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VIOLENZA E RESPONSABILITA’ PERSONALE

di Giuseppe Jiso Forzani

 conferenza tenuta in occasione del Vesak 2004

Dipartimento di Studi Orientali Università di Roma La Sapienza

 

 

Per trattare il tema in modo appropriato, ritengo necessario innanzitutto inquadrare la terminologia di cui ci serviremo e definire l’ambito del discorso, pena il rischio di non sapere esattamente di cosa stiamo parlando e di rimanere nel vago mentre sembra che stiamo dicendo qualcosa di preciso su di un argomento che è estremamente concreto e necessita dunque di punti di riferimento il più chiari possibile.

“Violenza” è un termine ben presente alla tradizione buddhista fin dalle sue origini storiche. Corrisponde, con l’imprecisione insita in ogni traduzione, al termine sanscrito “himsa” il cui senso, a partire da un significato originario equivalente a “uccidere”, è poi stato ampliato a una gamma di dieci modalità che configurano i vari aspetti della “violenza” a seconda degli effetti che essa provoca: dalla privazione della vita, appunto, al far insorgere ansia o paura, al provocare sofferenza corporea, all’ostruire qualcosa che sarebbe di giovamento… Non rientra nelle mie competenze trattare il tema analizzando i testi prebuddisti o del buddismo originario che parlano della “himsa”: altri lo farà meglio di me con cognizione di causa. Quello che voglio dire è che “himsa” (che assumiamo come sinonimo di “violenza”) viene a significare “nuocere, procurare nocumento” di modo ché il suo contrario “ahimsa” (prassi tanto cara a Gandhi e concetto in voga fra alcuni dei contemporanei pacifisti) vuol dire “non nuocere”, assumere un atteggiamento e un comportamento “in-nocens” “innocente” nel senso etimologico del termine: tutto ciò che nuoce è contrario alla “ahimsa” e dunque nei nostri termini è “violenza”, violazione di qualcosa che non deve essere violato. Che cos’è che nuoce, che cos’è che non si deve violare? Nuoce tutto ciò che allontana e separa dalla Via che conduce alla liberazione dalla sofferenza, che è l’obbiettivo del buddismo; questo è il principio che non deve essere violato e violentato.

Va detto a questo punto che il concetto di violenza che noi oggi possiamo ritenere “comune” dalle nostre parti (concetto che è bene chiarire per comprendere che la violenza è una prassi e non solo un’idea) non collima con quello elaborato in India 25 e più secoli fa: non collima nella percezione che ne abbiamo noi come occidentali contemporanei (prodotti culturali di una storia che a modo suo ben conosce e ha conosciuto la violenza in tutti i suoi aspetti) ma neanche nella percezione che ne hanno i buddisti orientali contemporanei, nel caso dello Zen i buddisti zen giapponesi; perché quella definizione originaria trasmigrando (dall’India alla Cina alla Corea al Giappone) attraverso altre culture, linguaggi e caratteri, ne ha assunto almeno in parte i connotati. Per restare a quanto più direttamente ci riguarda, mi accontento della definizione di “violenza” che trovo sui nostri dizionari ed enciclopedie: noi oggi definiamo violenza un abuso della forza come mezzo di costrizione, di oppressione, per obbligare altri ad agire o a cedere contro la propria volontà: ogni forma di influenza, condizionamento e controllo delle potenzialità pratiche e intellettuali degli esseri umani (e non solo). Da non sottacere, poi, una definizione sociologica di violenza, relativa alla violenza delle istituzioni: qui non è improprio, anche se non tutti i sociologi concorderebbero appieno, assumere che ogni atto di legittimità formale (la codifica di comportamenti legittimi) si basa su un consenso collettivo a un atto di illegittimità sostanziale: infatti la logica maggioritaria (peraltro ampiamente manipolabile da minoranze) fa prevalere il peso quantitativo (ha ragione la maggioranza, essa crea la legittimità) a scapito di minoranze che non hanno più diritto a veder legittimato il loro modo di intendere: ma questo nulla ha a che fare con la fondatezza e la bontà dell’atto così legittimato. Da questo punto di vista ogni istituzione moderna basata sulla logica della maggioranza è intrinsecamente violenta. Va da sé che violenta è qualunque istituzione basata sul privilegio di casta, di nascita, di razza, di investitura sottratta a ogni controllo ecc…

 

Se vogliamo dunque parlare di qualcosa e non limitarci alla teoria dobbiamo circoscrivere il campo: in questo contesto propongo di assumere un atteggiamento che tenga conto sia del dettato “dottrinale” sia della moderna sensibilità, senza aderire pedissequamente né all’uno né all’altro. Infatti la definizione canonica può portare a concludere che tutto ciò che produce sofferenza è nocivo, cioè è violenza. Ma noi sappiamo per esperienza che certe correzioni, peraltro indubbiamente fonte di momentanea sofferenza in chi le riceve, possono produrre frutti non negativi: penso a proibizioni e castighi verso i figli e le persone la cui educazione è nostra responsabilità, o alla privazione temporanea della libertà per soggetti pericolosi a sé o agli altri ecc. Mentre la definizione “moderna” rischia di portarci a concludere che ogni interazione umana produce necessariamente violenza e non si sfugge.

Propongo dunque il seguente punto di osservazione: evitare di venire a contatto con la violenza e di operare violentemente in modo assoluto non è umanamente possibile, a questo mondo. Non rendersene conto vuol dire non vivere la realtà condizionata per quello che è: e non vivere la realtà condizionata per quello che è vuol dire non sapere dove ci si trova. Il che per un buddhista è già essere fuori dalla Via. Però, utilizzare questa constatazione per concludere che non c’è nulla da fare, e dunque limitarsi ad asserire che quando c’è violenza c’è violenza e lì bisogna stare conformandosi alla realtà del momento, riscattando la violenza cieca con la violenza a fin di bene (per esempio utilizzando la spada che dà la vita, pur uccidendo, secondo una formula utilizzata da alcuni monaci e studiosi giapponesi) è un lampante tradimento della Via di Buddha. Equivale infatti, anche se in maniera sofisticata, a ritenere che questo mondo non è emendabile, che vivere “il qui e l’ora fino in fondo” significa appiattirsi sul momento presente perché altro non c’è da fare: il che conduce a cercare di trovare la via d’uscita non nella conversione ma in una manipolazione degli elementi che compongono la realtà. Manipolazione che ha sempre qualcosa di truffaldino, e che si manifesta più che altro in giochi verbali e di specchi: per cui si arriva a chiamare vita la morte e bene assoluto il male relativo. Questo non  è l’operare buddhista, che potremmo invece descrivere nel modo seguente: proprio perché il qui e ora è tutto l’orizzonte, la trasformazione della sofferenza in non sofferenza è qui e ora che deve essere tentata e attuata, nel convertire alla Via il qui e ora che sempre si verifica.

In altre parole la fede nel buddismo è fede nel fatto che la vita (ogni vita e tutta la vita) è Via, è in cammino, va verso l’estinzione della sofferenza: compito di ognuno è instradare la realtà verso quella meta cui già è predisposta.

La trasformazione interiore momento per momento che è cammino buddhista è un tuffo nel vuoto, perché passa attraverso la chiara visione dell’assenza di entità ontologica di ogni singolo evento. Ma questo passaggio a vuoto che rigenera la realtà non va scambiato con l’autoassoluzione o l’annullamento del debito/credito: vuoto e legge di causalità non si contraddicono né si elidono l’un l’altro. Piuttosto è la porta aperta (e strettissima), il passaggio che trasforma il fatalismo idolatra verso il “qui e ora” nella fede nella possibilità di conversione dell’intera realtà in ogni suo attimo, conversione che si attua con l’assunzione della responsabilità personale e individuale a trasformare dal di dentro questo mondo di sofferenza nella via che conduce all’estinzione della sofferenza, qui e ora, ovunque e sempre.   

Guardiamo un po’ più da vicino e, fin dove è possibile, meno teoricamente. Credo si possa dire che l’approccio buddhista non è quello di cambiare il mondo, non è quello di lavorare perché un giorno, in un futuro indefinito nel tempo, ci sia un mondo di pace, di giustizia, di amore realizzato, un mondo senza più sofferenza. Un mondo senza sofferenza semplicemente non è il mondo, secondo la visione buddhista: come tale non è pensabile, non è fabbricabile. L’approccio buddhista è quello di convertire se stessi e convertendo se stessi convertire il mondo, perché non c’è dicotomia fra me e il mio mondo e non c’è separazione possibile fra il mio mondo e il mondo. Convertire significa vedere la vera natura della realtà, comprendere che tutto ciò che avviene è il risultato causato da tutto ciò che è avvenuto, e tutto ciò che avverrà è il risultato di ciò che ora avviene: e, cogliendo ogni situazione come il materiale su cui lavorare, orientarsi verso la direzione della via, cioè verso la fine della sofferenza, orientando così nella stessa direzione la situazione che si sta vivendo. Non può essere stilata una formula adatta per ogni occasione, che definisca questo modo di operare una volta per tutte: volta per volta le modalità di questo agire saranno quelle adatte alla situazione contingente. In linea di massima si può dire che si tratterà di alleggerire, di sottrarre peso, e soprattutto di non rispondere al male col male, alla violenza con violenza: se non si scioglie il nodo esso ne produce altri.

Dogen Zenji, l’ispiratore di quella tradizione che oggi chiamiamo Buddismo Zen Soto, afferma in un suo testo, Shoji- Vita e morte: “Per divenire Buddha c’è una via molto semplice: non costruire le varie forme del male, non avere il cuore che si attacca a vita e morte, approfon­disci la compassione verso tutti gli esseri viventi, rispetta chi sta sopra, senti compassione verso chi sta sotto, abbi un cuore che non detesta nessuna di tutte le cose, un cuore che non brama, senza pensieri reconditi, senza risentimenti: questo è ciò che chiamiamo Buddha”. E’ un comportamento puntuale e proiettato nel tempo: puntuale, perché si tratta di operare (pensare, parlare, agire) volta per volta, situazione per situazione. Qui non c’è possibilità di verifica: ridicolo è chi si autoproclama o accetta di farsi proclamare “illuminato”, specie se con questo intende che lui (o lei) è così giunto alla fine del compito; l’unica verifica possibile è quella dell’errore, della propria insufficienza, della devianza, seguita dalla riconversione, dal ritornare sulla Via da cui in quel momento si è deviato. Proiettato nel tempo perché è un lavoro che non ha fine così come non ha avuto inizio: temporalmente coincide con la durata del tempo, cioè è senza inizio né fine, perché un prima e un dopo il tempo non sono temporalmente definibili. Qui tutto si verifica, perché tutto va nella direzione di Buddha: questa è la sede della fede, se vogliamo usare questo termine. Qui tutto si rigenera e non c’è nulla di definitivo. I due aspetti, puntualità ed estensione non sono si escludono l’un l’altro: come due facce di un’unica medaglia: non se ne può vedere che una per volta, ma senza l’una l’altra non c’è.

Nel piccolo mondo del buddismo storicizzato, la violenza ha fatto non poche volte la sua comparsa: non credo sia questa la sede per fare un’analisi storica. Voglio solo notare una cosa, che può servire per evitare (o almeno rendere meno drammatici) futuri errori. Quanto più il buddismo (e direi ogni religione in genere) si lega a istituzioni politiche e sociali, tanto più si troverà, presto o tardi a dover usare il dettato religioso come un alibi per i propri comportamenti. Se il buddismo si lega a uno “stato” (quale che sia l’accezione in cui utilizziamo il termine) prima o poi quello stato lo condizionerà. E si troverà costretto a usare gli strumenti che ha a disposizione (la dottrina religiosa) per difendere lo stato cui si è legato. Così successe nel secolo scorso in Manciuria e in Cina quando i religiosi buddisti di ogni tradizione, Zen compreso, appoggiarono l’imperialismo militarista del governo giapponese di allora, manipolando in modo criminalmente strumentale certe affermazioni di certi testi buddisti, sfruttandone a fini irreligiosi l’ambiguità. Qui il termine ambiguità non ha alcun connotato negativo, sta solo a indicare la non univocità di significato di molte affermazioni religiose, che prendono senso se inserite in un contesto vivo.

Nel piccolissimo mondo del buddismo Zen nostrano, sembra che la violenza faccia a volte capolino nei rapporti interpersonali, e segnatamente in quel rapporto così vilipeso che si usa chiamare “maestro-discepolo”, o più generalmente “inferiore-superiore”. L’argomento non è trattabile neppure in forma succinta in questa sede, tanto delicato essendo e tanto profondo il fraintendimento che lo accompagna. Ma per il nostro tema va detto che ogni forma di sopraffazione, di dipendenza psicologica, di sfruttamento della posizione che si manifesti all’ombra del rapporto maestro-discepolo costituisce una forma di violenza basata su di un alibi privo di alcun fondamento buddhista. Qui va sottolineato il fatto che i rapporti umani sono sempre intrisi di connotazioni culturali, linguistiche, etniche (mi si passi il termine, scevro da ogni sfumatura razzista). Noi (buddisti zen) abbiamo imparato osservando rapporti umani che si sono sviluppati e hanno preso forma stabile nell’ambito della cultura cino-giapponese, utilizzando quel linguaggio, partendo da caratteristiche caratteriali proprie di quei popoli. In particolare, il rapporto inferiore/superiore, cardine della cultura confuciana, ha influenzato fin nel midollo la società giapponese, anche nei suoi aspetti religiosi, ivi comprese le modalità di rapporto all’interno dei monasteri buddisti zen, sia Rinzai che Soto. Attribuire tali modalità a matrici buddiste è un errore storico, culturale e religioso.

Abbiamo prima accennato al fatto che la responsabilità individuale consta nel buddismo nell’impegno di ciascuno a convertire se stesso, alias il mondo. Vediamo di chiarire meglio questo punto. La responsabilità individuale è la croce e la delizia di ogni buddhista. Forse non sarebbe improprio asserire che è croce e delizia di ogni essere umano, ma teniamoci al titolo su cui riflettiamo. Nel buddismo non si accenna al Creatore, non si nomina la Provvidenza, non si proietta una visione escatologica che promette una Salvezza Comune. La salvezza è faccenda di ognuno (di ogni uno): il senso di “universale” nel buddismo va compreso a partire da questo punto di partenza. “Universale” vuol dire che ogni essere è un universo, è l’universo, e che ognuno che si salva, salva l’universo intero: così Sakyamuni Buddha afferma che tutto diviene Buddha insieme a Lui. Vice versa, siccome il mondo di uno contiene tutto il mondo, così è per ciascuno: il compimento della mia salvezza implica di necessità la tua salvezza, perché così come tu sei un “tu” dentro il mio mondo, io sono per te un “tu” dentro il tuo mondo, del quale tu sei l’io. A partire da me (e altro punto di partenza non c’è) l’universalità si estrinseca in unicità e reciprocità: coprendo così tutto il tempo (tutti i tempi) e tutto lo spazio (tutti gli spazi).

Nella visione buddhista, la realtà e quello che noi in termini occidentali moderni chiamiamo responsabilità individuale coincidono. Secondo la legge della produzione reciprocamente condizionata di tutti i fenomeni, quello che sono, ora come sono, è il terminale di tutto ciò che concorre a far sì che sia così: devo assumermi la responsabilità di quello che sono. La parola ha qui il suo pieno significato etimologico: io sono nel modo in cui “rispondo” (sono respons-abile – capace di rispondere) alla realtà che mi costituisce e mi circonda. Questo è l’unico atteggiamento adulto che mi offre gli strumenti per uscire dall’impasse. Finché recrimino, cerco responsabilità “esterne”, me la prendo con la sorte, non mi ritroverò mai in quel punto che sintetizzerei con l’espressione “solo io sono io”. Questo è lo statuto costitutivo del buddhismo “Siate luce a voi stessi, prendete rifugio in voi stessi e non in altro” (Mahaparinibbanasuttanta, 2,33; Digha Nikaya, 16).

Per quanto riguarda il nostro tema, ciò equivale a dire “sono lo schiavo di me stesso”: questa è la croce che devo portare. Devo, in un certo senso, considerare come “mie scelte” anche le cose che mi capitano senza che io le abbia intenzionalmente e consapevolmente scelte. Se quindi, per fare un esempio, ricevo un ordine, nel momento in cui lo eseguo non è perché l’ho ricevuto, ma perché ho deciso di eseguirlo; e se vivo in una realtà in cui gli ordini si eseguono in quanto ordini, senza discriminare, sono io che accettando quei valori li faccio miei: non potrò dunque mai dire legittimamente “l’ho fatto perché me l’ha detto lui”. Il rovescio della medaglia è che chi dà ordini è individualmente responsabile degli ordini dati e degli effetti della loro esecuzione. Una delle cose più importanti in religione è non cercare mai alibi, men che meno negli insegnamenti religiosi stessi. Non c’è nulla dietro cui nascondersi, né istituzioni, né tonache, né dottrine: ognuno è responsabile di sé.   

 Ma se davvero realizzo che solo di me sono schiavo, che non c’è nulla e nessuno che mi tiene prigioniero, io posso anche essere il liberatore di me stesso. E questa è la delizia che quella croce nasconde: solo là dove verifico che tutte le catene che mi legano sono roba mia, c’è la possibilità di comprendere che solo io me ne posso liberare. Compresa la vera natura della legge di causa/effetto, del karma, del destino, posso vedere la natura delle catene che mi legano. E, vistala, comportarmi di conseguenza. Questo è ciò che in termini zen si chiama satori: assumersi la responsabilità della propria vita, vedere che volta per volta, momento per momento ho tutta la libertà che la situazione offre, e impegnarmi a comportarmi così per tutto il tempo della mia vita. Il parametro di questo comportamento per il buddismo zen è lo zazen, che consiste nel fare niente, nel solo stare seduti vigili e immoti. Fare niente è l’opzione possibile in qualsiasi situazione, il germe della libertà. Il seme della libertà è dato a tutti gratuitamente: citiamo ancora Dogen Zenji: “A chiunque sin dalla nascita è dato con pienezza il principio della condizione in cui la persona vive il sé originale genuinamente, però, se non passa attraverso il fare praticamente proprio zazen, quel principio non appare manifestato e se non si evidenzia nello zazen in realtà non lo si ha. (Bendowa – Il cammino religioso).

Se qui Dogen si riferisce specificatamente allo zazen, parametro della pratica religiosa, noi possiamo certo parafrasare come segue: a chiunque fin dalla nascita è dato con pienezza il principio della condizione in cui la persona vive il sé originale genuinamente, però, se non lo mette in atto in ogni comportamento, in ogni situazione della vita, quel principio non appare manifesto: e siccome la manifestazione non è altro dal principio che la informa, se non si evidenzia in realtà non sussiste. Ecco dove sta la responsabilità individuale.

Per quanto riguarda dunque il problema della violenza, si tratta di educarsi, con la pratica, con lo studio, con le frequentazioni, a discernere il comportamento adatto volta per volta. Io non posso a priori escludere che ciò possa voler dire, in un caso estremo, uccidere il tiranno, come cercò di fare Bonhofer ai tempi di Hitler. Sapendo però che uccidere è un atto violento, che comporterà conseguenze di cui mi devo far carico: se mi daranno l’ergastolo, se mi condanneranno a morte per questo, se altri soffriranno per il mio gesto, tutto questo ricadrà su di me e io devo essere pronto a pagare fino in fondo, senza recriminare: cercando là dove le conseguenze del mio gesto mi porteranno, la pratica e la testimonianza della Via.

Credo si possa dire, insomma, che il buddismo non ha una risposta al problema della violenza e della responsabilità individuale in presenza di quella: il buddismo non elabora teorie e non fornisce formule risolutorie: è piuttosto l’indicazione di un cammino, di un orientamento a cui sempre è possibile tornare tutte le volte che ci si accorge di aver deviato. Decidere come comportarsi di fronte alla violenza (sia essa dentro o fuori di me), questa è la mia responsabilità individuale volta per volta. Essere riuscito ieri non è garanzia che riuscirò domani: la vigilanza deve essere continua. La mia responsabilità individuale riposa però su una fede che la sostiene e la indirizza: da qualunque deviazione posso sempre tornare, perché qui dove sono, in un punto sperduto di un cammino infinito, è anche contemporaneamente il punto di inizio e la meta.  

 

 

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