Nucleare: a favore del mostro

Torino, 14 gennaio 1987

Due sembrano essere le ragioni principali della condanna popolare dell'energia nucleare: 
che in caso di incidente gli effetti si fanno sentire anche a notevole distanza e permangono
per molto tempo.
Un altro parametro importante per giudicare della gravità di un incidente si riferisce al numero delle vittime. Qui tuttavia non sembra che il nucleare preoccupi più di altri casi. La caduta di un aereo, la rottura di una diga, possono produrre molte più vittime di un incidente nucleare sia pure della gravità di Chernobyl.

Se queste della non limitazione spazio-temporale in caso di incidente sono le caratteristiche principali che fanno delle centrali nucleari dei mostri da uccidere, una genia da estirpare per sempre, allora occorre essere conseguenti e più chiari.
Poiché tutti i prodotti dell'uomo hanno, chi più chi meno, possibilità di "rompersi" producendo dei danni che coinvolgono un certo spazio ed una certa durata, andrebbe precisato quale siano i limiti di estensione spaziale e di durata temporale che consideriamo accettabili.

L'incidente di Seveso ha coinvolto un area di qualche km di raggio ed il ritorno alla normalità ha richiesto alcuni anni. Poiché Seveso sembra un limite difficilmente accettabile, potremmo immaginare che una eventuale legislazione al riguardo, vincoli a produrre solo opere o macchine che in caso di incidente abbiano un impatto su un area non superiore, diciamo, ad un km di raggio, e per un tempo non superiore, ad esempio, ad un anno. 
Un progettista che volesse adeguarsi a norme di legge di questo tipo si troverebbe fortemente imbarazzato. La caduta di un aereo produce vittime che vengono piante da familiari che vivono nelle più lontane aree del mondo rispetto al luogo dell'incidente. Ma anche i faraoni avrebbero difficoltà a capire se la costruzione delle piramidi sarebbe o meno ammessa. Infatti le piramidi sono là da 5000 anni ed hanno certamente avuto un notevole impatto, per la loro stessa esistenza, sull'uomo. Chi può assicurare che detto impatto non sia stato negativo, per generazioni e generazioni, almeno per certi effetti sulla psiche umana, stimolando immaginazioni di grandeur non necessariamente sempre positive?

A parte la ricerca di paradossi, la sindrome nucleare può essere generalizzata: l'uomo sente il malessere derivante dall'essere diventato troppo grande ed ingombrante rispetto al l'ambiente in cui vive, rischiando con la sua presenza e con la sua opera di sviluppare le condizioni per la sua stessa rovina. Da qui il sorgere di un mito: quello di far di tutto per restare piccoli rispetto al proprio ecosistema. 
Qual'è il vero problema che la sindrome nasconde? Ogni specie vivente per sopravvivere deve restare in equilibrio rispetto al proprio ecosistema, rispetto alla nicchia vitale che essa si è scavata competendo e collaborando con altre specie nello sfruttamento delle risorse dell'ambiente.

Una soluzione al problema è certo quella di riuscire a restare piccoli rispetto alle risorse della propria nicchia vitale. Tuttavia questa non è la soluzione adottata dagli esseri viventi. 
Ogni specie tende a svilupparsi fino a saturare le possibilità di sfruttamento vitale del proprio ecosistema. Ci nonostante si può raggiungere un equilibrio tra produzione e consumo di risorse. E' un equilibrio dinamico, perché la presenza stessa dell'essere vivente modifica l'ambiente. Senza tralasciare il fatto che numerosissime sono le specie che modificano l'ambiente con dei manufatti. Non certo una caratteristica solo dell'uomo. Si pensi al castoro che costruisce dighe. E' tuttavia difficile, una volta raggiunta la condizione di saturazione, mantenere condizioni di equilibrio. L'uomo è sempre riuscito a spostare in là il tempo della verità ecologica allargando via via la propria nicchia vitale, fino ad arrivare ad avere l'intero pianeta come nicchia.

Nel mondo degli esseri viventi un fattore determinante per l'equilibrio nel proprio ecosistema è dato dalle reazioni delle altre specie. Si pensi ad esempio alla importanza delle catene preda-predatore (i conigli e le volpi), per mantenere l'equilibrio quantitativo rispetto alle risorse. L'uomo, rispetto ad altre specie è riuscito a liberarsi da molti dei vincoli di reazione di altre specie, almeno di quelle del mondo vivente macroscopico, se non ancora di quelle appartenenti al vivente microscopico (ad es. i virus). 
L'equilibrio lo deve trovare ora con le reazioni chimico-fisiche dell'ambiente (i cicli dell'idrogeno, dell'azoto, dell'anidride carbonica, ecc.), più che con quelle derivanti direttamente da altre specie. 
Questo equilibrio lo deve trovare grazie anche, o forse sopratutto al suo intervento diretto con manufatti ed opere sull'ambiente. E questi manufatti ed opere non potranno non essere sempre più complesse, sempre più coinvolgenti non solo le nostre capacità creative e progettuali, ma anche lo spazio ed il tempo. 

Non vi è niente di particolarmente mostruoso nella tecnologia nucleare, salvo il fatto che essa pone in maniera più drammatica la necessità di saper gestire la complessità
Fino ad ora ci siamo riusciti, in tutta la storia dell'evoluzione della tecnica, non per merito nostro particolare, ma per una specie di legge che governa l'evoluzione di tutti i sistemi complessi legati in qualche modo al mondo biologico (sistemi autopoietici). Detti sistemi sembrano essere condannati ad evolvere verso complessità crescente resa gestibile da una accresciuta intelligenza del sistema. 
La storia della tecnica mostra in effetti un cammino inarrestabile  - il cosiddetto progresso tecnico - in questa direzione. E' bensì vero che la velocità del progresso non stata uniforme nelle varie epoche storiche. Si sono anche avuto dei periodi di vero e proprio blocco del progresso tecnico. Ma li ricordiamo piuttosto come periodi di decadenza che come periodi di civiltà.

L'esame del progresso tecnico mostra anche quale sia la soluzione adottata per vincere la sfida della complessità crescente. Ogni manufatto o macchina è un sistema complesso fatto di sottosistemi e componenti. L'intelligenza crescente per vincere la sfida della complessità è sopratutto necessaria in fase progettuale. Il prodotto una volta realizzato può essere invece gestito in modo semplice. Ciò è ottenuto impacchettando le complessità tecnologiche, in scatole che non è necessario aprire per utilizzare il prodotto. Un automobile pur essendo un prodotto estremamente più complesso di una carrozza a cavallo, non richiede particolari abilità per la sua guida: la complessità è infatti inscatolata nel motore, nei sistemi di guida, ecc. E se possiamo indulgere ad immaginare l'auto del futuro, non possiamo non vederla ancora più complessa, più carica di tecnologia elettronica - ad esempio perché è capace di interagire automaticamente con il sistema di controllo del traffico - ma ancora più facile da usare (vi saranno strada attrezzate per guida completamente automatica?).

Ma questa semplificazione della complessità non la si ottiene senza sforzi, senza sperimentare la nostra intelligenza.
E' in questo quadro che va messo in prospettiva il problema del futuro delle centrali nucleari.

Può anche darsi che la strada nucleare sia sbagliata. Non sarebbe la prima volta che l'evoluzione ha imboccato vicoli ciechi. Certamente lo ha fatto più volte l'evoluzione biologica.
Tuttavia gli elementi per giudicare se una tecnologia è sbagliata o meno non sono quelli della complessità e della conseguente invadenza sia spaziale che temporale che ne deriva in caso di incidente e malfunzionamento. Abbiamo già detto che queste sono caratteristiche del progresso. Nessuno pensa di proporre al giorno d'oggi di bloccare l'estensione dell'informatica ai servizi bancari. Eppure una panne al sistema informatico borsistico mondiale, potrebbe non solo produrre notevoli danni diretti, ma anche innescare reazioni indirette difficilmente prevedibili, e certo non localizzabili entro uno spazio limitato attorno al luogo dell'incidente.

Le difficoltà dell'energia nucleare possono essere quelle tipiche della gioventù del prodotto, in cui non ancora è completato il processo di inscatolamento della complessità in sottosistemi e componenti affidabili. Un giudizio finale sulla opportunità dell'energia nucleare andrebbe invece dato sulla sua efficienza in condizioni di esercizio normale, una volta superati gli inconvenienti della gioventù. Efficienza misurata non solo in termine di costo dell'energia prodotta, ma anche per il basso inquinamento atmosferico. Se raffrontate ad altre fonti di energia, quanto vale il fatto che le centrali nucleari non producano anidride carbonica?

Non è facile dare un giudizio definitivo sulla efficienza delle centrali nucleari. Ma se si ritiene che esse abbiano potenzialità di essere più efficienti di altre fonti energetiche, allora andrebbe proseguito la sperimentazione, fidando nella nostra capacità di vincere la complessità. In ogni caso se fa paura la pericolosità della complessità nucleare, allora occorre ripensare a tutta la tecnologia. Perché non dovremmo esser capaci di risolvere soddisfacentemente il problema della affidabilità delle centrali nucleari, mentre invece dovremmo esserlo per le altre opere che ci accingiamo a sviluppare? Che cosa ci guiderà, d'ora in poi, nel scegliere se avviare o meno altre opere? La loro potenziale efficienza, il vantaggio che speriamo di derivarne, o la paura dei danni derivanti da un loro malfunzionamento (difficile in ogni caso da valutare senza prima avere realizzato e sperimentato su larga scala l'opera)?

Ma vi è una ragione che può portare a desiderare di continuare con l'esperienza nucleare, anche se abbiamo dubbi sulla sua efficienza. Ed è che l'uomo impara facendo. Ed impara facendo cose sempre più difficili. L'energia nucleare presenta un potenziale di difficoltà che è destinato a produrre molta informazione che ci servirà per meglio affrontare le altre responsabilità progettuali che abbiamo di fronte. Chi condanna le centrali nucleari è pronto magari ad accettare che le imprese spaziali vadano portate avanti, anche quando dubita della loro utilità diretta, perché producono fall out tecnologico. Lo sviluppo dell'energia nucleare ha già prodotto una enorme quantità di fall out tecnologico. Anche proprio nella direzione di aver messo in luce la necessità - e sviluppato le modalità per farvi fronte - di considerare nella progettazione non solo gli aspetti di normale funzionamento, ma anche quelli della sicurezza in caso di malfunzionamento. Si parla solo ora, per fare un esempio, di realizzare impianti chimici solo se si è svolta prima una indagine sull'impatto ambientale. Antesignano del rapporto sull'impatto ambientale è proprio l'hazard report delle centrali nucleari.

Rinunciare alle centrali nucleari può essere un colpo di fortuna se esse si riveleranno una strada non efficiente di produrre energia. Ma può essere una vittoria di Pirro anche se così fosse, se ciò significa rinunciare a capire facendo.