuovo e l’inedito. Sempre altro dall’ente presente e dalle parole che lo dicono, l’essere impedirebbe al discorso di chiudersi e di cogliere in qualche modo delle verità ad esso esterne, costringendo le parole a rilanciarsi in sempre nuove interpretazioni il cui unico fondamento è la tradizione linguistica da cui provengono e da cui sono sollecitate. Non c’è niente di male ad essere hegeliani, tanto meglio se senza l’armamentario della teleologia della fine della storia. Ma tutto ciò ha ben poco a che fare con la logica interna del pensiero heideggeriano che, pur tra molte divagazioni poco convincenti sul destino e sulla storia dell’occidente, parte proprio dall’idea, continuamente rimeditata, di una manifestazione dell’essere in se stesso, che si dà in un husserliana "intuizione categoriale" paragonata alla fine nientemeno che all’esti gar einai di Parmenide29. "Anwest nämlich anwesen", è presente infatti l’essere presente: così Heidegger traduce il frammento parmenideo, facendo di queste parole la sigla testamentaria del suo pensiero. E’ presente l’essere presente; ovvero: l’essere è dato, svelato, manifesto, qui e ora e già da sempre. Nel 1969, nella sua unica intervista televisiva, Heidegger diceva che "il segno più caratteristico del destino in cui noi ci troviamo [ la dimenticanza della questione dell’essere ] è -per quello che riesco a vedere - il fatto che la questione dell’essere, che io pongo, non è stata ancora compresa "30. Non sembra che, nel frattempo, le cose siano cambiate di molto.

  

NOTE

 1 M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1970, pp. 23-24.

2 Ibid., p. 25.

3 M.Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, il melangolo, Genova 1988, p.9.

4 M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p.20.

5 I bid..

6 M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano 1972, p. 50.

7 M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p.22.

8 I bid.

9 I bid., p. 24.

10 I bid.

11 M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, cit., p.96.

12 I bid., p. 95.

13 M. Heidegger, Intrduzione a: "Che cos’è la metafisica?", in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 318.

14 M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, cit., p. 88.

15 I bid.., p. 50.

16 I bid., p.123.

17 M. Heidegger, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, p.314.

18 M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, cit., p.123.

19 M. Heidegger, Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1985, p.157.

20 M. Heidegger, La questione dell’essere, in Segnavia, cit., p.364.

21 "L’essere ha, nella misura in cui è compreso, un senso". M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, cit., p. 93.

22 M. Heidegger, Poscritto a "Che cos’è la metafisica?", in Segnavia, cit., p.259.

23 M.Heidegger, Introduzione a:"Che cos’è la metafisica?", cit., p.329.

24 Cfr. ad esempio tutta la prima parte del testo Concetti fondamentali, il melangolo, Genova 1989.

25 E. Husserl, Idee I, Einaudi, Torino 1981, p. 88.

26 I bid., p.94.

27 I bid., p. 95.

28 I bid., p. 94.

29 I bid., .

29 M.Heidegger, Seminario di Zhäringen, in Seminari, Adelphi, Milano 1992

30 M. Heidegger, Risposta, A colloquio con Martin Heidegger,Guida, Napoli 1992, p.55.

 

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