Corrispondenza sulla terza età

14 gennaio 2004

Mi chiamo Federica ho trent'anni e le scrivo da Roma. Stavo cercando materiale bibliografico sulla terza età, che è il tema del mio nuovo documentario (sono una filmmaker). Ho iniziato da poco a lavorarci ma ci penso da un paio d'anni.

Credo che la terza età sia un tema sociale di grande importanza, non solo per i bisogni cui è necessario cominciare a rispondere, quanto soprattutto per l'educazione che porta con sé. Ho cominciato a pensare che imparare ad invecchiare significa imparare a vivere e - come tutte le scuole davvero importanti - c'è una totale assenza di luoghi formativi.

Sto lavorando da una parte a una mappatura sia dell'immaginario collettivo (le paure legate all'invecchiamento, il disvalore, etc.) che delle scienze che si sono occupate di questo tema (la sociologia, la psicologia, la medicina, l'antropologia culturale) e dall'altro alla costruzione di una nuova figura di anziano.

Credo che questa figura ci possa portare a considerare la terza età come una fase costitutiva del nostro carattere, la fase in cui portare a compimento se stessi, una volta usciti dall'obbligo produttivo.

L'anziano che ho in testa è cosciente del suo percorso e del tempo che gli è dato per portarlo a compimento, ha una relazione con la vita coniugata al tempo presente e non vive paragonando la sua prestanza a quella di quaranta anni prima. Piuttosto, segue il corso della sua evoluzione e impara a conoscere il proprio ritmo, il proprio corpo, l'organizzazione libera della propria vita. E' un anziano che non ha smesso di appassionarsi alla vita e alla sua ricerca.

16 gennaio 2004

Cara Federica,

         quando non ero ancora anziano, mi ero posto il problema di cosa avrei fatto. Avevo inventato due cose.

Una era di aprire una libreria a Positano, con grande terrazza sul mare, poltrone comode sulla terrazza e carrelli pieni di libri per i clienti che potevano sedersi in poltrona e leggere con comodo. Da un bar vicino sarebbero arrivate bibite e caffè. L'idea non era di far soldi, ma di avviare una specie di salotto culturale immaginando che in un posto come Positano ci fossero a tutte le stagioni dei turisti un pò speciali. Paventavo, soprattutto, la solitudine.

L'altra era di aprire un centro di studi hobbistici. Avevo anche dato un nome e scritto una specifica: ICSI Istituto cooperativo di studi interdisciplinari. L'idea era che uno avesse, in realtà, sempre avuto in mente di approfondire studi in campi non legati alla propria specializzazione e che la terza età desse finalmente il tempo per dedicarvisi. Tuttavia, pensavo che non si potesse studiare da isolati, senza nessuno cui raccontare quello che fai. Così l'ICSI sarebbe stato il posto in cui ci fosse un impegno da parte di ogni partecipante a raccontare ciò che stava approfondendo e a dare ascolto a quello che gli altri stavano a loro volta approfondendo.

Ovviamente non ho fatto né una cosa né l'altra. Forse perchè troppo presto sono "andato in pensione" (56 anni). Ho dovuto quindi cercare di utilizzare le mie capacità al servizio di chi potesse averne bisogno. In altre parole fare il consulente. L'ho fatto per parecchi anni, ma poi, poco per volta perdi contatto con il presente, gli altri sentono che le tue competenze via via si affievoliscono. E così le consulenze finiscono. Naturalmente mi sono messo anche a studiare, ad approfondire. In fondo perchè non avrei dovuto riprendere gli studi di fisica giovanili? Qui l'isolamento ha avuto l'effetto negativo che avevo immaginato pensando all'ICSI. Idee me ne sono venute, ma a chi le racconto? Ecco allora che mi si affacciano tristi riflessioni: beati quelli che non passano mai alla terza età nel senso che continuano sempre ad essere all'interno di una struttura che li utilizza senza porsi il problema dell'età. Vedi gli avvocati, i liberi professionisti, o il dr. Cuccia.

I nipoti chiedevano storie. Così ho cominciato a scriverne con un certo successo (almeno nei nipoti). Penso che se avessi trovato un editore che mi avesse dato fiducia, avrei potuto trovare il modo di invecchiare continuando a fare una "professione". Ma così non è stato e quindi addio professione nuova alla terza età. A dir la verità, ancor prima di rispondere al bisogno di favole dei nipoti, avevo pensato che non sarebbe stato male diventare uno scrittore. Potevo usare le mie conoscenze di fisica per scrivere dei gialli un pò particolari (scherzi con il gatto di Schroedinger, quarta dimensione ed altro). Ho avuto risposta interessante da una sola casa editrice: mi consigliava di tornare a scrivere libri scientifici.

Insomma di cose ne ho fatte e tentate parecchie (compreso lo sviluppare un rapporto epistolare assai impegnativo con una classe di ragazzi incontrati sull'autobus!) e non è detto che sia finita. Mi sembra, a volte quasi, di vivere l'esperienza di un giovane senza arte ne parte che le inventa tutte per trovare un lavoro. Magari costruirsene uno su misura, come riescono a fare molti giovani d'oggi. Potrebbe valer la pena di fare un parallelo tra la ricerca di lavoro di un giovane e chi cerca di trovare qualcosa da fare in terza età? Qualcosa di fondamentalmente diverso però c'è. Quanti anni ho davanti? Magari ancora 10 o 20. Per fortuna non lo so, così ho la scusa che ho poco tempo davanti per combinare qualcosa di buono. E poi, c'è la salute... In ogni casi problemi che il giovane non ha.

Non so come possa interessarle la mia esperienza. In ogni caso è un'esperienza assai particolare, diciamo di chi ha nella vita coperto posizioni abbastanza importanti. Sono, più o meno, sempre stato in prima fila. Forse è per questo che il problema che mi angoscia è di fare qualcosa di utile (che mi piaccia e serva agli altri) e che magari mi faccia tornare un pò nelle prime fila. O forse no. Forse m’interessa solo che la mia vecchiaia sia creativa.

Altri, (prendiamo, per stare vicino alla mia esperienza di lavoro, dei dirigenti industriali in pensione) forse i più - magari soffrendone, magari perchè realisticamente non pensano che sia possibile e quindi manco ci provano - rinunciano a creare, si limitano a fruire di quello che c'è in giro: letture, viaggi, conferenze, università della terza età. In America si ritirano al sud, al caldo a fare ginnastica di gruppo. Felici?

A volte mi dico: beato chi ha sempre avuto un hobby. Con il tempo libero della pensione può finalmente dedicarsi al suo hobby a pieno tempo.

E la terza età delle persone con un passato più modesto, magari d’operaio alla catena di montaggio? E' poi così strano che vogliano andare in pensione più in fretta possibile?  Ma poi, cosa faranno? Se sospettassero il vuoto di solitudine che spesso accompagna il pensionamento, magari non avrebbero così fretta di uscire dalla catena di montaggio.

Non ho consigli da darle e forse lei neanche ne vuole. Un racconto sulla terza età forse dovrebbe rappresentare una varietà di casi, certamente molto diversi uno all'altro. C'è un fondo comune? Cercare la felicità o almeno la pace dell'anima assieme a quella dei sensi?

Lei pensa alla terza età come ad una fase importante (costitutiva?). Forse ha ragione. In ogni caso, con l'aumento della durata di vita, il problema si pone in modo molto diverso dal passato. O riusciamo a darle un significato o forse è meglio farla sparire (continuare a lavorare fino alla fine, magari con vacanze un pò più lunghe).

Lei dice di aver in mente un anziano cosciente di esserlo e che vuole vivere questa fase (importante?) della vita senza sensi di colpa, in pace con se stesso e con il presente, senza nostalgie passate. La mia storia - di come vivo la fase terziaria - in parte conferma la sua idea, in parte la contraddice.

 

17 gennaio 2004

Leggere la sua risposta mi ha colpita, e particolarmente nel punto in cui lei ipotizza che la ricerca di una collocazione lavorativa accomuna gli anziani ai giovani. In effetti, è un po' lo spirito del nostro lavoro, dato che, tanto per cominciare, abbiamo deciso di non intervistare soltanto anziani e professionisti nel campo della terza età ma anche giovani adulti e bambini. Il punto di partenza è, infatti, un tentativo di trovare quella interrelazione (emotiva, esistenziale, etc.) che ci lega tutti insieme e che ci permetta di riconoscere in un anziano quel percorso umano che ci contraddistingue.

Nelle interviste quindi, pensiamo di lavorare soprattutto sull'affettività, essendo questa il punto di partenza e d’arrivo della nostra vita intera.

Andando avanti nella ricerca abbiamo cominciato a capire in modo molto più preciso la profonda interrelazione che lega le diverse generazioni secondo uno svolgimento di fili tematici trasversali:

Ø l'affettività, come le dicevo,

Ø la questione dell'identità
(si passa dall'essere troppo giovani all'essere troppo vecchi: per capire, per amare, per dialogare...; oppure: la parola "anziano" sembra racchiudere uno stigma in sé, cioè riduce - nell'immaginario collettivo - una persona alla sua età... ma non è lo stesso per gli "adolescenti"?)

Ø la produttività

Questi e altri intrecci tematici mi ha portato a individuare un primo modello di riferimento che schiaccia tanto gli anziani quanto i giovani (e aggiungerei anche gli immigrati, le religioni e i diversi orientamenti sessuali): il modello unico. Cioè: c'è un modello di prestanza (fisica e intellettuale ed economica), di produttività, di identità (sessuale, psicologica, etc.) e funzionalità dal quale è esclusa la maggior parte della popolazione umana.

A proposito di quello che mi scriveva, e cioè di ciò che si augura per la sua vita attuale (parlava di essere utile e soprattutto creativo): stiamo scoprendo tutta una serie di nuove professionalità legate alla terza età che ci sembrano particolarmente interessanti. Solo per farle un esempio: ogni anno in Oregon vengono formate persone ultra cinquantacinquenni per diventare dei consulenti della terza età, per insegnare cioè ai loro coetanei un modo altro di percepire il passaggio del post-pensionamento. La cosa più interessante è che quest’esperimento ha dato i migliori risultati proprio nei soggetti che si erano prestati alla formazione. O, per dirla con il suo progetto ICSI, il confronto consapevole con altre persone che avevano le stesse esigenze e lo stesso orizzonte di riferimento ha portato alla costruzione di gruppi di studio, comunità abitative, collaborazioni e interscambi che hanno riqualificato la vita sia degli utenti che dei counsellor.

Interessante? direi che varrebbe la pena di fermarcisi a riflettere. Naturalmente in Italia tutto questo è ancora impensabile, ma, come diceva lei, è proprio l'impensato che stimola maggiormente la creatività.

Così, delineare nuove figure professionali, per i giovani come per gli anziani, significa fare un giro intorno all'esistente e aguzzare lo sguardo da diverse prospettive per costruirsi un'immagine della situazione attuale e delle istanze che porta con sé....

Vuole aiutarci in questa impresa? Possiamo ipotizzare una collaborazione inter-generazionale volta

a) alla mappatura dell'esistente

b) all'individuazione del necessario

c) alla formulazione di risposte che non partano dal modello unico di riferimento ma da un respiro più ampio che lasci correre libera la nostra creatività

19 gennaio 2004

Cara Federica,

        confesso che non avevo meditato molto sul problema. Magari lo rimugino più o meno inconsciamente. E certamente i miei sogni da anziano, se li raccontassi ad uno psichiatra, mostrerebbero chiaramente insoddisfazione di fondo. La maggior parte delle volte devo affrontare problemi impossibili, che poi risolvo chiaramente anche se, dopo il sogno, non ricordo né il problema né la soluzione. 

 Ho provato, sulla spinta del suo interesse, a pensarci un pò sistematicamente. Ecco qua.

Per capire meglio i problemi della terza età è forse opportuno introdurre anche una quarta età. La quarta età è caratterizzata dal ritirarsi in se stessi, essere convinti che non si ha più tempo per fare nulla di nuovo, non si ha voglia di impegnarsi, si ha paura del nuovo, si evita di incontrare il prossimo, si passa la giornata in attesa che arrivi la vecchia signora a dirti che è giunta l’ora.

Non sempre si passa attraverso la terza età, se si vive abbastanza a lungo. Non si sfugge, invece, alla quarta. Prendiamo una recente morte illustre: il prof. Bobbio. Immagino che non sia mai entrato nella terza età, ma nella quarta sì, se è vero che 10 anni prima della morte si è chiuso in casa, ha cominciato a riflettere sulla morte e ha scritto come voleva le proprie esequie.

Mio nonno contadino non ha visto né la terza né la quarta età. E’ morto a 78 anni. La mattina era andato a lavorare nel campo come tutti i giorni da quando era ragazzo. Tornato a casa a mangiare, si era poi assopito con la testa sul tavolo. Non si è più svegliato. E’ proprio nel vecchio mondo contadino che si può materializzare bene l’immagine della quarta età: il vecchio che ormai non riesce più a lavorare, magari per l’artrosi, sta seduto sulla sedia fuori della porta di casa che si apre nella corte della cascina in cui abita, circondato dalle grida dei bimbi che si rincorrono giocando.

La terza età è un fenomeno moderno, con la possibilità di ritirarsi dal mondo del lavoro ancora in buona salute. Ma non è detto che questo porti ad una terza età. Può portare direttamente alla quarta, e non per ragioni di salute, ma per altre ragioni (diciamo psicologiche o culturali, od altro).

Il problema della terza età si pone sopratutto per quelli che finiscono per saltarla molto prima che arrivino le buone ragioni biologiche per accettare di essere, a buon titolo, entrati nella quarta.

Tra l’altro, credo che nel passato, quando si parlava di quattro età della vita, la suddivisioni era diversa: le età erano 4 pur non includendo quella che noi ora chiamiamo terza. In una mia favola metaforica intitolata "le quattro età della vita" esse erano: infanzia, gioventù, maturità, vecchiaia. Peccato che ora non si distingua tra infanzia e gioventù (le età sarebbero allora cinque). La gioventù è una fase a se, importantissima, quella in cui ci si prepara alla maturità, si fa il proprio "viaggio di formazione", tema cui si sono dedicati tanti romanzieri. Nella mia metafora, nella età della maturità si accenna anche al problema che si possa essere buttati fuori dal mondo produttivo e creativo per ragioni di età, prima che intervengano gli effetti inabilitanti della vecchiaia (l’animale che alla sera ha tre gambe dell’indovinello della sfinge). La metafora, nel mio racconto, era data da due forge di cui una era stata una messa da parte perché vecchia. La rivincita arriverà poi, attraverso la valorizzazione dell’esperienza.

Tornando al problema della terza età, prima di tutto va riconosciuta una gran varietà di casi. Anzitutto riconosciamo che c’è chi la salta. Forse il caso non è molto interessante. Oltre al contadino (non solo quello di una volta) c’è il libero professionista. Un caso illustre è Montanelli.

Più interessante mi sembra esaminare casi limiti dove la vita e gli impegni di lavoro terminano sì bruscamente, ma piuttosto avanti negli anni. Ho in mente i professori universitari. Prima lasciavano a 75 anni, ora a 70 – 73. Si pongono il problema di come utilizzare il proprio tempo, o si considerano ormai pronti per il passaggio alla quarta età? Molti di loro possono tornare all’Istituto dove continuano ad avere una scrivania. Se hanno capacità e voglia, possono continuare a fare ricerca e, comunque, a svolgere il ruolo del vecchio saggio. Purtroppo, penso che in Italia non siano molti i casi positivi per colpa della decadenza del livello dei professori, dell’incapacità di creare scuole con allievi che poi continuano a riconoscerti come maestro.

Una tipologia più interessante è quella di professori od altri specialisti che svolgono la loro professione parte all’interno di strutture pubbliche (università, ospedali, ecc.) a tempo parziale e parte in proprio. Quando vanno "in pensione", semplicemente dedicano tutto il tempo all’attività professionale privata. Ho in mente il caso di un mio caro amico cardiologo che era direttore di ospedale. Andato in pensione, ha mantenuto l’attività nel suo studio privato. Tuttavia non si è dato da fare per aumentare la clientela preferendo godere di un po’ di tempo libero per i suoi vari interessi. A poco a poco, naturalmente, la clientela diminuisce ed il suo tempo libero aumenta. Tuttavia il fatto di continuare ad esercitare la propria professione, lo ha tenuto lontano dal porsi il problema di cosa farne del maggior tempo a disposizione. Il suo contributo "creativo" continuava a darlo e forse così la sua coscienza era a posto.
Con questa notazione vorrei sottolineare che il problema della terza età deve anzitutto porsi all’interessato. Può darsi che lui non senta né l’esigenza di fare qualcosa di utile e creativo, né si immusonisca perché non sa cosa fare del suo tempo. A volte basta fare qualcosa, sia pure poco, per evitare di porsi il problema "esistenziale". C’è qui una grossa differenza con il problema esistenziale del giovane, fortemente colorato dalla necessità di guadagnarsi di che vivere.

Osservazione tra parentesi: nell’800 quando uno era possidente, scriveva sulla carta d’identità che la sua professione era "vivere di rendita". Come mai non soffriva del complesso di "non fare niente di produttivo"?

Quello del mio amico medico rappresenta il caso di transizione dolce, una miscela tra continuazione della solita attività di lavoro e di terza età progressivamente avanzante. Immagino ciò possa valere anche per l’operaio elettricista o il tecnico idraulico che quando vanno in pensione si mettono a lavorare in proprio, magari in nero.

C’è invece chi, quando va in pensione, esce bruscamente dal mondo del lavoro e non ha né arte né parte. Da un giorno all’altro si trova fuori della solita routine quotidiana che magari aveva fatto per 40 anni. Mi pare che il caso più problematico sia quello dell’impiegato, magari statale, che magari aveva odiato il suo lavoro o lo aveva ritagliato in modo da "dormire" il più possibile durante il giorno (lamentandosi poi della noia). Immagino non solo l’impiegato burocratizzato, ma anche l’operaio che ha fatto per tutta la vita il manovale. Lavoro duro stavolta, altrettanto odiato forse, che ti ha dato solo come soddisfazione quella dello stipendio. Immagino che per costoro, sia l’impiegato che il manovale, il primo giorno di pensione sia stato un giorno d’euforia. Ma poi? Forse, le loro aspettative sul futuro sono diverse. Magari, specie se vive in un paese di campagna, l’operaio può godersi la compagnia di giocatori di tresette al bar. Oppure, se i suoi gli hanno lasciato una vecchia vigna, provare a fare un po’ il contadino. Ma il vecchio, inutile, burocrate costretto a vivere in città? Un po’ di viaggi con la moglie all’inizio, usando un po’ dei sodi della liquidazione. Ma poi?

Quindi riconosco che il problema si pone. Ma si pone in modo molto diverso da caso a caso.

Dimenticavo poi il caso delle casalinghe. Molte di loro non passano mai alla terza età. Anche quando il marito va in pensione, per loro non cambia nulla, anzi magari si aggrava la condizione di lavoro. Ma a volte non è così: i figli fuori di casa, il marito che va lui a fare la spesa. Sarebbe interessante esaminare chi frequenta i corsi della terza età, com’è formato il pubblico delle conferenze sull’arte o la musica. Ho l’impressione che la maggioranza sia femminile. Per mia diretta constatazione (che non ha valore statistico) mi sembra di cogliere nelle signore anziane maggiore voglia di imparare con lo stesso spirito del liceo, di conoscere più cose, di leggere. C’è poi il caso delle vedove. Sicuramente per loro (se non ci sono le esigenze dei nipoti vicini) si pone ancor di più il problema della solitudine, del tempo libero, il problema esistenziale.

In sintesi se la terza età è una novità del mondo moderno, abbiamo un problema nuovo che prima non c’era. Una volta si chiedeva ai bimbi: cosa farai da grande? Adesso dovremmo chiedere anche: cosa farai da anziano? Per rispondere alla prima domanda vi è il tempo della gioventù, la scuola, l’apprendistato. Cosa esiste per aiutare a rispondere alla seconda? Non che durante la sua seconda età l’interessato non si ponga la domanda. E magari fa anche dei piani. Ma spesso sono solo dei sogni, come la mia idea di aprire una libreria a Positano.

Può darsi quindi che abbiano ragione nell’Oregon a fare corsi di formazione per affrontare l’anzianità. La varietà dei casi tuttavia rende difficile il compito. La cosa più semplice, nel caso che l’anziano abbia sviluppato durante la vita di lavoro una qualche utile esperienza, è fare in modo di aiutarlo ad utilizzarla anche dopo, con compiti di "saggio", di consulente e non di produttivo. Nei casi in cui la sua esperienza sia veramente importante, si arrangia da solo. In altri casi forse andrebbe aiutato. Magari anche attraverso leggi che facilitino l’uso degli anziani nel mondo del lavoro.

Nel caso più generale, tuttavia, bisognerebbe aiutarlo a sviluppare interessi e capacità nuove. Forse la cosa più diretta è quella di fargli scoprire la possibilità di svolgere attività artigianali (magari solo come hobby). Il problema è che l’anziano, se fa qualcosa, ha bisogno che quello che fa venga riconosciuto, apprezzato. Il vero artigiano trova l’apprezzamento nella clientela che si serve del suo lavoro. Ma un artigiano per hobby? Forse il successo del volontariato, anche (o forse sopratutto) tra i giovani, mostra come spesso il riconoscimento del valore di quello che fai, vale più dei soldi. L’importanza di circondare l’anziano di affetto, come dice lei, rientra in questo bisogno di riconoscimento di quello che fa.

Sulla base delle riflessioni di cui sopra, posso fare un piccolo esame di coscienza sulla mia esperienza di anziano. La mia transizione tra attività lavorativa e terza età è stata molto graduale. Ho utilizzato le competenze per lavori di consulenza. Quando, essendosi ridotta questa possibilità, ho cercato di inventare attività nuove, ho volato troppo in alto. Ho scritto racconti e favole per diventare scrittore, mentre avrei dovuto vederlo come semplice lavoro artigianale. In quest’ultimo caso il riconoscimento sarebbe continuato ad esserci (se non altro dai nipoti e dagli amici). Ma se uno pensa che fa lo scrittore, e il riconoscimento non viene (salvo ovviamente le eccezioni), uno si demotiva e smette anche il lavoro artigianale. Se uno pensa di addentrarsi nei misteri della scienza, lo può fare per capire, da lettore attento. Se invece lo vuol fare per produrre qualcosa di nuovo, la demoralizzazione dovuta alle difficoltà, all’essere fuori del giro, arriverà presto.

 

23 gennaio 2004

Trovo che la distinzione che lei fa tra terza e quarta età sia molto importante e soprattutto ho trovato interessante il passaggio che lei ha registrato fra seconda e quarta età, come se molte persone non attraversassero affatto la terza, ma si chiudessero prematuramente dentro a un passaggio senza ritorno.  

Di cose su questo tema ne sono state dette tante, in molte forme diverse. Penso che la cosa più difficile sia non tanto appropriarsi della terza età, quanto comprendere le età e le dimensioni della vita nel momento in cui le si vive.

Così io potrei dirle che sono tanti i momenti che ho letteralmente "saltato", perchè non mi rendevo conto del fatto che il meglio possibile era esattamente quello che avevo l'opportunità di vivere in quel preciso istante, ma mi sono fatta fuorviare sempre dall'ambizione e dall'altrove, che sono amanti piuttosto insidiosi.

Le scrivo queste cose perchè rintracciavo un po' di quel sapore mancato anche nelle sue parole, nei tratti in cui accenna alle varie ambizioni che le hanno impedito quelli che potevano essere dei begli hobby, come li chiama lei, o dei bei canali espressivi, come li chiamo io.

Ma penso che fare pace con l'età significhi innanzitutto fare pace con la vita, e così mi sono messa a lavorare su questo tema indiretto, nella speranza di trovare qualcosa di buono anche per me, che in questo passaggio di tempo cerco di portare a compimento qualcosa che poi chiamerò me stessa.

Pensavo anche questo, sulla scia delle sue suggestioni, e cioè che forse invecchiare significa anche restringere il proprio campo d’azione, così che l'altrove diventa una dimensione sempre meno a portata di mano. Così, chi ha passato la vita sul doppio binario di ciò che fa e di ciò che potrebbe fare, a un certo punto si vede chiudere una delle due porte e resta condannato al qui e ora, cioè proprio a quella dimensione che aveva sempre cercato di evitare. Non so se sto parlando di una sensazione che accompagna tutti con il passare del tempo. Forse lo dico perchè quando ho compiuto trent'anni ho cominciato a pensare alla qualità della mia vita reale, e ho deciso di investire le mie energie in una ricerca di senso più che in una ricerca di fuga. Naturalmente non è semplice e a volte l'evidenza di tutto quello che manca getta un velo desolante su giornate o settimane intere. Credo che sia esattamente da qui che sia necessario passare. Almeno per me.

Come tutto questo mi possa portare ad interagire con persone anziane, con percorsi, punti di vista e orizzonti molto diversi dai miei, confesso che ancora non lo so. Guardi, lo confesso a lei perchè una certa confidenza su questa distanza immateriale è possibile prenderla, quindi le dico che ancora mi sto fortemente interrogando sul modo di condurre questa ricerca, non tanto per quanto riguarda il materiale informativo su più livelli, quanto piuttosto proprio con le persone.

 Ho lavorato per qualche mese in un centro diurno per anziani fragili, tutti oltre la soglia della quarta età, e anche in quel caso ho realizzato un documentario. Ma era un documentario commissionato da un centro, e non un'indagine sperimentale. Inoltre, l'età e le condizioni di quegli anziani impedivano una reale collaborazione, almeno sul piano progettuale. In questo caso invece, ho come la sensazione di trovarmi di fronte a un mondo, sia reale (gli ultrasessantenni) sia potenziale (l'opportunità della terza età) e non ho ancora trovato un modo per attraversarli. Inoltre gli anziani che conosco si tengono molto alla larga da tutti i discorsi che riguardano la terza età. la prima forma di discriminazione avviene infatti fra loro.

Pensi che al centro diurno si rivolgevano a noi operatori e quasi mai fra loro, come se la giovinezza in sé costituisse un punto in più...............

29 gennaio 2004

Cara Federica,

mi ha colpito l’importanza, quasi di ricerca esistenziale, che lei da al cercare di documentare una fase della vita assai lontana da quella che lei vive ora. Quasi che, comprendendone una, serva a comprendere anche le varie altri fasi in cui si intreccia la nostra esistenza.

Spinto dalle sue riflessioni mi sono chiesto da dove comincerei io se dovessi scrivere della terza età. Anzitutto il titolo: cosa farai da anziano, prima di diventare vecchio? Come figura di anziano mi va bene la mia, quella di quel giorno che a 56 anni uscivo dagli uffici con la liquidazione in tasca, in piena salute e con tante idee per la testa di cose che avrei fatto, ben lontano dal pensare che finalmente mi sarei riposato. La contrasterei con quella – che non sento ancora essere la mia malgrado i 75 anni che suoneranno nel 2004 – del signore con bastone seduto su una panchina con sguardo assente, in attesa di niente.

La figura dell’anziano è una conquista sociale abbastanza recente. Ma è poi una conquista di cui compiacersi? La pubblicità televisiva ce ne dà un’immagine di felicità. La coppia sorridente, magari con dentiera che non si muove grazie all’adesivo. Coppia felice alla conquista di lussuosi viaggi alla scoperta del globo (possibilmente in prima classe ed alberghi a 5 stelle), tutto sapientemente organizzato e tutto compreso.

In effetti, conosco abbastanza persone che dopo averli fatti per qualche anno, si ritrovano ora a citare Pietroburgo, o la Cina o le Canarie e magari il deserto dell’Arizona. Tra un mese parto: viaggio sul Nilo. E’ un po’ che desideravo andarci. Luxor, la nave sul Nilo, i templi nella roccia di Assuan. Ho trovato una bella combinazione….

Può darsi che, per chi entra nell’anzianità con buona liquidazione e buona pensione, sia una soluzione per avvicinarsi alla felice serenità della coppia televisiva della dentiera. Non ne sono proprio convinto. Forse si potrebbe cominciare chiedendo a qualcuno che l’ha fatto se lo rifarebbe, se si sente appagato, se è quello che pensava quando ha lasciato il mondo del lavoro ancora pieno di salute. Da anziano, insomma.

Ma, per i molti che al massimo si possono permettere gite da week end organizzate dal dopolavoro aziendale (non si chiama più così, ma c’è ancora. In FIAT è il Gruppo Anziani)?

Contrasterei quest’immagine dell’anziano con quella di chi riesce a saltare quest’età: avvocati, professionisti. Invidiosi forse di chi ha tempo per la vacanza esotica?

Personalmente, tenderei a dare un messaggio: attenzione a non uscire troppo presto dal mondo del lavoro. Perché lottare per non perdere il privilegio di andare in pensioni a 60 anni? E se ci andassimo a 70 o 75? Nel linguaggio attuale del sistema pensionistico si distingue tra pensione d’anzianità e di vecchiaia. Forse andrebbe eliminata la prima possibilità (o lasciata alla libera decisione, ma con trattamento penalizzante) e la seconda spostata in avanti (magari ad un’età in cui ci si possa veramente sentire "vecchi").

Pensiamo ai molti che - passati i pochi giorni dominati dal cambiamento rispetto alla routine che ha caratterizzato la fase lavorativa della propria esistenza - pagano la conquista dell’alzarsi senza obblighi di orario, con notti più insonni, che la mattina ancora ancora riescono a passare il tempo andando al mercato rionale a fare la spesa. Ma il pomeriggio? Ruolo di riempi-tempo della TV?

Prenderei come tipo l’ex impiegato statale, che si è magari annoiato per tanti anni: è certo di non rimpiangere quella routine? Non gli mancano forse le barzellette dei colleghi, i pettegolezzi sui dirigenti? Vive il pensionamento anticipato come un vero privilegio da mantenere a tutti i costi?

Forse meno problematica è la sorte di chi ha fatto l’operaio e le mani è abituato ad usarle, cui fa fatica non fare fatica. Magari i suoi gli hanno lasciato la vecchia casa di campagna e lì si può ritirare a fare un po’ il contadino.

A questa visione piuttosto critica del pensionamento in età ancora valida, fa da riscontro forse l’idea che qualcosa ci sia da fare e si possa fare per gli anziani. L’idea che essi siano una risorsa e si debba cercare di utilizzare questa risorsa sia nell’interesse dell’anziano che della società. Forse la cosa più giusta sarebbe prevedere una fase lavorativa, ma d’intensità ridotta, con compenso pure ridotto in proporzione. Non vedo, tuttavia, iniziative in atto da documentare. A parte, naturalmente, il caso dell’anziano che riesce a diventare imprenditore di se stesso, vendendo le proprie capacità e competenze a chi ne ha bisogno ed è pronto a compensarle (consulenza?). Forse ci sono casi meno banali da documentare: chi avvia una propria attività, magari aprendo un negozio di rigattiere o di restauratore.

A parte casi particolari, rimane tuttavia il problema dei molti: se sono una risorsa inutilizzata, sprecata, ci si può organizzare per utilizzarla? Qui, iniziative da documentare ce ne sono. Naturalmente si tratta di risorse da utilizzare su base di volontariato. Due miei vecchi colleghi a Torino si occupano di una associazione che per conto dell’UNIDO mette a disposizione anziani con particolare esperienza lavorativa da inviare in paesi del terzo mondo per aiutare a sviluppare iniziative produttive. L’UNIDO rimborsa solo le spese, ma è notevole la richiesta di anziani pronti a passare mesi in paesi magari del Centro Africa. Un mio amico ingegnere, ormai ottantenne, si lamenta che non lo chiamino più perché lo considerano "vecchio".

Ci sono naturalmente altre associazioni che utilizzano o potrebbero utilizzare di più il volontariato di anziani. Per le signore (ma non solo per le signore) un esempio sono le associazioni caritatevoli come la San Vincenzo. Forse c’è qui spazio non solo per documentare quello che si fa, ma per spingere l’idea che si potrebbe fare di più. Interessante sarebbe certamente sentire cosa ne pensa chi ha fatto esperienze al riguardo.

C’è una morale nella storia? Forse quella che, in realtà, rifarsi un’esistenza creativa dopo la vita lavorativa non è facile (è stato spesso difficile anche farsela per la fase lavorativa). E forse lascia l’amaro in bocca passare il tempo a guardare che tempo fa.
La conquista della modernità ci ha dato questa fase aggiuntiva all’esistenza: bisognerà aspettare che si trovi il modo di trasformarla in un’effettiva possibilità di migliore completamento della nostra parabola esistenziale.

E’ un problema di cui non si parla molto. Può quindi valer la pena di aprire una riflessione, che non si limiti a documentare le difficoltà di far quadrare i conti con la pensione ed il costo della vita che aumenta di giorno in giorno.