Lo zen (da U.Eco, Opera aperta)

I risultati di un’applicazione dei principi di comportamento dello Zen nell’arte sono stati anticipati dal neodadaismo. I dialoghi di Beckett e di Ionesco sono inbevuti di assurdo come fossero derivati dallo Zen. Il successo dello Zen in occidente sarebbe quindi dovuto al fatto che
"attacca un mondo con gli stessi schemi illogici cui lo sta abituando una letteratura della crisi e lo avverte che proprio nel fondo degli schemi illogici, nella loro piena assunzione, sta la soluzione della crisi, la pace."

Nella filosofia di Wittgenstein vi si ritrovano elementi simili allo Zen anche se non derivati da esso.
  "Vi è in Wittgenstein la rinuncia alla filosofia come spiegazione totale del mondo. C’è una primalità conferita al fatto atomico .. in quanto irrelato, il rifiuto della filosofia come posizione di relazioni generali tra questi fatti e la sua riduzione a pura metodologia di una descrizione corretta di essi... Una proposizione [linguistica] riproduce la realtà come una sua particolare proiezione, ma nulla può essere detto circa l’accordo tra i due piani: esso può solo venire mostrato."

Lo Zen ha affascinato l’occidente perché interpreta la crisi di fronte alla complessità del mondo, alla difficoltà di dare spiegazioni causali dei fatti. Tuttavia lo spirito occidentale non rinuncia a questa necessità. 
"Se lo Zen gli ha riconfermato con la sua voce antichissima che l’ordine eterno del mondo consiste nel suo fecondo disordine e che ogni tentativo di sistemare la vita in leggi unidirezionali è un modo di perdere il vero senso delle cose, l’uomo occidentale accetterà criticamente di riconoscere la relatività delle leggi, ma le reintrodurrà nella dialettica della conoscenza e dell’azione sotto forma di ipotesi di lavoro. ... L’Occidente, anche quando accetta con gioia il mutevole e rifiuta le leggi causali che lo immobilizzano, non rinuncia tuttavia a ridefinirlo attraverso le leggi provvisorie della probabilità e della statistica perché.. l’ordine e l’intelligenza che distingue sono la sua vocazione."

L’avanguardia nell’arte moderna più che un’applicazione di una visione Zen del mondo - una visione senza logica, che mette assieme fatti o segni o suoni separati uno dall’altro - sembra invece rispondere ad un altro bisogno. L’avanguardia rifiuta il linguaggio (poetico, pittorico, musicale) classico perché questo linguaggio si identifica con un mondo passato, toglie libertà all’artista di descrivere il mondo d’oggi, lo costringe entro vincoli che distorcono la rappresentazione. Ad es., la rima nella poesia pone vincoli che per superarli può portare l’artista vero a invenzioni poetiche. Tuttavia essa tende a portare l’ascoltatore ad attese - legando una parola con quelle che devono ad essa far rima - che si sono standardizzate, canonizzate in sentimenti non più necessariamente rispondenti alla sensibilità ed all’esperienza moderna (cuore deve sempre fa rima con amore e dolore).
Così nella musica la tonalità porta a descriver un mondo in cui le crisi vengono sempre superate e si ritorna all’ordine. 
"Sono note le interpretazioni della musica tonale come un sistema in cui, posta la tonalità di partenza, tutta la composizione si presenta come un sistema di dilazioni e di crisi appositamente provocate al solo fine di poter ristabilire, con la riconferma finale della tonica, una situazione di armonia e di pace, tanto più goduta quanto più la crisi è stata protratta ed articolata. Ed è noto che si è individuato in questa consuetudine formativa il prodotto tipico di una società basata sul rispetto di un ordine immutabile delle cose.." Cose analoghe capitano nella commedia o nella tragedia. La crisi alla fine è sempre superata, magari da un deus-ex-machina.

Il rifiuto del sistema tonale per il musicista moderno è una reazione alla convenzionalità che lo costringe a rappresentare una visione del mondo, una morale, un’etica sociale che non sente più adatte a rappresentare il mondo d’oggi. 
"Se nella pittura informale come nella poesia, nel cinema come nel teatro osserviamo l’affermarsi di opere aperte, dalla struttura ambigua, sottoposta a una indeterminazione degli esiti, questo avviene perché le forme, in questo modo, adeguano tutta una visione dell’universo fisico e dei rapporti psicologici proposta dalle discipline scientifiche contemporanee, e avverte di non poter parlare di questo mondo nei termini formali coi quali si poteva definire il Cosmo Ordinato che non è più il nostro."

L’artista dunque sarebbe costretto ad inventare nuove strutture formali adatte alla nuova situazione e che ne diventino ‘modello’ cioè che da esse si possa modellare le situazioni particolari che l’artista vuole descrivere. La cosa non è facile e probabilmente il nostro è un periodo di transizione. La impossibilità di usare un linguaggio non adatto a descrivere il nostro mondo è esemplificata da Eco paragonando il modo di descrivere una società di primitivi da parte di un viaggiatore e di un antropologo. 
"Da un lato abbiamo la posizione aristocratica del viaggiatore di vecchio stampo che passa tra popoli ‘selvaggi’ senza capirli e tentando di conseguenza di ‘civilizzarli’ e cioè di ‘colonizzarli’; dall’altro abbiamo la scepsi relativistica di una certa antropologia ... per cui, accettando ogni modello di cultura come una entità auoesplicantesi e autogiustificantesi, provvede una collezione di medaglioni descrittivi in base ai quali l’uomo impegnato nell’attuazione di rapporti concreti non potrà mai risolvere il problema dei ‘contatti di culture’."

Non è facile per l’antropologo superare la crisi dello stadio puramente descrittivo. Così è anche per l’avanguardia artistica che deve sviluppare un linguaggio adatto alla descrizione di un mondo che si sente diverso da quello passato con il quale erano in equilibro i linguaggi ‘classici’.