Seconda lettera a Lino sul mito e la scienza

martedì 8 aprile 1997

Caro Lino,

    sono preso dall’idea che la società umana si avvii verso uno strano destino tenendo conto: a) della crescente incapacità di comprendere la scienza sempre più complicata e complessa e b) del fatto che il mondo artificiale ci diventa sempre più res incognita (a poco a poco abituandoci a nemmeno chiederci più cosa siano gli oggetti e come funzionano). 

Qualche anno fa’ mi colpì un libro di Valentino Breitenberg. Parlava di come la descrizione del comportamento di robot che avessero capacità di movimento nello spazio legate a reazioni anche semplici alle caratteristiche ambientali (tipo sentire la temperatura e di conseguenza allontanarsi od avvicinarsi ad una sorgente di calore) diventi subito così complessa che l’unico modo di descrivere il comportamento di questi robot sia di usare espressioni come odio, amore, rabbia, paura. Pur sapendo che sono oggetti semplici, che l’uomo ha disegnato e costruito, il modo più efficace per raffigurare il loro stato futuro - del tutto predicibile perché governato da ‘equazioni’ note e semplici - sia simile a quello dell’uomo primitivo di fronte ad oggetti naturali vivi od inanimati. In altre parole dobbiamo ricorrere alla metafora animista per descrivere il comportamento del robot. Quel film di Sordi che descriveva i rapporti con Caterina - il robot cameriera che si innamora del padrone e diventa geloso - non era poi tanto inverosimile.

L’utilizzare metafore per descrivere un universo artificiale che ci è comunque noto (e predicibile, magari attraverso complicati sistemi di simulazione matematica) può a prima vista venire considerato come utile scorciatoia (volendo, potremmo sempre definire in dettaglio il comportamento e darne le spiegazioni). Tuttavia non è detto che il modello descrittivo ‘matematico’ sia derivato analiticamente costruendo pezzo per pezzo dal basso la simulazione. Basta pensare ai ‘sistemi esperti’ che utilizzano connessioni tipo neuronico che non sapremmo in nessun modo analizzare. Il nostro potere è di scrivere l’algoritmo che poi per suo conto diventerà un sistema di connessione tra i ‘neuroni’ in grado di simulare e di predire. Il robot che si muove intorno dotato di un certo numero di sensori e di un modello vergine di algoritmo neuronale da costruire con l’accumularsi della sua sperimentazione dell’ambiente non è riproducibile se non come algoritmo iniziale. Tanti robot ‘cloni’, in realtà costruiranno modelli neuronali diversi per via della differente sperimentazione che saranno inevitabilmente costretti a fare (per poco che l’ambiente sia complicato). Temo che in quel caso la metafora animistica sarà l’unico modo per descrivere il comportamento dell’oggetto artificiale ‘robot animato’.

Prima conclusione: l’uomo si avvia ad essere l’artefice di oggetti che è solo capace di creare, ma di cui non è capace di predire che cosa diverranno o faranno. Credo che la stessa cosa sia avvenuta al Padreterno. Ha dato avvio ad un mondo di cui ha definito regole e leggi e poi lo ha lasciato andare per conto suo.

Questa prima conclusione riguarda l’uso della conoscenza scientifica per costruire un mondo artificiale. Alla lunga questo mondo ci diventa esogeno come se non l’avessimo costruito noi, un pò come ci è esogeno il mondo naturale. Il problema generale della conoscenza si rivolgerebbe quindi nel futuro non solo al mondo naturale, ma anche a quello artificiale, senza più distinzione tra i due.

Fin qui si potrebbe pensare che questo scenario (un mondo degli oggetti che ci sfugge di mano e ci diventa ignoto) valga per il fare ma non per il conoscere. Rispetto alla conoscenza l’uomo progredisce continuamente, nel senso che le sue conoscenze si ampliano, ma lui ne è sempre totalmente padrone. Il patrimonio di conoscenza scientifica cresce, ma è sempre a sua completa disposizione. Il singolo individuò potrà attingerci o meno, ma potenzialmente lo può sempre fare. Nel campo di indagine potremmo dover aggiungere, come si diceva sopra, via via anche gli oggetti artificiali complessi, oggetto di conoscenza a posteriori (dopo cioè fatti). Questo tuttavia non cambia l’ipotesi che via via la frontiera delle conoscenze si allarga. Anche qui, tuttavia, sorge fondato il dubbio che come per gli oggetti (pur essendo lui a costruirli) gli diventano estranei, così capiti anche nel ‘costruire conoscenza’. Lui porta dei ‘mattoni’ che aumentano il patrimonio di conoscenze. Lui questi mattoni magari li conosce, ma poi non è capace di comprendere come si legano con tutti gli altri mattoni che qualcun altro ha portato. Il patrimonio di conoscenze cresce, ma l’uomo singolo, anche il genio non è in grado di dominarlo. Può al massimo scavarci dentro per tirare fuori quelle conoscenze particolari che gli servono - magari per generare altre conoscenze - ma niente più.

Accumulando conoscenze l’uomo avrebbe generato un sistema così complesso di conoscenze che gli sfugge di mano. Sfugge di mano per lo meno al singolo individuo. Ed alla collettività di uomini? Possiamo pensare alla collettività umana come ad un ‘super organismo’ con una super intelligenza che domina l’intero patrimonio di conoscenze? Ma allora l’individuo sarebbe come un atomo od una molecola, una semplice parte di un tutto di cui ignora finalità e sviluppo, anche se vi contribuisce giocando ruolo di schiavo ubbidiente.

Per tentare di mantenere un qualche collegamento tra il ‘tutto’ (la totalità del patrimonio di conoscenze) ed il suo desiderio di capire ciò che fa, possono servire delle metafore. Dapprima saranno delle scorciatoie per spiegare al popolo gli intrichi della scienza. Poi diventano anche l’unico modo per lo scienziato per capire quello che fanno gli specialisti di altri settori. Alla fine, sarà anche l’unico modo per capire quello che fa lui stesso? Il linguaggio metaforico che sempre più si usa nella fisica moderna (vedi l’idea che le particelle ultime siano dei nastri, delle stringhe multidimensionali) è un modo sintetico per comunicare con gli altri, o è l’unica conoscenza che si può afferrare?

Se gli scienziati usano le metafore, il popolo userà i riti. Per sapere le cose basta schiacciare un bottone del computer, girare la freccia del mouse, fare click.

Mi piacerebbe descrivere questa sensazione di quanto sta avvenendo alla ‘specie umana’ (è lei il superorganismo? se sì, sarebbe un fatto positivo?) attraverso l’analisi di quanto avviene a livello del singolo individuo. Se è vero che la ontogenesi riassume la filogenesi, descrivendo quanto avviene durante la vita di alcun individui presi come tipici, si dovrebbe poter dare l’idea di quello che avverrà nella specie.

Sto pensando alla storia di alcuni tipi:
- un ingegnere elettrotecnico, partito da giovane con la progettazione di centrali idroelettriche di cui tutto era scritto nei libri di testo, per poi passare alla costruzione di centrali nucleari, di cui si sapeva quasi tutto e le conoscenze mancanti si potevano ricavare con programmi di ricerca ad hoc. Passato poi alla progettazione di motori a combustione scopre quanto sia difficile assoggettarlo ad una conoscenza scientifica completa. Infine passa con lo stesso spirito ‘positivista’ ad occuparsi di progettazione di città. E lì scopre che era una utopia pensare di dominare la complessità del sistema con l’approccio scientifico analitico;
- un fisico nucleare: da giovane pensa che non vi siano frontiere del sapere che lui non possa cavalcare. Poi è portato dal suo stesso successo a diventare un gestore di complessi progetti di ricerca, e via via scopre che l’unico modo con cui riesce a star dietro alle ricerche che lui stesso dirige è attraverso l’uso di metafore che gli specialisti gli offrono. Alla fine della sua vita scopre che grazie agli sforzi di metaforizzazione (oltre a conoscere niente di tutto) è arrivato al punto che non si ricorda neanche più come si fa a risolvere un’equazione di secondo grado;
- un tecnico radio: da giovane sa tutto sui circuiti radio (eterodina, ecc.). E’ un ottimo aggiustatore di apparecchi radio. Poi lo diventa anche per i primi televisori. Con lo sviluppo della tecnologia dei transistor diventa un conoscitore a blocchi (quando si rompe qualcosa si cambia la scheda, il circuito stampato). Passato ai computer ed alla tecnologia dell’integrazione, mantiene il suo vantaggio di aggiustatore provetto (anzi di hardwarista come si dice oggi) rispetto ai suoi clienti, semplicemente per la sua capacità di inserire le schede dai mille piedini senza romperli;
- altri tipi... un ricercatore superspecialista di successo che sa tutto di niente?

Se si riuscisse ad imbastire un discorso in cui si intrecciano gli sviluppi di carriera e vita di questi diversi tipi si riuscirebbe poi a dare chiara l’idea che è una metafora di quanto sta avvenendo all’umanità intera?

Il seguito alla prossima puntata.

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