CARO DIARIO

di Francesco Patrizi

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Il film segna una svolta importante nella filmografia di Nanni Moretti, la rinuncia all’eteronimo Michele Apicella, la rinuncia al filtro del personaggio e alla costruzione di un plot narrativo. Moretti mette in scena una sorta di cinema verità, dove il personaggio conduttore è egli stesso, regista e attore.

Caro Diario, come già si può intuire dal titolo, mostra Nanni Moretti “al lavoro”, intento ad annotare pensieri, progetti, opinioni, mentre gira per Roma, mentre va a trovare un amico e mentre si cura da una malattia (un momento rigorosamente autobiografico).

Il primo episodio si intitola In vespa ed ha come tema il girovagare di Nanni Moretti per Roma nella settimana più calda di agosto. Roma è deserta e Moretti può filmare ciò che vuole, la macchina da presa segue il regista che si muove in vespa, coglie scorci, palazzi, case.

Il girovagare è senza meta, senza plot narrativo, senza storia, senza personaggi. Sono gli “appunti” del diario morettino, le note, i primi schizzi, le intenzioni (“voglio fare un film sulle case”) e i depistaggi; per esempio, ad una tale racconta una balla “vorrei fare un musical su un pasticcere troskista…” immagine che poi prenderà corpo nel finale di Aprile come metafora dell’evasione, del disimpegno e del regresso infantile – il troskista, colui che è stato rivoluzionario, adesso fa dolciumi e balla felice e spensierato; da annotare che, in Sogni d’oro, il regista Michele si scontrava con un altro regista che aveva realizzato un musical sul sessantotto!

Moretti sta filmando, apparentemente senza metodo e senza un ordine, la scrittura in fieri del suo “nuovo” cinema.

Durante questo girovagare, il regista cerca di entrare in contatto con la realtà che lo circonda, di costruire un rapporto di interazione: cerca di avere dialogo con degli sconosciuti, si inserisce in un’orchestrina da ballo, va al cinema da solo, incontra il suo mito Jennifer Beals, visita i posti dove non è mai stato, come Spinaceto. Fa un film con le cose che ha intorno, con le cose con cui vive tutti i giorni, con i desideri, i sogni e i pensieri più quotidiani.

Possiamo dire che cerca un nuovo tipo di impegno, ben diverso da quello che impregnava Palombella Rossa; lì si ricercava la memoria storica, il senso di appartenenza ad una tradizione, ad una comunità; qui la cifra dominante è la solitudine (la minoranza a cui sente di appartenere) vissuta con caparbia autarchia; più che solitudine, potremmo definirla una condizione di isolamento (infatti l’episodio successivo si intitola proprio “Isole”). Un isolamento diverso da quello a cui erano condannati il prete di La Messa è finita e il professore di Bianca, persone che volevano aiutare il prossimo, ma che fallivano.

La ricerca che anima il primo episodio di Caro Diario è civile.

La memoria che in Palombella Rossa era perduta (e che in Aprile sarà ricerca dei luoghi “originari”, come la pineta dove veniva allattato da neonato), qui è ricerca dei luoghi conosciuti, ma dove non è mai stato, Spinaceto, ovvero l’emarginazione, i nuovi quartieri residenziali, ovvero come vivono e sono diventati quelli della sua generazione, e il posto dove è morto Pasolini, simbolo della fine della poesia civile.

Sulle note del Kohln Concert di Keith Jarrett, la macchina da presa segue per quasi sette minuti la vespa di Moretti; un piano sequenza che diventa puro movimento dello sguardo, una pura “immagine-movimento” che vaga alla ricerca di un punto fermo, di una “radice”, di un’ancora, che sarà appunto il monumento a Pasolini.

Si capisce allora che il girovagare verteva ad una meta. Da Spinaceto all’idroscalo di Ostia, il percorso della vespa racconta una generazione, un pezzo di storia del paese.

L’episodio In Vespa è propedeutico al secondo, Le Isole, dove finalmente cogliamo il regista Nanni Moretti nell’atto di raccogliere e ordinare il materiale per il nuovo film. La ricerca di pace, tranquillità, solitudine, la fuga, sono tutti elementi già presenti nel primo episodio. Se lì ha raccolto materiale, qui lo riordina e cerca di dare un senso a tutto (il materiale, vediamo, sono ritagli di giornale, notizie sottolineate…cronaca, quotidianità – Moretti lavora sulla realtà, non sulla finzione!). Innanzitutto il girovagare, questa volta da un’isola ad un’altra, acquista una “storia”, un plot narrativo, e mette in scena dei personaggi.

Che la solitudine, il rifiuto di vivere la futilità, la superficialità dei media dominanti nella società, sia una scelta impossibile e sbagliata, lo dimostra il personaggio di Gerardo, da anni impegnato a studiare Joyce, l’amico che ospita Nanni Moretti.

Il timore di Moretti è che oggi chi è culturalmente impegnato si ritrovi a vivere in un eremo incantato. Questo tipo di autarchia, che nasce da un sentimento elitario, è un’utopia lontana e nemmeno più tanto agognata.

L’episodio sembra dirci: c’è bisogno degli altri, c’è bisogno di conoscere le cose più futili, il mondo in cui si vive. Ogni isola è devastata ormai dalla modernità, dalla televisione, dai media, dalle feste mondane. La fuga dal mondo è impossibile. La ricerca di un posto incontaminato fallisce e la conclusione sembra essere l’accettazione che “per scrivere un film”, per osservare il proprio tempo, per fare cinema, non ci si può rifugiare in un’isola incantata, fuori dal mondo. Il cinema non può non essere “civile” (l’alternativa è il musical, si potrebbe aggiungere!).

Nanni Moretti, in un bar, mentre mangia una pasta, si era lasciato andare ad un balletto mentre vedeva un vecchio film con la Mangano: ecco che di nuovo torna il musical (con la pasticceria, la canzone ritmata, il ballo): è l’accattivante sogno del disimpegno e il richiamo irresistibile della “pausa” (in fondo Moretti sta facendo una realistica pausa cappuccino e una metaforica pausa dalla città, dal suo ambiente).

Il terzo episodio, Medici, racconta la vera malattia che ha colpito Nanni Moretti.

A ben guardare, l’immagine simbolica della malattia attraversa tutto il film. Nel primo episodio, Nanni Moretti è una sorta di disadattato, incapace di comunicare con gli altri, di inserirsi. Nel secondo episodio prende corpo il pericolo di isolamento, l’incomunicabilità, l’empasse. L’ultimo episodio mostra una malattia reale. I medici del titolo non riescono a capire, a comprendere, a diagnosticare i sintomi che Nanni Moretti gli descrive minuziosamente. Come nel primo episodio, Moretti non riesce a comunicare, come nel secondo, si ritrova isolato e ricorre ad un’enciclopedia medica per diagnosticarsi da solo la malattia.

Sembra un definitivo trionfo dell’autarchia intesa non come aristocratico e elitario distacco da tutti, ma come riscoperta del Sé. Su questo, Moretti fa cinema. Sul soggetto che osserva, vive, giudica, che è sempre presente.

Il film parla del processo di scrittura del cinema di Moretti, dell’ineluttabile necessità di una dimensione civile, del tenere sempre il passo con la cronaca, con i Tempi (come sarà anche per Aprile), del pericolo di chiusura su se stesso e della chiave risolutiva finale: attraverso se stessi, raccontare la realtà circostante. La malattia, momento di estrema verità, riunisce in sé l’incomunicabilità, il girovagare vuoto del primo episodio e l’isolamento, l’empasse, del secondo. Dal “circolo vizioso” si esce facendo della vita reale, della realtà tout court, la linfa vitale del cinema. Moretti non cerca di raccontare storie, ma di raccontare l’unica vera Storia.

Il suo cinema parte da un intento di finzione (“vorrei fare un film su…”) ed arriva a mostrare se stessi fino alla nuda verità.

I tre momenti in cui è suddiviso il film sono identificabili in: la città: gli appunti di lavoro - le isole: la scrittura bloccata -  la malattia: lo sblocco creativo, “vitale”.

Caro Diario ci parla di una dimensione etica del cinema.

 

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