Senza via d'uscita

di Silvio Falcone



Quell'anno l'inverno era particolarmente duro. I telegiornali erano pieni di notizie riguardanti alluvioni, allagamenti, straripamenti di fiumi, che avevano interessato tutta l'Europa.
In città pioveva ininterrottamente da tre giorni. Fortunatamente ciò non aveva procurato particolari preoccupazioni alla popolazione, in quanto la rete fognaria reggeva perfettamente e non si erano creati particolari disagi. Ma per chi, come Linda, era un animale da sole, non era certo confortante l'idea di dover stare in casa o, peggio, uscire sotto la pioggia battente.
Si sa che in giornate come questa è un bel dire l'ombrello o l'automobile. Ci si ritira inevitabilmente inzuppati, soltanto ad attraversare la strada o entrare in macchina.
E poi Linda odiava la pioggia. Durante la stagione estiva era capace di rimanere distesa al sole per ore intere, senza risentire minimamente dell'esposizione. Adorava sentire il caldo abbraccio dell'astro infuocato sulla pelle scoperta. Era una fanatica dell'abbronzatura e quando le circostanze glielo consentivano, non disdegnava di esporre ai caldi raggi, anche le parti del corpo che solitamente sono tenute coperte. Del resto se lo poteva permettere. Aveva un corpo perfetto. Due seni eretti a dispetto di qualsiasi reggiseno, una vita stretta e ben disegnata e due gambe che, fasciate in attillati calzoni o mostrate da audaci minigonne, facevano girare la testa a qualsiasi esemplare di sesso maschile che le incrociasse. Completava il quadro un visino pulito, incorniciato da capelli nerissimi e corti, due occhi dello stesso colore e un nasino all'insù che le indisponeva l'espressione rendendola simpatica al primo sguardo. Ma più di ogni altra cosa risaltava il suo sorriso dolce e accattivante allo stesso tempo, un sorriso acqua e sapone che esprimeva tutta la gioia di vivere di una ragazza di ventidue anni, quanti ne aveva Linda.
Interrotti gli studi al conseguimento del diploma di ragioniera, aveva trovato quasi subito lavoro presso un'azienda di servizi della zona. Si interessava della contabilità e sbrigava le faccende legate ai rapporti con le banche e gli enti pubblici.
Viveva con sua madre in una casa troppo grande per sole due persone. Il padre se ne era andato tre anni prima, stanco di subire i continui esaurimenti nervosi della moglie che non trovava niente di meglio da fare che scaricare sul marito i fallimenti di una vita sprecata e la sua incapacità ad essere moglie, madre e donna.
I rapporti col genitore, nonostante la distanza che si era creata fra i due dopo che lui si era trasferito a seicento chilometri più a nord, erano ottimi. Si sentivano per telefono almeno una volta alla settimana e si incontravano ad ogni occasione di lavoro o festività importanti.
Linda era figlia unica. Il padre, pur adorandola, si era ben presto reso conto della sciocchezza che aveva fatto mettendola al mondo. Infatti l'unica ragione che lo aveva tenuto legato alla famiglia era stata lei, la piccola Linda. Ma appena aveva compiuto i fatidici diciotto anni, le aveva parlato col cuore in mano e lei, pur soffrendo come non mai, capì e lo abbracciò macchiandogli il collo della camicia con l'ombretto che le sue lacrime avevano sciolto.
Fortunatamente aveva ereditato il carattere aperto e gioviale del padre, per cui, pur non avendo fratelli con cui condividere la sua adolescenza, era circondata da amici con i quali trascorreva la maggior parte del tempo libero che le rimaneva, prima dallo studio e poi dal lavoro.
Sentimentalmente non era legata a nessuno. Come tutte le ragazze della sua età aveva vissuto molte storie durate pochi mesi. Credeva fermamente al principe azzurro e lo aspettava pazientemente.
Era appena rincasata dal lavoro per il pranzo e, come sempre, pur dovendo rientrare di lì a poco, si era tolta il completo giacca e gonna e aveva indossato la comodissima vestaglia dopo aver infilato le pantofole col muso di orsacchiotto.
Ci teneva moltissimo alla sua persona e ancora di più ai propri abiti, che riponeva in perfetto ordine nell'armadio della camera da letto ogni volta che rientrava in casa. Quel giorno poi, era tornata con le scarpe completamente bagnate e le calze macchiate dagli schizzi di fango.
La madre, piagnucolosa come al solito, sprofondata nella poltrona davanti al televisore, lamentava l'impossibilità di poter tirare avanti la casa da sola, senza l'aiuto di alcuno. Non poteva cucinare, lavare, rassettare ogni giorno, aveva diritto anche lei alla propria vita, diritto che aveva sempre reclamato, ma che mai aveva pensato di realizzare. Ovviamente la colpa di tutto era del marito che lei incautamente aveva sposato e che l'aveva condannata a quella vita infame.
Linda ormai non l'ascoltava quasi più. In silenzio sistemava le cose che la madre non aveva neanche sfiorato, preparava qualcosa da mangiare e lo consumava insieme a lei che, tra un boccone e l'altro, continuava a sciorinare le sue insoddisfazioni.
Era quasi pronto in tavola, quando arrivò la telefonata che avrebbe cambiato il corso della sua vita. Era il suo capo e le chiedeva di passare a ritirare il corrispettivo di una fattura da un cliente, prima di rientrare al lavoro. L'azienda in questione era in periferia , abbastanza fuori mano e dovette farsi spiegare più volte la strada per arrivarci, tanto era complicata.
In genere non le dispiaceva sbrigare queste commissioni, le piaceva guidare la macchina. Ma quel giorno era particolare; pioveva da matti e le strade di periferia non dovevano certo essere in buone condizioni. Però quell'incasso era molto importante e Linda si distingueva per la sua serietà e la sua responsabilità.
Si limitò a prendere appunti e rassicurò il capo sul compimento della missione.
Mangiò in fretta e in fretta lavò le stoviglie, mentre la madre, che accendeva la terza sigaretta dopo pranzo, sentenziava sul giogo che, il lavare i piatti, fosse per una donna.
Si chiuse in bagno e, dopo essersi lavata i denti, rifece il trucco. Indossò un paio di collant, anche se abitualmente portava calze con giarrettiera o autoreggenti. Era una convinta sostenitrice del fatto che l'eleganza di una donna parte dalla biancheria intima e poi arriva a ciò che gli altri vedono. Ma quel giorno faceva freddo e, per una volta, poteva anche derogare alle proprie convinzioni in favore della comodità. Infilò il completo giacca e gonna, si buttò sulle spalle il cappotto di montone e dopo un rapido "Ciao" alla madre, che probabilmente non aveva neanche sentito, presa com'era dalle proprie lamentele, scese le scale che la portarono al portone d'ingresso del fabbricato dove abitava.
Una volta fuori, cercò con lo sguardo la sua vecchia Renault 4. Non ricordava mai dove l'aveva parcheggiata. Una volta addirittura aveva dimenticato di averla portata, e si era ritirata a piedi a casa. Se ne accorse soltanto il giorno dopo quando la cercava disperatamente nel parcheggio condominiale.
La vide, aprì l'ombrellino a scatto che, al vantaggio di essere microscopico da chiuso, non aggiungeva il vantaggio di coprirla abbastanza e si infilò sotto la pioggia che implacabilmente veniva giù da un cielo cupo e chiuso.
Entrò in macchina e bagnò anche quel poco che era riuscita a coprire col minuscolo ombrello, nel tentativo di richiuderlo. Mise in moto ed uscì dal parcheggio.
Un insistente odore di muffa invadeva l'abitacolo dell'automobile.
"Prima o poi dovrò portarla dal carrozziere per individuare il punto in cui entra acqua!" pensò. Si incanalò nel traffico di quelli che, come lei, rientravano al lavoro e si diresse verso la periferia nord della città.
Il rumore della pioggia che frustava il parabrezza, copriva quello del motore che pur non era indifferente. A tratti scrosci d'acqua si abbattevano sul tettuccio dell'abitacolo facendo sobbalzare Linda che era tesa e preoccupata.
Ben presto il traffico cittadino si alleggerì, fino a scomparire e le costruzioni, ammassate e opprimenti andarono diradandosi.
Sul sedile di destra aveva sistemato, in bella vista, il foglietto sul quale erano riportati gli appunti sulla strada da seguire. Aveva abbozzato una cartina con i punti di riferimento che le erano stati indicati.
Pareva che tutto andasse per il meglio. Passò il viadotto sul quale scorreva la tangenziale, oltrepassò il bivio per la panoramica, imboccò i due tornanti.
La strada era pessima. La pioggia aveva creato più buche di quelle che normalmente tempestavano l'asfalto e, avendole allagate, le copriva, per cui erano messe a dura prova le sospensioni spartane della vecchia auto. Con tutti i fari accesi si faceva fatica a vedere più in là del proprio naso, nonostante fosse ancora giorno.
Le auto che procedevano in senso contrario, attraversando le pozzanghere che si allargavano sempre più, le gettavano sul parabrezza abbondanti scrosci d'acqua mista a fango che, oltre a spaventarla ogni volta, le toglievano per qualche secondo la visuale, finché i tergicristallo, messi a dura prova, ripristinavano in qualche modo la situazione.
I guai non tardarono a venire. Le luci lampeggianti di polizia e vigili del fuoco le annunciarono un blocco stradale.
Davanti a lei due macchine facevano manovra per tornare indietro.
Spostò il vetro del finestrino e, tra uno spruzzo e l'altro, chiese spiegazioni alle persone in divisa che, mal coperti da impermeabili di gomma gialla, fermavano tutti quelli che passavano.
- Scusi! Mi scusi, non si può passare?

- No, signorina. Una frana ha bloccato la strada e, con questo tempaccio, non si riuscirà a liberarla prima di domani.

- Diavolo! Devo arrivare a Contrada Boschetto, c'è un'altra strada per arrivarci?

- La strada c'è, ma se non è indispensabile le conviene tornarsene a casa.

- Perché è una strada pericolosa?

- Non proprio! Forse solo l'ultimo tratto. Ma per arrivarci deve fare un giro molto lungo e attraversare il valico sull'altro versante della montagna.

- Credo proprio che non ne posso fare a meno. Può darmi qualche indicazione?

- Non è molto difficile, ma deve stare attenta a non perdersi ai numerosi bivi che incontrerà! Allora, lei torna indietro lungo questa strada, poi .....

E spiegò in maniera più o meno esauriente la via da seguire. Spiegata da chi la conosceva e con il tono sicuro e ovvio, tipico di coloro che fanno quel mestiere, il percorso sembrava abbastanza semplice e quindi fattibile.
Ringraziò per la cortesia dimostratale e, dopo alcune manovre, invertì la marcia per tornare indietro quel tanto che bastava ad imboccare la nuova strada.
Avrebbe volentieri fatto a meno di quel viaggio, ma il capo si era raccomandato con lei. Era di vitale importanza avere quel denaro il giorno stesso.
Pazienza! Avrebbe chiesto un paio di giorni di ferie, non glieli avrebbero negati. Così almeno avrebbe potuto asciugarsi l'umido che le era penetrato fin dentro le ossa.
La pioggia non era più tanto insistente e a tratti smetteva, ma la strada era un pantano e c'era fango dappertutto.
Le indicazioni che le erano state fornite fino a quel momento corrispondevano perfettamente. Aveva oltrepassato il distributore di benzina sulla destra, la casa diroccata sulla sinistra, aveva imboccato la terza traversa dopo la chiesetta.
Aspettava di vedere il vecchio pozzo abbandonato per poi prendere a sinistra dopo trecento metri. Trecento metri. Ma quanti erano trecento metri? Ognuno dava il suo significato, personalissimo, alla misura di trecento metri. Quante volte le era stato risposto, a richiesta di indicazioni, "duecento metri più avanti", e aveva percorso almeno due chilometri; oppure "tra cinquecento metri" ed era lì a cinquanta scarsi. In quel caso non poteva sbagliare, avrebbe trovato un'indicazione per "Contrada Boschetto".
Percorse almeno un chilometro, superò tre biforcazioni, ma dell'indicazione nessuna traccia. Ad ogni bivio, c'era soltanto il paletto che un tempo, forse, aveva supportato un cartello.
"Maledizione agli imbecilli che si divertono a distruggere i cartelli stradali!" pensò. Sicuramente la strada da imboccare se l'era lasciata dietro. Ma quale delle tre? In giro non c'era un cane, non si vedevano abitazioni o esercizi commerciali. Non aveva incrociato nessuna automobile da un bel po'.
Si fermò. Nel frattempo aveva ricominciato a piovere. Invertì la marcia e tornò indietro. Sarebbe tornata dove poteva chiedere informazioni.
Come era stato facile seguire le indicazioni che le erano state date, facendo la strada in un verso! Ma come era difficile ritrovarle facendola nel senso opposto. In più di un'occasione si affidò all'istinto e ben presto si rese conto che non stava percorrendo la stessa strada che aveva fatto all'andata.
Al diavolo il capo, e al diavolo l'azienda. Sarebbe tornata indietro. Al primo essere vivente che incrociava, avrebbe chiesto come tornare in città. Del resto poteva sempre dire che nessuno era stato in grado di darle indicazioni alternative, era plausibile. Perché non ci aveva pensato prima? Si sarebbe risparmiata un bel po' di strada e di tensione nervosa. Ma ormai era fatta! Inutile piangere sul latte versato, l'importante era che sarebbe tornata indietro.
La strada che aveva imboccato attraversava un fitto bosco, tanto fitto che, nonostante piovesse a dirotto, sulla macchina non arrivava che qualche goccia.
Era in marcia da circa un'ora. Nessun segno di vita.
Finalmente in lontananza la sagoma di un paese. Tirò un sospiro di sollievo. Lì certamente qualcuno le avrebbe indicato come tornare a casa e, per male che sarebbe andata, avrebbe potuto telefonare e farsi venire a prendere.
La vista delle case, invece di rassicurarla la mise in agitazione. C'era qualcosa di strano in quel gruppo di costruzioni, qualcosa di sinistro, qualcosa che le sfuggiva.
Era ormai a poche centinaia di metri dall'agglomerato. Non c'era segno di vita. Non una luce, non una persona, un'auto, una qualsiasi cosa che facesse pensare ad attività e a presenza umana.
Entrò nel paese. Le prime case che incontrò erano diroccate. La cosa non la spaventò più di tanto. Quel fenomeno era frequente in quella zona che, dieci anni prima, aveva subito un violento terremoto, che aveva fatto molte vittime.
Ben presto si rese conto che non erano le uniche ad essere crollate, l'intero paese era un ammasso di rovine. Cumuli di macerie ingombravano le strade, muri sventrati rivelavano quelle che un tempo erano state le abitazioni dei paesani. Pezzi di vita privata trapelavano da quei soggiorni, quelle camere da letto, cucine, bagni, rivelati agli sguardi di chiunque fosse passato.
Era capitata in un paese fantasma. Ne aveva sentito parlare. Dopo il violento terremoto, alcuni paesi erano stati ricostruiti più a monte o più a valle di quelli originari, e le vecchie case erano state abbandonate dopo aver recuperato il recuperabile.
Aveva la pelle d'oca. Il temporale, la luce del giorno che andava a morire annunciando una gelida serata, le sagome sinistre dei ruderi di quello che un tempo era stato un paese vivo e movimentato, creavano un'atmosfera da film dell'orrore che a Linda non garbava affatto. Lei che adorava il cinema rosa con i finali a lieto fine, dove lui sposa lei e... "vissero felici e contenti".
Doveva uscire subito da quell'ammasso di macerie pericolanti. Alla paura del non sapere dove si trovava e soprattutto del trovarcisi da sola, si aggiungeva il terrore di rimanere sepolta sotto un cumulo di macerie. E lì nessuno l'avrebbe mai cercata. I posteri avrebbero trovato il suo scheletro insieme a quelli dei poveri disgraziati sorpresi dalle scosse assassine.
Fermò la macchina e si apprestava a fare manovra, quando con un cupo boato venne giù l'intera facciata della palazzina che aveva appena superato. L'acqua aveva minato la già fragile struttura che non aveva retto oltre.
Le si gelò il sangue nelle vene. Se fosse successo un attimo prima, sarebbe veramente andata a fare compagnia alle vittime del sisma.
La strada del ritorno era sbarrata. Almeno quella strada.
Doveva aggirare l'ostacolo.
Si infilò in un vicolo sulla sinistra, all'imbocco del quale spiccava rosso, con la sua striscia bianca, un divieto d'accesso. "L'unico rischio che non corro" pensò "è di trovarmi faccia a faccia con un altro automobilista in senso contrario!".
Svoltò ancora a sinistra alla prima traversa che incontrò, e dovette frenare a tavoletta per non schiantarsi contro un furgone ribaltato sfondato da un intero balcone precipitato da chissà dove.
Faticò molto a tornare indietro con la retromarcia. Il vicolo era strettissimo.
Proseguì per la successiva traversa.
Le stradine erano impossibili. L'auto ci passava appena e ingombre com'erano di macerie e detriti, rendevano il cammino impervio e pericoloso.
Più di una volta aveva sentito sbattere la parte inferiore dell'auto contro spuntoni di cemento, e le fiancate erano graffiate continuamente da residui di tondini di ferro che un tempo armavano il cemento delle costruzioni.
La strada in cui si era infilata era stretta all'inverosimile, l'auto passava lasciando ai due lati pochi centimetri di spazio.
Cominciava ad avere paura sul serio. Fuori faceva molto freddo, ma lei era inzuppata di sudore. Ormai la sera era calata e aveva steso il suo mantello di buio sul già tetro paesaggio che la circondava.
L'ennesimo colpo sotto il pianale dell'auto e il fumo che vide uscire da sotto al cofano dell'auto, le annunciarono che si era spaccato il radiatore.

- No! Non proprio adesso! Ti prego non ti fermare, ti prego! Non ti fermare!

Raramente le nostre preghiere sono ascoltate e quella volta la statistica non fu smentita. L'auto dopo qualche sobbalzo si fermò; una densa nube di vapore bianco fuoriusciva dai due lati del cofano.
Linda percosse lo sterzo con i pugni e urlò di rabbia. E adesso? Cosa avrebbe fatto? Chi avrebbe potuto aiutarla? Per quanto tempo avrebbe vagato a piedi nella campagna, prima di trovare qualcuno a cui chiedere aiuto? E quel qualcuno l'avrebbe aiutata, o sarebbe incappata in qualche malintenzionato?
La rabbia si sciolse in copiose lacrime che cominciarono a rigare il volto. Il trucco sbavato, la stanchezza e la paura, le disegnavano un aspetto macabro che si intonava perfettamente con la situazione che si era creata.
Ma le sorprese non erano ancora finite! Aprì lo sportello per scendere dall'auto e decidere sul da farsi. La lamiera urtò violentemente il muro adiacente, lasciando qualche centimetro di spazio all'uscita della ragazza. Linda era molto magra, ma lo spazio era veramente troppo poco.
Con un balzo passò all'altro sedile e aprì la portiera di destra. Purtroppo la situazione era la stessa, anzi da quel lato i centimetri erano scarsi un paio. Era bloccata nell'auto, irrimediabilmente, inesorabilmente bloccata all'interno di quella scatola metallica.

- No! non è possibile! Sto sognando. Non può essere vero. Non deve essere vero. Non devo farmi prendere dal panico. E' assurdo! Deve esserci una via d'uscita! C'è sempre una via d'uscita, basta mantenere la calma e ragionare.

Tornò al posto di guida e riprovò ad uscire da quel lato. Purtroppo non uscì che un braccio e una gamba. La testa e il resto del tronco non riuscivano a passare. Sfilò via la gonna, che la impacciava notevolmente, e tolse il montone e la giacca sperando di poter passare più facilmente. Riprovò, ma fu tutto inutile, lo spazio era troppo poco. Anche se si fosse messa nuda e cosparsa di sapone, oltre al braccio e alla gamba, non sarebbe riuscita a tirar fuori nient'altro.
Si guardò intorno. Scavalcò i sedili anteriori e provò con le portiere posteriori. I risultati non furono migliori. Sia a destra che a sinistra, niente da fare.

- Il portellone posteriore! Che stupida a non pensarci prima! Il portellone posteriore sarà la mia salvezza.

Si inginocchiò nella parte finale dell'auto e cercò il modo di aprire il portellone. Purtroppo la maniglia che era fuori, non era dentro e non vi era alcun modo per far scattare la serratura, peraltro chiusa a chiave.
Tempestò il lunotto con i pugni e smise solo quando le cominciarono a sanguinare le nocche. Non riusciva a concentrarsi, a trovare una soluzione.
Ormai era buio pesto, riusciva a vedere ciò che la circondava, soltanto quando il cielo era sinistramente illuminato dai lampi del temporale che fortunatamente si stava allontanando. Purtroppo con il temporale si allontanavano anche i lampi. L'unica luce era quella dell'abitacolo e i fari che illuminavano l'interminabile cunicolo in cui si era andata a cacciare.
Decise di spegnere almeno i fari, non le servivano accesi e avrebbe così risparmiato la batteria che le sarebbe potuta essere utile più tardi.
Tornò a sedere al posto di guida. Avrebbe potuto urlare, ma chi l'avrebbe sentita in quel cimitero di case? Forse abitava qualcuno a dispetto della pericolosità delle strutture. Forse qualcuno talmente attaccato alla propria casa che aveva deciso di viverci anche a costo di rimanere sepolto sotto il crollo delle altre!
Fece scivolare indietro il vetro del finestrino anteriore, appoggiò la testa al muro che la opprimeva a pochi centimetri e cominciò ad urlare con quanto fiato aveva in gola. Chiedeva aiuto, urlava di essere in pericolo; continuò finché le venne la voce rauca. Nessuna risposta. Né avanti, né dietro l'auto c'era alcun segno di vita.
Poteva rompere il vetro del parabrezza e uscire di là. Non che la situazione sarebbe cambiata molto, sola, in una città fantasma. Ma almeno sarebbe stata fuori e avrebbe potuto mettersi in cammino. Qualcuno l'avrebbe trovato, soprattutto ora che aveva smesso di piovere.
Cercò qualcosa con cui infrangere la barriera che la separava dalla libertà.
Oltre all'ombrellino, la borsa e i documenti, non trovò nient'altro. le mancava addirittura il crick. Si era sempre ripromessa di comprarlo, ma non lo aveva mai fatto. Non le era mai servito; fortunatamente non le era mai capitato di bucare un gomma. Anzi sfortunatamente, perché se le fosse capitato l'avrebbe comprato e ora avrebbe qualcosa con cui spaccare il vetro.
Provò con l'ombrellino. Rinunciò dopo averlo fatto a pezzi. Poteva provare a sfondarlo con i piedi. L'aveva visto fare in film d'azione.
Scivolò in basso sul sedile e si raccolse in posizione fetale, si concentrò e lanciò i piedi, fasciati negli stivaletti invernali, uniti contro il parabrezza.
Ci provò molte volte prima di arrendersi e di aver spezzato entrambe i tacchi. Saltò sul sedile posteriore e riprovò col lunotto, purtroppo con gli stessi risultati.
La situazione era paradossale. Era lì mezza nuda, bloccata in un auto, incastrata in una strettoia, in un paese abbandonato e di notte per giunta. Maledisse il giorno che aveva detto che i telefoni cellulari erano il simbolo del consumismo e che non l'avrebbero mai convinta a comprarne uno. Avrebbe dato qualsiasi cosa per possederne uno in quel momento.
Erano ormai cinque ore che era in quella situazione. Qualcuno si sarebbe accorto della sua mancanza! La madre certamente no, capitava spesso che dopo il lavoro uscisse con qualche amica e si ritirasse a notte inoltrata, quando la donna, stanca di lamentarsi, riempiva la casa col suo fastidioso russare. Al lavoro avrebbero pensato ad una vacanza inopportuna. Già vedeva la faccia del capo che si preparava ad accoglierla, il giorno dopo, con una sonora rimproverata per non aver adempiuto al proprio dovere.
Nessuno sarebbe venuto a cercarla. E certamente non l'avrebbero cercata in quel maledetto vicolo. Doveva cavarsela da sola.
Riprovò a scivolare fuori dallo sportello laterale. Cercò di forzare la testa tra le lamiere. Si strappò parecchie ciocche di capelli e sbucciò via un bel po' di pelle dalla fronte, che cominciò a sanguinare. Niente da fare, se avesse continuato, le sarebbe scoppiato il cervello.
Forse poteva cercare di piegare la lamiera del tettuccio; avrebbe così allargato il varco e, se fosse passata la testa, sarebbe passato il resto del corpo; almeno così le avevano sempre detto: "dove passa la testa, a meno di essere obesi, passa tutto il corpo". E lei obesa non lo era certo, anzi un po' al di sotto della norma.
Provò in tutti i modi a piegare la lamiera, con le mani, con quello che le era rimasto dell'ombrello, con le scarpe... rimediò soltanto nuove ferite ai palmi e alle dita, ma non riuscì a smuovere di un millimetro la carrozzeria.
Era in trappola. Si rannicchiò sul sedile e cominciò a piangere, un pianto nervoso che non riusciva più a contenere, a controllare.
Cominciarono a scorrere nella sua mente le immagini della sua vita. Il primo giorno di scuola, a sei anni, quando vide allontanarsi la mamma che l'aveva accompagnata ed era scoppiata in un pianto dirotto; la sua prima comunione, felice nell'abito bianco che un tempo era stato il simbolo della purezza della madre nel giorno del suo matrimonio; il primo bacio col compagno di banco al liceo; la prima volta che aveva fatto all'amore con il fidanzatino di turno; gli esami di maturità e la sensazione di libertà quando si era diplomata; il padre che aveva abbracciato quando andò via da casa...
Cullata da quei pensieri si addormentò.
Aprì gli occhi nel cuore della notte, svegliata da ticchettii sul tettuccio dell'auto. Non si rese subito conto di dov'era, ma quando, voltandosi verso il finestrino di sinistra, vide il muso di un cane cercare di insinuarsi nell'abitacolo, la vescica, che da tempo le premeva il ventre, si svuotò di colpo, inondandole le cosce di un liquido caldo e abbondante.
Un branco di cani randagi aveva circondato l'auto, passando da un lato all'altro arrampicandosi sul cofano e il tettuccio. D'istinto colpì la bestia sul muso con lo stivale che aveva a portata di mano. Il cane si ritrasse di colpo con un guaito di dolore e Linda si affrettò a chiudere i vetri di entrambe gli sportelli.
Ci mancava anche questa! I cani erano diventati minacciosi e le mostravano i denti. Un paio erano saliti sul cofano e abbaiavano e ringhiavano, sbattendo le zanne sul vetro del parabrezza.
Mise in funzione i tergicristallo facendoli balzare indietro per una momentanea ritirata. Accese i fari e pigiò a fondo il clacson, nella speranza di allontanarli definitivamente.
I cani, dopo un primo momento di smarrimento tornarono alla carica ancora più inferociti. "Vi piace la carne in scatola?" pensò, "Ho paura che dovrete accontentarvi delle mie ossa, se un giorno riuscirete ad infilarvi qui dentro ".
La situazione era davvero precipitata. Se aveva una benché minima speranza di uscire all'aperto, ora doveva abbandonarla. Uscire avrebbe significato finire nello stomaco di quelle bestie affamate e incoraggiate dalla presenza del branco.
Aveva perso definitivamente il senso del tempo, guardò l'orologio e si rese conto che era ferma nel budello da undici ore. Aveva sete. Lo stomaco le si era chiuso e il solo pensiero di mangiare le procurava sensi di nausea. Però aveva sete. La consapevolezza di non poter disporre di acqua le aveva asciugato completamente la gola.
Adesso aveva anche freddo. Del resto erano in pieno inverno e lei era in mutandine, coperta da una leggera camicetta e da un paio di collant sfilati in più punti. La tensione delle ore precedenti le aveva riscaldato il corpo più del dovuto, facendola addirittura sudare, ma ora, che da tempo aveva rinunciato a qualsiasi azione volta ad uscire dalla sua prigione, avvertiva la temperatura rigida. Afferrò il cappotto di montone e vi si rannicchiò sotto, lo sguardo fisso ai vetri dell'auto, dove si alternavano ringhiando i cani della muta.
Vi erano bestie di tutte le taglie e di tutte le razze, una ventina in tutto, con un unico denominatore in comune: sporcizia e parassiti in quantità.
Dopo un tempo che a lei parve interminabile, i cani si stancarono di puntare una preda troppo difficile. Rinfoderarono le zanne e scodinzolando lasciarono quel posto in cerca di cibo più facilmente raggiungibile.
Linda tirò un sospiro di sollievo. Un problema sembrava risolto. Rimaneva da risolvere quello primario: come uscire. Ma, se vi fosse riuscita, non sarebbe stata sbranata; non subito almeno!
Non le restava che aspettare la luce del giorno. Il tutto avrebbe assunto una piega migliore. Si sarebbe resa conto meglio di dove si trovava e magari sarebbe passato qualcuno in visita nostalgica alla sua vecchia casa, o magari, messi in allarme dalla sua assenza, la madre o i colleghi avrebbero avvertito la polizia che, guarda caso l'avrebbe cercata proprio lì. Improbabile! Impossibile! Riprese a piangere.
Pensò a suo padre. Chissà cosa stava facendo in quel momento. Lui certamente avrebbe saputo come risolvere la situazione. Lui sapeva sempre cosa era più giusto fare. Era un uomo sicuro di sé che aveva fatto un solo errore nella sua vita: sposare la mamma. Un uomo che, per amor suo, aveva sopportato una vita di inferno. Fin da bambina le aveva insegnato ad avere fiducia in se stessa, a sentirsi all'altezza in qualsiasi situazione. Ma ora lo stava deludendo. Era lì ad aspettare che succedesse qualcosa, che qualcun altro venisse a toglierla da quel pasticcio.
Aveva bisogno di lui. Lo chiamò. Prima nella sua mente, poi sottovoce, poi urlando e piangendo.
Intanto il cielo si era sgombrato del tutto delle nuvole e cominciava a rischiararsi per l'arrivo del giorno.
Nonostante si fosse raggomitolata nel montone, Linda era tutta intirizzita. Aveva le ossa a pezzi e le dolevano tutti i muscoli. Aveva la bocca impastata e la sete era diventata insopportabile. Si era aggiunta anche la fame.
Era praticamente giorno e una leggera nebbiolina era calata a rendere ancora più spettrale l'atmosfera che circondava l'auto.
Si avvicinò ai vetri appannati e li pulì con la gonna. Davanti a lei la stradina si stendeva per altri cento metri, per poi svoltare con una curva a gomito verso destra; dietro si intravedeva la strada che aveva percorso prima di imboccarla. Era cosparsa di mattoni e detriti, oltre che di pezzi di mobilio e suppellettili varie. Sulla sinistra, davanti a lei un portone sfondato faceva intravedere quella che un tempo era stata la corte del fabbricato. Sulla destra l'intera costruzione era sventrata all'altezza del primo e unico piano e lasciava, agli sguardi estranei, l'intimità delle tappezzerie colorate ai muri delle camere, le piastrelle della cucina e dei servizi igienici.
Piccoli particolari facevano pensare alle persone che l'avevano abitata e che forse erano morte nel tentativo di salvare il quadro del nonno o l'orologio della zia. Decalcomanie attaccate alle piastrelle della cucina, resti di giocattoli tra le mura e giù in strada, lenzuola traboccanti da un cassettone sfondato. Pezzi di vita che si erano fermati la sera di quel 23 novembre, quando sembrò che dovesse finire il mondo.
Il silenzio regnava sovrano su quelle scene di desolazione e di morte. Un silenzio che la soffocava, la schiacciava.
Doveva reagire, non poteva arrendersi. Non aveva alternative; uscire da quella macchina o morirvi dentro. Il portone sulla sinistra era a un paio di metri più avanti. Se fosse riuscita a farvi arrivare l'auto, avrebbe avuto lo spazio per aprire lo sportello e finalmente uscire all'aperto. Non poteva certamente spingerla stando all'interno, ma poteva sperare che si mettesse in moto e camminasse quel tanto che bastava a percorrere i due metri che la separavano dalla salvezza.
Pregò. Non lo faceva mai. Si dichiarava cattolica, ma in fondo non gliene fregava niente. Non entrava in chiesa da una vita, se si escludono i funerali e i matrimoni a cui aveva assistito. Ma quella volta pregò. Lo fece con tutta l'anima, con tutto il cuore e dentro di sé sperava ardentemente che Dio esistesse e la stesse ascoltando in quel momento.
Si accomodò al posto di guida, il piede sinistro sulla frizione e quello destro pronto ad accelerare. Girò la chiave e sentì il motorino d'avviamento sbuffare. Diede qualche colpo d'acceleratore, ma oltre a tossire, l'auto non fece nient'altro. Provò a mettere in moto senza tenere il piede sulla frizione e con la marcia innestata. Effettivamente l'auto sobbalzava ad ogni avvio, ma i detriti di cui era cosparso il terreno, non le consentivano di muoversi neanche di un millimetro.
Continuò a provare finché scaricò la batteria e il motorino di avviamento rimase muto nonostante la chiave girasse nel suo alloggiamento.
Era la fine. Sarebbe morta di fame e di sete in quella maledetta auto. Una morte stupida, terribile. Pensò ai murati vivi di cui era piena la storia e la leggenda. Si era sempre chiesta cosa si provasse a sapere di dover morire un pezzetto per volta, senza poter far nulla per evitarlo. Ora lo sapeva.
Lei non avrebbe aspettato che la morte la consumasse. Non glielo avrebbe permesso. Piuttosto si sarebbe uccisa con le proprie mani, ma non le avrebbe dato questa soddisfazione.
Avrebbe avuto il coraggio di farlo? E come lo avrebbe fatto?! Non poteva certo impiccarsi, poco spazio, gas non ce n'era, non aveva una pistola e neppure veleno. Tagliarsi le vene, era l'unico modo per uccidersi: tagliarsi le vene.
Aveva letto da qualche parte che era una morte dolce, indolore. Ti senti scivolare via la vita un po' alla volta, ti addormenti e non ti svegli più. Basta non guardare il sangue che sgorga, basta chiudere gli occhi e cominciare a sognare.
Si guardò intorno, alla ricerca di qualcosa di tagliente che potesse fare al caso suo. Non voleva soffrire, più era tagliente e meno avrebbe sofferto. Staccò una delle stecche dall'ombrello e ne spezzò l'estremità. Almeno sarebbe servito a qualcosa quell'ombrellino che non era riuscito neanche a coprirla quando pioveva. La stecca era diventata tagliente al punto giusto. Linda si rese conto che aveva deciso di uccidersi, senza consultarsi con se stessa, solo quando, dopo tre tentativi, vide schizzare il sangue dal polso sinistro.
Com'era strano! Usciva a spruzzi, seguendo le pulsazioni del cuore. Prima che il terrore la paralizzasse fece la stessa cosa all'altro polso. Aveva sangue sulla pancia e sulle cosce e cominciava ad imbrattarsi il sedile, il montone...
Non provava dolore, soltanto un gran calore ai polsi e un formicolio alle dita delle mani. Si distese sui due sedili anteriori e chiuse gli occhi.
Pensò a suo padre. Avrebbe mai saputo che fine aveva fatto? Tutto sommato preferiva di no; preferiva che la immaginasse lontano, fuggita da sua madre, come lui, in cerca di un futuro migliore.
Pensò al suo principe azzurro, ai bambini che aveva sempre sognato di amare, ai bambini che avrebbero avuto da lei tutto quello che lei avrebbe voluto da sua madre.
Sua madre. Povera donna. In fondo le era rimasta soltanto lei. Cosa avrebbe fatto ora? Chi avrebbe pensato a lei!
Non era in grado di determinare quanto tempo fosse passato. Il formicolio si era esteso ai piedi e alle gambe, oltre che alle braccia. Un torpore l'aveva avvolta e non fu in grado di stabilire se stesse sognando o meno, quando vide i volti impauriti di due ragazzi molto giovani guardarla da dietro al parabrezza.
L'ultima cosa che pensò, prima di addormentarsi per sempre, fu : "Proprio ora? Non potevate venire prima?"
Al funzionario di polizia che, a poca distanza dall'auto li interrogava, i ragazzi dissero che erano lì per girare le scene di un cortometraggio amatoriale. Avevano scelto la città fantasma per la drammaticità delle scene e la suggestiva atmosfera che avrebbe creato per il loro film.
Il funzionario diede un'ultima occhiata al corpo senza vita di Linda, prima che fosse coperto e portato via da un'ambulanza.

- Che modo strambo di suicidarsi! Infilarsi in una strettoia di una città abbandonata e bucarsi le vene. Doveva essere una drogata, non c'è altra spiegazione.



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