Come molti dei capolavori pirandelliani per la scena anche "IL GIUOCO
DELLE PARTI" proviene da un canovaccio narrativo. "Quando si è capito
il giuoco", novella del 1913, fornisce, nel 1918, lo spunto per una delle
opere più taglienti, feroci, spietate dell'intera produzione dell'Autore.
E forse è proprio questa sua aspra modernità che ne decretò l'insuccesso
al suo debutto con l'interpretazione di quel grande che fu Ruggero Ruggeri.
Solo nel 1965, con la regia di Giorgio De Lullo - Romolo Valli protagonista
- l'opera fu definitivamente riscoperta e ne furono finalmente apprezzati
i caratteri del capolavoro assoluto.
Opera dunque che contiene già tutti gli elementi di quella che sarà la
poetica, il feroce umorismo e soprattutto l'intuizione filosofica ed esistenziale
dell'Autore. Per questo il nostro adattamento ha volutamente posto in
secondo piano qualsiasi riferimento alla società alto borghese del primo
900 per concentrare l'attenzione sul valore simbolico dei personaggi che
rappresentano, attraverso l'esasperazione dei loro caratteri, il cuore
della dialettica e del pensiero pirandelliani. E' del resto evidente che
anche per Pirandello la vicenda è solo un pretesto per portare in scena
il paradosso assoluto, personaggi che sono quasi maschere, dotate di una
forza arcaica che va ben al di là del teatro borghese, proiettate nella
dimensione archetipa della grande tragedia classica.
E' evidente a cominciare dai nomi dei protagonisti. Silia: nome inesistente
dal suono onomatopeico, serpentesco ma anche evocativo di divinità lunari
e notturne. Lilith, Iside, Kalì. Divinità femminili, tentatrici, generatrici
e rigeneratrici attraverso la morte, il percorso iniziatico. Il percorso
follia-morte-rinascita che nelle culture arcaiche rappresenta l'iniziazione
all'individualità, all'Uno come concetto filosofico. Leone: evidente riferimento
all'autorità ma anche a terre ignote, inesplorate. "Hic sunt leones" per
gli antichi era una sorta di bandiera bianca, di resa all'autorità della
natura selvaggia ed incomprensibile.
La scena con le sue false prospettive da teatro barocco starà ad evocare
i cunicoli oscuri di un labirinto esteso nel tempo e nello spazio eternamente
intrecciati e mai comunicanti. L'ossessivo armeggiare con attrezzi da
cucina del protagonista, il ritmico sbattere del cucchiaio, divengono
danza orgiastica, ritmo, immanenza, presagio. E maschere, o meglio marionette
nelle mani del fato saranno i protagonisti. Silia, appesa ai fili della
sua angoscia, leggera come un guscio vuoto, ma di questa vuotezza consapevole.
La sua superficialità, la sua annoiata decadenza sono in realtà le stigmate
di un nichilismo profondo che ha origini lontane, perfettamente dialettico
e speculare a quello di suo marito, Leone. E burattini, pupi sono anche
le figure di contorno, i giovinastri annoiati di una borghesia ricca e
decadente, burattini nelle mani di Silia, vere proprie estensioni del
suo corpo, estrinsecazioni dei suoi deliri erotici. "Pupi siamo….." dice
il Ciampa de "Il berretto a sonagli", e realmente Silia incarna questa
intuizione fino a farsi essa stessa burattinaia, demiurgo del meccanismo
tragico e folle che finirà per travolgerla. Guido, per contro, è la maschera
del morto, dell'inconsapevole. Suicida senza neppure sapere il perché.
Il non-nato, sorta di Omuncolus creato da Silia e Leone per attuare il
loro progetto metafisico di reciproca distruzione.
Infine Leone, maschera grottesca, con i suoi arnesi, con il suo cappello
da cuoco, trionfo delle strutture meccaniche del super-io, grottesca amplificazione
dell'Ego. Resteranno così, fissati nelle loro maschere, risucchiati dai
cunicoli oscuri dei loro privati labirinti. Si separeranno per sempre
dopo quell'attimo breve di gioco che solo il perimetro magico del palcoscenico
consente. Luogo misterioso, l'unico dove possano essere annullate ad arbitrio
le leggi che regolano l'universo, l'unico dove per un momento i labirinti
possano incontrarsi, luogo impossibile e come tale puramente virtuale,
popolato da esseri fatti "della stessa materia dei sogni". Metafora in
definitiva delle nostre esistenze, del giuoco delle parti che ogni giorno
intrecciamo con le persone e le cose nel lampo breve di questa epifania
che ci ostiniamo a chiamare realtà.
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QUASI
UNA TRILOGIA - Maggio 1999
Riflessioni su Pirandello - di Stefano Zanoli
L'incontro con Pirandello è per un attore un incontro inevitabile.
Spesso fastidioso ed ingombrante per chi coltivi in se se teatralità
primitive, archetipe, legate al mito, alla funzione ancestrale del
gesto, alla risata dionisiaca, alla assolutezza del tragico.
Così è stato per me fin dalle prime partecipazioni ad allestimenti
di cui non avvertivo la necessità e il senso. Allestimenti da teatro
borghese nei quali, unico e percettibile era il riferimento a realtà
sociologiche e culturali. In fondo niente di meno di ciò di cui si
nutre il teatro italiano. Per questo il mio primo incontro da regista
con l'autore fu assolutamente controtendenza. Non volli partire dai
luoghi comuni pirandelliani ma affrontai la materia dal suo esatto
contrario: la sua negazione. "uno , nessuno e centomila" non era teatro
e neppure, se vogliamo, romanzo. Mi affascinò il tentativo da una
parte di mettere in scena in modo antiteatrale, un testo consegnato
alla classicità, che proprio classico non è, attraverso la formula
trasgressiva dello psicodramma, negando la superiorità del narrante
e infrangendo la barriera della rappresentazione, del presepio a cui
ci ha abituati il teatro dei nostri tempi, dall'altra la evidente
necessità teatrale, necessità impossibile, concettuale, del testo
letterario.
Pirandello cominciava a diventarmi simpatico. Cominciavo ad apprezzare
quelle insoddisfazioni, quegli slanci affabulatori quella esigenza
di sorprendere che i critici chiamano coup de theatre e che è invece
l'essenza stessa del palcoscenico: stupire, sorprendere con il lazzo,
l'illusione, lo sberleffo, il ribaltamento improvviso della maschera
che cade rivelando l'inganno della realtà.
Ed ecco che il mito si insinua anche nella apparente realtà borghese
di Pirandello. Il doppio, il camuffamento, lo straniamento, il sogno
e la follia, l'evocazione di ombre, non sono forse gli strumenti di
cui si servono quelle divinità arcaiche che popolarono le origini
del racconto e del dramma, da Eschilo a Omero, da Plauto a Moliere
e che infine sono il patrimonio del comico dell'arte, che rilevando
miti e demoni dall'inconscio collettivo, li trasforma in satiri scorreggioni
e folli?
Persino Shakespeare ha bisogno nei suoi momenti più critici di un
Fool, del matto, dello zanni, per giustificare quei luoghi dello spirito
in cui la coscienza perde la sua identità di individuo per diventare
storia, per incarnare l'umanità in tutte le sue contraddizioni. Pirandello
comico dell'arte, Zanni. Cominciava a diventarmi davvero più simpatico
al di la di tutte le fumigazioni criticologiche dei vari soloni. Ben
camuffato, è evidente, per non rivelare tutti i trucchi del teatrante,
per non rivelare al mondo degli accademici il carattere popolare e
arcaico, da puparo siciliano, da cantastorie intriso di magna grecia
e di cicli cavallereschi medioevali, della visione che egli ha ben
chiara del mondo e della sua epoca. Una divinità è sempre presente
in Pirandello, una divinità estranea alla vicenda umana, primitiva,
sostituibile ed ingannevole. Una divinità talvolta scambiata da certuni con la ricerca di un superomismo che
in lui è quasi una tentazione liberatoria nelle forme più assimilabili
a un certo misticismo nietzscheano ma in realtà più prossimo al rassegnato
fatalismo degli antichi uomini della sua terra. Caos. Nome emblematico
della sua terra natale. Nome che risuonò sicuramente nella sua infanzia
e poi negli anni della sua formazione e sul quale non c'è dubbio,
dovette profondamente riflettere. Ma torniamo per un momento alle
ombre. Quelle ombre, quei fantasmi che sono il giocattolo stesso dell'autore
- medium. Quelle ombre, quei fantasmi evocati che portano lo scrittore
al di la del semplice ruolo di narratore, di inventore di storie,
che lo fanno assurgere al ruolo di sciamano, di medium, appunto, di
oracolo.
Ed eccoci tornati nel mondo arcaico del mito. I sei personaggi sono
molto di più di un espediente teatrale ai suoi tempi sconcertante
e trasgressivo. Sono il punto di arrivo di una sintesi fra realtà
e sogno - il sogno degli antichi che è premonizione, penetrazione
della verità- che inevitabilmente sfocia nell'ultimo gesto liberatorio
concesso all'uomo moderno prima della follia: il teatro. Ecco perché
la forma dello psicodramma, del dialogo con il pubblico, nella trasposizione
scenica di "Uno, nessuno, centomila" nel quale il personaggio stesso
di Moscarda, trovandosi ad interloquire con spettatori sempre diversi,
inevitabilmente si modificava ad ogni rappresentazione. Un'esperienza
d'attore davvero diversa, rischiosa imprevedibile e misteriosa ma
che ti portava di giorno in giorno sempre più nel cuore della verità
teatrale, nel nucleo incandescente del testo.
Davvero i miei Vitangelo Moscarda sono stati uno, nessuno e centomila.
E' l'attore, in definitiva, che si dissolve nel testo, non nel presonaggio,
si badi, ma nell'essenza vera del concetto di cui il personaggio non
è che una epifania momentanea, effimera: pupo, maschera, marionetta,
burattino.
Ecco perché l'uomo dal fiore in bocca ho voluto farlo essere attore,
prima che personaggio e poi, prima ancora che personaggio, autore
e spettatore. Autore nella confessione di soggezione ed impotenza
nei confronti dei suoi personaggi e attonito spettatore delle gesta
di quel dottor Fileno protagonista della novella "Tragedia di un personaggio"
con la quale introducevo le due pieces " L'uomo dal fiore in bocca"
e "La carriola". Evocazioni entrambe quelle di questi due personaggi,
vere e proprie sedute medianiche. E quanto interesse Pirandello dimostra
per questi fenomeni! Con scettico umorismo nella celebre seduta spiritica
del "fu mattia Pascal", ma per contro, con sincero stupore poetico
in pagine minori in "come di sera un geranio" o nel dialogo con la
madre. Spiriti invasati, maschere, Zanni, saltimbanchi, demoni e folli
sono i personaggi di Pirandello. Anche ne " il giuoco delle parti".
A cominciare dai nomi, i nomi dei protagonisti: Silia, Leone e Guido.
Nomi emblematici, carismatici evocativi di significati subliminali.
Silia. Nome inesistente dal suono onomatopeico, serpentesco ma anche
evocativo di divinità lunari e notturne. Lilith, Iside, Kalì. Divinità
femminili, generatrici e rigeneratrici attraverso la morte, l'annullamento,
il percorso iniziatico.
Il percorso follia- morte- rinascita che nelle culture arcaiche rappresenta
l'iniziazione all'individualità, all'Uno come concetto filosofico
ed esistenziale. Leone, evidente riferimento all'autorità, ma anche
a terre ignote, inesplorate. Hic sunt leones, per gli antichi era
una sorta di bandiera bianca, di resa alla autorità della natura selvaggia
e incomprensibile. Ma un'altra riflessione, più urgente, è quella
sulla natura del testo. Ambiguo, inquietante, provocatorio, osceno,
pornografico addirittura in certe sue immagini e proiezioni. Sensuale,
certo, che sensualmente la realtà scivola nella tragedia, questo anche,
Pirandello vuole comunicarci. Ma questa è anche la caratteristica
del melodramma, di quella mascherata, di quella commedia dell'arte
che si trasforma in musica nella nostra cultura teatrale e che dalla
musica, dal canto ridiviene drammaturgia nel novecento espressionista.
Forse non del tutto consapevolmente c'è una tensione espressionista
nel dramma, rivelata solo dall'intermittenza, dal balbettio del dialogo,
dal ritmo terzinato degli attacchi, delle sospensioni. Può apparire
complesso e fuorviante leggere il testo come una partitura in chiave
musicologica, ma in quegli anni, nel resto d'Europa si sgretolavano
imperi, certezze e, insieme a loro, i suoni rassicuranti dei valzer
viennesi come pure il patos degli ultimi romantici. Se Mahler, nelle
sue estenuanti ed irrisolte ricerche di un fulcro aveva gettato il
tarlo di un dubbio, Schoenberg nega l'esistenza di un centro, di una
tonalità. Non ancora anarchia, ma autonomia dei suoni, dei segni,
dei gesti, dei concetti. " Chartreuse…Anisette…Cognac?" Questo è l'incipit
del melodramma, vano, inquietante e sospeso. E ritorna nei " No! No!
No!" nei " non ti capisco…non ti capisco…non ti capisco!", In vari
momenti del dramma o, per meglio dire, della tragedia, perché è evidente
che forze assolute e predestinate muovono gli atti dei protagonisti.
Melodramma dunque ma non " melodrammatico". Partitura di azioni senza
finalità, di eventi di cui non si comprende il senso perché un senso
non hanno, di personaggi sigillati nel loro destino, nella loro cieca
corsa all'annullamento. Parlare di un allestimento che non è ancora
andato in scena è un po' come raccontare la trama di un romanzo non
scritto perché il teatro, è evidente, si incarna solo e unicamente
nella fisicità, nella unicità dei suoi interpreti, posso tuttavia
individuare alcuni elementi che saranno di guida per la mia regia.
La scena con le sue false prospettive da teatro barocco starà ad evocare
i cunicoli oscuri di un labirinto esteso nel tempo e nello spazio
eternamente intrecciati e mai comunicanti. I suoni, i rumori che si
faranno musica. L'ossessivo armeggiare con attrezzi da cucina del
protagonista, il ritmico sbattere del cucchiaio, divengono danza orgiastica,
ritmo, immanenza, presagio. E maschere, o meglio marionette nelle
mani del fato, saranno i protagonisti. Silia, appesa ai fili della
sua angoscia, leggera come un guscio vuoto, ma di questa vuotezza
consapevole.
La sua superficialità, la sua annoiata decadenza sono in realta le
stigmate di un nihilismo profondo che ha origini lontane, perfettamente
dialettico e speculare a quello di suo marito, Leone. Marionetta consapevole,
dunque, del fatto che non sono categorie dello spirito quelle che
la sorreggono ma solamente fili tenuti da un burattinaio cinico e
folle. E burattini, pupi, sono anche le figure di contorno, i giovinastri
annoiati di una borghesia ricca e decadente, burattini nelle mani
di Silia, vere e proprie estensioni del suo corpo, estrinsecazioni
dei suoi deliri erotici. " Pupi siamo…" dice il Ciampa de " Il berretto
a sonagli", e realmente Silia incarna questa intuizione, fino a farsi
essa stessa burattinaia, a inventarsi il ruolo di demiurgo del meccanismo
tragico e folle che finirà per travolgerla. Guido, per contro è la
maschera del morto, dell'inconsapevole. Suicida senza neppure sapere
il perché. Il non nato perché impossibile mostruosità, sorta di Omuncolus
creato da Silia e Leone per poter attuare il loro progetto metafisico
di reciproca distruzione. Infine Leone, maschera grottesca, con i
suoi arnesi, con il suo cappello da cuoco, trionfo delle strutture
meccaniche del super-io, grottesca amplificazione dell'Ego.
Resteranno così, fissati nelle loro maschere, risucchiati dai cunicoli
oscuri dei loro privati labirinti. Si separeranno per sempre dopo
quell'attimo breve di gioco che solo il perimetro magico del palcoscenico
consente. Luogo misterioso, l'unico dove possano essere annullate
ad arbitrio le leggi che regolano l'universo, l'unico dove per un
momento i labirinti possano incontrarsi, luogo impossibile e come
tale puramente virtuale, popolato da esseri fatti " della stessa materia
dei sogni". Metafora, in definitiva, delle nostre stesse esistenze,
del giuoco delle parti che ogni giorno intrecciamo con le persone
e le cose nel lampo breve di questa epifania che ci ostiniamo a chiamare
realtà. |
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