Meditazione e mantra


Nel Buddhismo coesistono varietà di pratiche e metodi talvolta anche molto diversi tra loro, tutti, comunque, aventi lo scopo comune di volere emancipare gli esseri dal loro stato di sofferenza esistenziale. Nell’apparente contraddizione di queste diversità si possono distinguere, in generale, due vie fondamentali di pratica: una è quella della meditazione e l’altra quella del mantra.

Sotto il termine "meditazione" viene raggruppata una serie di vari metodi che differiscono notevolmente da scuola a scuola e da tradizione a tradizione. Vi sono, per esempio, meditazioni che intendono portare la mente ad uno stato di calma e concentrazione, altre ad uno stato di profonda consapevolezza, capacità di osservazione o di analisi. Alcune tradizioni, come quelle tibetane o esoteriche dell’estremo oriente, a tali scopi, si servono di visualizzazioni e rituali complessi. Altre, infine, come nello zen, tendono a definirsi un non-metodo, il semplice e puro essere nella natura originale (illuminazione).

Nella tradizione Theravada, la meditazione può essere classificata in mondana e sovramondana a seconda dello scopo per cui si pratica. Nella motivazione mondana la mente rimane a livello del condizionamento della legge di causa ed effetto, mentre la pratica ha lo scopo di coltivare quella saggezza che permette di vivere con equilibrio fra gli alti e bassi della vita. La meditazione, in questo caso, è un mezzo che aiuta ad essere meno coinvolti dai problemi quotidiani e ad aprire il cuore agli avvenimenti con mente equanime e compassionevole.

Lo scopo sovramondano è invece quello più elevato, ma allo stesso tempo più impegnativo, che richiede una totale rinuncia ai comfort e alle distrazioni mondane. E’ quello che conduce alla liberazione completa dai condizionamenti ed alla realizzazione dello stato sereno, illuminato, compassionevole e incondizionato del Nirvana.

Anche la pratica del mantra, presente in tutte le tradizioni buddhiste, può essere mondana: con la grande carica interiore che genera, aiuta a sopportare meglio i problemi contingenti e a trasformarli. Ma il mantra, a differenza della pratica silenziosa di meditazione, ha anche un altro potere in più, che potremmo definire mistico e che consiste nel poter influire energeticamente sugli eventi della propria vita volgendoli ad un fine prestabilito. Recitando verbalmente un mantra si mettono in moto vibrazioni mentali sottili che interagiscono con l’universo, gli esseri viventi ed i fenomeni particolari. La mente, secondo la visione buddhista, è vuota o interdipendente, cioè, per esistere, deve dipendere da varie cause e condizioni. Sigmund Freud l’ha paragonata ad un iceberg, la cui piccola parte emersa è quella cosciente, mentre quella sommersa rappresenta l’inconscio. Le vibrazioni del suono mantrico attivano i poteri celati nel profondo di questa parte della mente umana, di cui l’individuo è ignaro, generando movimenti energetici che si manifestano nella sua vita. Per questo la pratica mantrica è conosciuta come la via dell’energia.

Nel Theravada le recitazioni in lingua pali, chiamate Paritta, hanno lo scopo di proteggere dagli incidenti, dalle negatività e di guarire dalle malattie.

Così anche nella maggior parte delle scuole Mahayana lo scopo è simile e diretto ad ottenere benefici mondani. Il mantra di Kuan Yin è invocato per soccorrere compassionevolmente coloro che si trovano in difficoltà, le donne sterili, i bambini eccetera; il mantra del Buddha della Medicina (Baisajaguru), per guarire dalle malattie; quello di Ksitigarba e molti altri mantra per soccorrere gli spiriti dei i cari defunti.

Tuttavia non tutti i mantra hanno questo scopo. Alcuni sono puramente devozionali, come quello dedicato al Buddha Amitabha, con l’intenzione di rinascere nel suo paradiso dell’ovest dopo la morte e diventare così certamente dei Buddha compassionevoli e saggi.
Altri, invece, come il mantra della Prajna Paramita, "Gate gate..." hanno lo scopo sovramondano di portare gli esseri all’altra sponda della liberazione.

Contrariamente a quanto normalmente si è portati a pensare in occidente, nel Buddhismo non sempre questi due piani sono nettamente differenziati; al contrario, si fiancheggiano continuamente sostenendosi e sostituendosi l’uno con l’altro a seconda delle situazioni e circostanze. Basti pensare alla tradizione vietnamita in cui alla severità dello zen, pratica del proprio potere, viene affiancata la devozione della Terra Pura, pratica dell’affidarsi all’altro potere; alle meno note scuole Tendai e Shingon dove le due pratiche camminano sempre di pari passo; ad alcune scuole Nichiren dove alla recitazione del Daimoku fa quasi sempre seguito una meditazione silenziosa; e nella tibetana dove gli insegnamenti tantrici comprendono pratiche mantriche, meditazioni analitiche e meditazioni intuitive come la Mahamudra e lo Dzogchen, molto simili nei contenuti a quella zen.

In generale, un monaco o praticante di qualsiasi tradizione che pratica la meditazione, può anche dedicare dei momenti alle recite mantriche per risolvere certe questioni contingenti. Viceversa un devoto che recita i mantra può occasionalmente dedicarsi alla meditazione per realizzare una condizione interiore più raccolta e distaccata. Le due pratiche, quindi, sono affiancate senza entrare in contraddizione, riflettendo il principio buddhista di non dualismo fra mondo e spirito che si traduce in frasi come: “per essere persone pienamente realizzate abbiamo bisogno del benessere sia spirituale che materiale”. I testi buddhisti affermano che le condizioni migliori dove si può praticare sono quelle dove c’è benessere sociale e materiale. Se le persone non hanno risolto i loro problemi primari è molto difficile praticare il Dharma.

Nel Mahayana tale dualismo è totalmente superato dal concetto del vuoto che afferma che tutti gli opposti sono interdipendenti, compresi il Nirvana e il Samsara . L’illuminazione non deve essere ricercata al di fuori del mondo ma vivendo in esso.

Oggi più che mai, nei comfort della società materialistica e nello stress della vita sempre più frenetica ed incerta, è importante mantenere questi due approcci integrati come un’unica pratica. Senza il bisogno di allontanarsi da tutto, cercare di trovare un equilibrio, la serenità, la sicurezza, la gioia nella vita ordinaria di tutti i giorni.

Lo zen, alla domanda cos’è l’illuminazione, risponde: la vita ordinaria è l’illuminazione.

Un aneddoto racconta di un giovane monaco venuto da lontano per apprendere il Dharma che chiede al maestro di essere istruito e riceve in risposta una domanda: “Dopo aver fatto colazione, hai lavato la tua ciotola?” Attraverso tale risposta egli si risveglia al vero significato dell’insegnamento e si libera dalle concezioni errate.


Rev. Taeri sunim





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