Lettera ad un amico

Torino, 20ottobre 1986

Caro Paolo,

    Sono rimasto commosso per la Tua lettera. Finalmente qualcuno che ha letto e reagisce. Fino ad ora ho provato una strana sensazione dalla mancanza di reazioni specifiche da parte di coloro ai quali avevo chiesto un parere. Si finisce per convincersi che non si è pi capaci di giudicare il proprio lavoro. Cerco ora di rispondere alle Tue osservazioni.

Devo prima fare una premessa. Mi è sempre piaciuto la speculazione generale pur non essendo un filosofo. Tuttavia in questo caso sono partito con un obiettivo molto limitato: quello di dare delle risposte ad una esperienza di lavoro che poteva anche essere interpretata come un fallimento, come una fuga in avanti. Nel campo nucleare per ragioni intrinseche al settore, nell'automobile - settore molto terra terra - per l'approccio che gli avevo dato io (auto del futuro, ecc.).
Sotto sotto speravo di avere conferma che non ero io in disaccordo con la realtà, ma gli altri in ritardo con i tempi che stanno arrivando, o che sono già qua.

Più volte nel testo dico che la mia non è una verità, ma solo un modello di riferimento a fini puramente euristici per aiutare ad inquadrare certi fatti. In realtà io stesso sono piuttosto preoccupato, perché il modello di riferimento è molto "invadente" e rischia di diventare una ideologia.
Alcune delle Tue reazioni me lo confermano: sarebbe la mia una specie di ideologia tecnologica, magari camuffata grazie alla ricerca di consensi in compagni di strada poco accusabili di tecnologismo, come ad esempio il Fritjof Capra
E' così che mi sono posto delle domande filosofiche: che ne è del libero arbitrio; fino a che punto il mio non sia una rivisitazione di Spencer o di Teillhard de Chardin.

Il modello tuttavia è là con tutta la forza della sua stessa capacità di presentare una chiave di lettura quasi universale. Il mio tentativo è stato di definirlo meglio, e poi di usare la forza della sua logica interna per dedurne analisi e sintesi. Se le conseguenze del ragionamento Ti turbano, allora va ridiscusso il modello alla radice. Tuttavia non so se sono d'accordo con Te sulla divergenza tra le conseguenze del modello e le esigenze da Te elencate.

Cominciamo dal discorso della "non separabilità tra tecnologia e le altre componenti del sistema sociale". Il modello assume che vi sia interazione di tutto con tutto. Tuttavia questa interazione avviene attraverso delle deleghe ai vari sottosistemi, durante i periodi di espansione a struttura fissa del sistema. Le deleghe vengono invece tolte, e tutto interagisce strettamente di nuovo con tutto, nei momenti di crisi e di cambiamento di struttura del sistema. Vi sono momenti in cui uno dei sottosistemi ha una certa leadership sugli altri tale da caratterizzare il periodo particolare. Negli ultimi decenni la scienza e la tecnologia sembrano avere avuto detta leadership.

Tuttavia io sono del parere che stiamo vivendo un momento di transizione, in cui si rimescola di nuovo tutto. Sono quindi d'accordo con Te che in questo momento è storicamente giusto mettere l'accento sul sociale, sull'ecologia, ecc. Tuttavia senza dimenticare che - sempre cercando di bene interpretare il modello - nei momenti di transizione si deve tener conto degli "impacchettamenti" che il sistema ha già fatto: è difficile pensare di aprire tutti i pacchetti e ricominciare da zero. In particolare non dobbiamo dimenticare che per cambiare un sistema complesso occorre seguire delle regole di progettazione che si sono evolute con il tempo e che ci permettono ora di affrontare anche la progettazione di sistemi molto complessi.

La esigenza Tua, ma anche mia, di ridiscutere le deleghe date ai tecnologhi richiede tuttavia che si impari a fare progettazione a livello più alto (il livello delle specifiche), cosa che prima nessuno faceva in modo esplicito. E'in questo campo che trova posto la "coscienza" del prodotto e la società trova un ruolo nuovo di progettazione.

Se cominciassimo veramente a dibattere il problema delle "specifiche" della città, del sistema energetico, dei trasporti, ecc., arriveremmo presto a capire che non c'è futuro se la "società" si pone solo il compito della "selezione", lasciando ad altri il compito della "creazione" di nuove proposte. Questo è proprio quello che è avvenuto fino ad ora con ruolo prevalente dell'olone tecnologico nel predisporre le soluzioni da inviare alla selezione sociale. E' andato tutto bene fino al momento che la società - preoccupata della crescente complicazione ed ingovernabilità del sistema tecnico - non ha chiuso le porte della selezione. Per uscirne, non bisogna tornare indietro (il che vorrebbe dire dare deleghe ai tecnologhi, visto che la tendenza verso la complicazione è irreversibile), ma fare emergere un altro olone a livello gerarchico più elevato: quello della progettazione sociale delle specifiche dei sistemi. E' questo olone che deve partecipare al gioco dal lato "generazione di proposte".

Con questo penso di avere risposto al Tuo primo punto: la "condanna al progresso" va affidata alle regole di tutti i sottosistemi.

Il secondo punto da Te sollevato ("non mi convince la possibilità di una separazione tra acquisizione delle conoscenze e sue applicazioni") è una critica pari pari all'intero modello. Forse va capito meglio se la successiva ristrutturazione in oloni più complessi, ognuno dei quali funziona con le regole dell'evoluzione (generazione di innovazione e selezione interna prima di passare alla selezione esterna) possa rispondere ai Tuoi dubbi.
Ti faccio l'esempio della diatriba tra "technology push" e "demands pull" per l'innovazione tecnologica. La separazione delle funzioni aziendali tra Ricerca e Marketing tende a dividere il meccanismo nei due modi: la Ricerca risponde al "technology push", mentre il Marketing reagisce alla domanda del mercato. Mi pare di avere detto che sta avvenendo qualcosa di importante in questo momento di transizione: la Ricerca deve occuparsi di più del mercato, ed il Marketing di più di tecnologia. E' lo sviluppo di "ambiguità" nell'organizzazione che non possono tuttavia essere supportate a lungo. Ne emergerà, forse, successivamente una nuova funzione (un nuovo olone) con capacità di fare quella che io chiamo "ingegneria di sintesi" che sappia mettere assieme potenzialità tecnologiche (momento creativo) e necessità derivate dai fabbisogni (momento selettivo) per "generare soluzioni" sia pure di carattere generale (specifiche).
Lo stesso mi sembra debba avvenire - o comunque occorrerebbe agire perchè ciò avvenga - per far sì che la "gioventù non si preoccupi solo di sussistenza o di tempo libero" ma anche di partecipare alla costruzione del proprio futuro. Solo che ci vuole metodo, e non mi pare che quello dei blocchi stradali o dei cancelli sia quello giusto.

Tu non riesci a "rassegnarti alla inevitabilità delle crisi o dei disastri". Qui di nuovo è il modello che va preso o rigettato. In ogni caso per un uomo di sinistra non pensare che le rivoluzioni siano salutari, mi pare peculiare. A meno che Ti disturbi il fatto di mettere in dubbio che c'è già stata l'ultima rivoluzione e che ora non ne abbiamo bisogno di altre. Ricordati che - sempre secondo il modello euristico - durante la crisi tutto reagisce con tutto. Visto che Tu consideri importante che detta interazione sia "forte", tendo a leggere il Tuo pensiero come quello di chi aspira ad una crisi continua.

Più avanti nella lettera dici che "non riesci a capire come la coscienza possa entrare nel prodotto senza forti motivazioni nel progettista". D'accordo con Te. Solo che la mia ricetta è che la società deve entrare nel ciclo di progettazione accanto al progettista (se non addirittura al di sopra) occupandosi di "progettare le specifiche". Naturalmente se la società sta al gioco della progettazione deve anche capire che occorre sperimentare per poi scegliere la soluzione più giusta. E' disposta ad accettare la sperimentazione con tutte le conseguenze anche negative? Poichè mi sembra che si sia molto lontani da ciò, credo sia bene insistere che non si risolve il problema semplicemente chiedendo al progettista di essere più "impegnato".

Il processo di auto-organizzazione non è solo scientifico. E' questo l'ultimo punto della Tua lettera. Il processo di autodeterminazione degli uomini è essenziale. D'accordo. Solo che mi sembra che estendendo il modello a tutti gli oloni della società e non solo a quelli del sottosistema tecnico, ne derivi un modo di guardare a cosa significa autodeterminazione che mi sembra assai istruttivo.

Ma di questo ne parleremo in altra occasione.

Grazie per la pubblicità che dai al mio scritto. Quello che mi interessa è raggiungere anche se faticosamente i "25 lettori" manzoniani. Tra questi certamente sarei ben felice ci fosse anche Tuo fratello che non conosco di persona.

Molto cordialmente