home

L'organizzazione dell'Università

Conferenza del Prof. Vladimiro Lamsdorff Galagane, dell'Università di Santiago

tratta da VERBO, nn. 87-88, agosto-settembre-ottobre 1970

 

Tratteremo qui, con la superficialità imposta dai limiti di tempo e di spazio, dell'organizzazione universitaria. Delle "strutture universitarie" se si preferisce, nella misura in cui questo termine significa qualcosa. Può voler dire, ad esempio, che una comunità di sforzi, come é quella universitaria, si organizza in funzione di un fine. E qualche volta, attraverso l'organizzazione, si può intravedere il fine perseguito.

La fondazione delle prime università avvenne nel Medio Evo, verso la fine del secolo XII. A causa della spontaneità del loro sorgere, nonché del loro prendere spunto dalle scuole monastiche, cariche di influenza, di prestigio e di alunni, si dovrebbe certamente parlare di "nascita" più che di "fondazione". Ma se la nascita avvenne indipendentemente dal potere politico, dal quale si esigeva il solo riconoscimento, non fu così per il loro sviluppo, posto che presto apparve un corposo diritto universitario.

Senza dubbio, vi era un ambiente di libertà; una libertà interna che le università hanno conservato gelosamente finché fu ad esse possibile. Gli studenti, che erano principalmente chierici (totalmente all'inizio), non erano soggetti - in quanto universitari - né al loro abate o vescovo, né alla polizia regia: della loro disciplina era incaricata l'università stessa. Erano, naturalmente, suddite di qualcuno: le prime università furono pontificie, mentre quelle del Re apparvero successivamente. Il che vuol dire venivano controllate dal Papa o dal Re - che erano lontani -, non già dalle autorità locali, le quali, volenti o nolenti, dovevano sopportare questa scheggia inserita nella loro zona di sovranità.

Anche nell'ambito finanziario le università avevano la loro autonomia. La formula consisteva nel destinare ad esse determinati beni della Chiesa, le cui rendite erano loro perpetuamente assegnate e che le università amministravano da sé medesime.

Non vogliamo con questo dire che non ci fosse assolutamente un controllo sulle università. C'era. Vi fu, persino, la proibizione di determinate letture. Tuttavia tale controllo era molto lontano da quello di qualsiasi odierno ministro dell'educazione: si trattava di correggere abusi, di rifinire temi, di risolvere problemi; in una parola di introdurre modifiche e migliorie in qualcosa che esisteva e funzionava, non di "strutturare" o "ristrutturare" tutto in una volta.

Non mancavano neppure le tensioni, anzi: per motivi di giurisdizione tra le università e le autorità locali, civili o ecclesiastiche; tra i Rettori, elettivi, ed i Legati pontifici o reali; tra chierici regolari e secolari, oppure all'interno dei diversi ordini, per l'assegnazione delle cattedre, ecc. Si ricorreva a giudizi, ad arbitrati, al vescovo, al re, al Papa: ma tutto ciò era una manifestazione di vita dell'istituzione, per la quale le difficoltà erano frequentemente motore di progresso.

Come si studiava?

Al mattino c'erano le letture ("lectiones"). Il termine é rimasto: sono le nostre lecciones, le lectures inglesi, le Vorlesungen tedesche. Il maestro leggeva un testo e lo commentava. Da qui nacque l'abbondante letterature medievale dei commentari, trascrizione del contenuto di tali lezioni. Il testo letto era quello di qualche autorità nella materia trattata: la Bibbia, Pietro Lombardo, Boezio, Dionigi, Aristotele, Galeno, Giustiniano; e successivamente, san Tommaso, Bartolo da Sassoferrato, Baldo degli Uboldi.

Di pomeriggio, con periodicità predeterminata, si procedeva alle disputationes. Ve ne erano di vari tipi: ordinarie, straordinarie, quodlibetales, solenni, con ordinamento variabile da un'università all'altra. Ma la loro forma generale era dialogata e verteva su qualche questione che doveva essere formulata (queritur, o controversia est): ad esempio, "se la giustizia sia virtù". La formulazione della questione poteva essere preceduta dall'esposizione dei motivi per cui doveva essere trattata (proponere causam). Tuttavia, una volta formulatala, entrambe le parti procedevano ad esporre gli autori e gli argomenti che appoggiavano le rispettive tesi, e solo alla fine, il maestro dava la solutio.

Non si può dire con esattezza in quale campo di studio nacque la tecnica delle disputationes: la praticavano teologi, filosofi, giuristi e persino medici. E' invece chiaro che la disputatio, passando forse da un primo stadio di spontaneità, giunse rapidamente ad organizzarsi, a disciplinarsi, acquisendo la stessa forma per tutte le discipline. E' sotto questa forma che la conosciamo, come parte elementare in cui sono stati divisi i grossi volumi delle Disputationes o delle Summae che sono giunte fino a noi.

Il loro schema é il seguente:

  1. Titolo della questione: "se (una tale cosa sia talaltro)... " , in forma dubitativa.
  2. Videtur quod... ("sembra che sia..."), seguito dall'elencazione (numerata) di autorità e argomenti che sostengono la tesi contraria a quella sostenuta dall'autore.
  3. Sed contra... ("ma al contrario..."), seguito dalle autorità che sostengono la tesi dell'autore.
  4. Respondeo dicendum quod... (il corpus della trattazione propriamente detto), in cui l'autore esponeva la sua opinione, con tutte le ragioni che aveva per conservarla: argomenti già branditi da autori precedenti e, in questo caso, anche propri.
  5. Alla fine, la risposta ai contro-argomenti esposti all'inizio, con lo stesso ordine: ad primum ergo dicendum quod..., ad secundum ergo dicendum quod.

Tutto ciò, già ci permette di tirare qualche conclusione: la prima, che l'aggettivo "medievale" applicato all'università, non é un tanto peggiorativo quanto sembra esserlo al giorno d'oggi. Un'ampia libertà accademica, un regime di autogestione, il dialogo istituzionalizzato tra professori e studenti, sono temi molto attuali. Ma non mancava neppure la disciplina intellettuale: non tutti gli studenti potevano dialogare, bensì solo quelli che già sapevano la grammatica e la logica. E quando lo facevano, ciò doveva essere nell'ambito del quadro formale della disputatio, adducendo autorità () e, secondo le strette regole della Dialettica di Aristotele, con tutte le sue distinzioni e sillogismi.

Con quale proposito si faceva tutto questo? Cosi si voleva trovare alla fine di questo itinerario logico e controversiale? Semplicemente, delle verità. Ci si fidava nella logica per arrivare ad esse. Ma il Medio Evo ebbe la modestia di riconoscere i nostri limiti quanto al loro possesso integrale. Da ciò l'estremo rispetto verso le fonti di studio, le autorità, ed il ricorso ad ogni genere di sottigliezze per evitare di dover denunciare che si erano sbagliate. Da ciò pure l'uso del dialogo e del frequentissimo ricorso alla "opinione più probabile".

Cercavano, abbiamo detto, delle verità. In primo luogo, quelle che più importavano: quelle che avevano riferimento alla salvezza eterna. L'università ebbe inizio dalla teologia. Il diritto e la medicina vennero dopo. Le restanti discipline (grammatica, retorica, logica), non furono che scienze accessorie, necessarie per raggiungere le prime. Non che non fossero coltivate, al contrario: non vi fu nessuna epoca, nella storia del pensiero, in cui ci si sia tanto occupati di logica formale come nel Medioevo; eccetto, forse, i nostri giorni . Ma la teologia rimase al centro, assorbendo la filosofia.

* * *

Con tutto questo, il nostro non é un quadro eccessivamente ottimista? Agli inizi del XVI secolo, Juan Luis Vives accusava questa università di fomentare l'erudizione ed il sofisma. E non si trattava di una novità. Si era caduti nel tecnicismo fine a sé stesso, nell'abuso della logica formale, nelle questioni vane o, nel caso più favorevole, nella mera ripetizione di opinioni d'altri.

In questa sede non ci compete individuare le cause di tale fenomeno, quanto piuttosto segnalare che la Scienza della Modernità ebbe inizio con un altro stile.

Essa nacque con il saggio che lavora da solo, al margine di ogni università e di istituzione di ricerca. Montaigne, Bacon, Hobbes, Locke, Descartes, Pascal, Gassendi, Spinoza, Grozio... Nessuno di loro fu propriamente un "universitario".

Diverso fu anche lo stile di lavoro. Non c'è più dialogo, bensì monologo. Scompaiono le autorità. Col pretesto di rendere più facile la lettura, si sopprimono (o si riducono al minimo) i riferimenti alle fonti utilizzate, tanto enfaticamente pretese dal coscienzioso metodo medievale. Effettivamente, si ottiene che le opere scientifiche siano più facili da leggere, ma si facilita pure che la copiatura di idee altrui possa farle spacciare per proprie. Scompare, soprattutto, la modestia: non si cercano più verità in modo affannoso, le si possiede. Nulla quanto alle probabilità: le affermazioni sono taglienti. Non ci si limita a una zona determinata di studi: lo stesso saggio si ritiene tanto competente in astronomia o matematica quanto in medicina o in filosofia, scienza a cui, tutte, applica generalmente, la sola e medesima teoria.

E' la Ragione che tenta di abbracciare il mondo. La teoria, che esce - intera e caparbia - dal cervello del saggio come Minerva da quello di Giove, dirà la verità su tutto il divino e l'umano. E la dirà tutta, senza tralasciare una briciola.

Dal XVI al XVIII secolo, la guida é, ogni volta di più, l'impero della Ragione. E, parallelamente, quello del legislatore, del despota illuminato, che si presuppone partecipi di tale Ragione e la applichi in materia di governo. Il suo unico contrappeso, curiosamente, sono i diritti umani, che vengono assolutizzati nella misura in cui si esalta la Ragione e coloro che la detengono.

Questo ebbe ripercussione nelle università. Ora vengono fondate per Decreto Reale: Göttingen, Halle, Torino. Napoleone fonda l'Università francese stando a Mosca. E il Re di Prussia fonda quella di Berlino nel 1810, dopo aver consultato i detentori della Ragione che governa il mondo, i filosofi Fichte e Schelling.

Per il potere, non si tratta di correggere, di sistemare dei dettagli concreti di un'istituzione esistente. Si tratta di crearla interamente, da cima a fondo, in un colpo solo: nei piani di studio locali, cattedrattici e statuti.

* * *

Che risultato ha dato tutto questo?

Fin da subito, la "università napoleonica", di cui si parla molto ma la si conosce male.

Venne fondata all'ombra di Rousseau e della "volonté générale", incarnata dallo Stato, dinanzi al quale devono scomparire le volontà individuali. L'unico scopo che Napoleone si prefigge di ottenere dall'università é che essa formi dei funzionari competenti per la sua burocrazia incipiente. La organizza, pertanto, come una scuola di funzionari: disciplina castrense, uniformi, orari rigidi segnalati da un suono di tromba, regola dell'internato. Programmi fissi imposti dall'alto, esami con sanzione di espulsione per il bocciato. In testa, un Grand Mâitre, nominato da Napoleone. Qualcosa di molto simile a una scuola militare, sia all'esterno che all'interno. Sbocchi professionali (ancora come per le scuole militari): il servizio allo Stato. Valore privilegiato, l'ordine. L'ordine costituito, ovviamente.

Tuttavia, un modello forse più influente é stato l'Università tedesca, il cui prototipo é quella di Berlino, fondata da Humboldt, previa consultazione con Schelling e Fichte, e previa lettura del Conflitto delle facoltà di Kant. Tutti professori universitari.

Così nacque e si organizzò, ad opera di professori, convinti che il loro lavoro fosse il più essenziale dell'universo.

Valore centrale, la scienza, Wissenschaft, e la Kultur. La Wissenshaft, per definizione, é quanto fa il professore, ed egli é la figura privilegiata. La gestione delle università é a carico delle giunte di professori; il controllo statale esiste solo per gli affari finanziari. Il corpo professorale viene reclutato per cooptazione, il che assicura a ciascuno una corte di aspiranti, peraltro servili.

Un pricipio basilare é la Lehrfreihait, la "libertà di insegnamento". Il professore spiega quel che vuole, come vuole e quando vuole. Se é docente di zoologia, può svolgere il corso spiegando esclusivamente l'elefante o la formica rossa. Oppure chiudersi a far ricerche nel suo gabinetto. O andare all'estero. Ovvero andare in vacanza.

Ovviamente, per un Professor é un disonore essere d'accordo con un altro. Ci sono tanti sistemi fisici, chimici, matematici, biologici o filosofici, quanti sono i professori di chimica, matematica, biologia e filosofia. A volte di più: un sistema filosofico può ben comprendere una parte di fisica o di astronomia. Ovviamente, non ci sono né autorità, né dispute: il Professor-Wissenshaft fa fede. L'aspirante professore, in cambio, deve essere d'accordo con tutte e ciascuna delle tesi del suo maestro. Avrà la possibilità di essere in disaccordo quando diverrà, a sua volta, professore.

In contropartita, gli studenti hanno la loro Lernfreiheit, "libertà di studio". Possono scegliere i corsi da seguire, assistere o meno alla lezione; non hanno esami né limiti di frequenza. Possono studiare o bere birra, passeggiare a cavallo o battersi alla sciabola: ma non possono intervenire nei compiti universitari, no; uno studente non fa Wissenshaft. La riceve e tace.

Quale fine persegue tutto ciò? Ricordiamo che secondo i razionalismi e gli idealismi dell'epoca, é la Ragione che porta il progresso al mondo; che Ragione é uguale a Wissenshaft, e che Wissenshaft é uguale a Professor. Questi sfrutta un'onnipotenza politica, giuridica, filosofica, sociale... Si crede non solo autorizzato, ma chiamato a trasformare l'universo mondo in virtù della sua competenza scientifica. E' convinto, per tutto il rimanente, che solo da essa verranno dei beni senza alcun miscuglio di male. E' l'idea del dispotismo illuminato, in vigore ancora oggi: tanto legittimato a trasformare il mondo si sente tanto Pietro il Grande quanto Hegel, Marx, Sartre o Marcuse.

C'è ancora un altro modello di università: quello anglosassone. Su di esso si spande l'ombra di Jeremy Bentham, che era attratto dalle scienze solo in quanto sono utili.

Ebbene, secondo questo principio si é organizzata l'università anglosassone e soprattutto americana. Un'università finanziata dai commercianti, con programmi variabili, nella logica dell'utile - inutile; dei professori comperati sulla base della loro utilità; una ricerca diretta dalla "società", il cui fine sia distribuire la maggior felicità (sotto l'aspetto di frullatori, detersivi, esplosivi e vernici) al maggior numero di persone. Tecnici e industriali appostati verso ogni scoperta teorica: quelle "inutili" vengono archiviate.

Quanto agli studenti, si pretende di dar loro alcune conoscenze che siano loro utili nello svolgimento della professione. Quindi si formano dei tecnici: gente agli ordini della società che dà loro lavoro e la cui unica finalità consiste nell'essere utile ad essa. Gente "i cui fini non vengono decisi da sé, bensì da altri": in altri termini, schiavi. I "cervelli" vengono importati dall'Europa.

* * *

E' possibile che questi tipi ideali di università, come sono stati appena descritti, non siano mai esistiti in forma pura. Comunque, oggigiorno non esistono. Vi sono delle forme miste di tutte, in cui cambia soltanto la proporzione di elementi dell'una o dell'altra. La nostra é molto tipica: é assolutamente mista. Il che vuol dire che perseguiamo un pò tutti i valori privilegiati dei diversi tipi di università; ossia nessuno in modo serio. Può darsi che sia meglio così, può darsi di no, non ci metteremo a giudicare. Quel che più importa é notare che tutti sono ora in crisi.

Intanto, l'idea medievale di avvicinarsi il più possibile alla verità lo é da molto tempo. A tal punto di fare oggi sorridere.

Quanto alla Scienza, stiamo mettendo in discussione i tanti sistemi empiristici, razionalistici, idealistici, positivistici, ecc., che si sono succeduti, senza ordine né intesa, sia nella filosofia (quella che più ha sofferto), che nelle altre scienze. Oggi non si sa soltanto che un Professor o una Wissenshaft si sbaglia, ma lo si presuppone.

Quando contempliamo certi vistosi "funghi" atomici é difficile smettere di chiedersi se la tecnica é davvero utile, e se lo é, per che cosa.

Del rispetto all'ordine costituito, meglio non parlare. Non sembra che abbiamo, in sua sostituzione, un altro valore in funzione del quale organizzare le nostre università. Forse é la novità: é il valore del "progresso" e della moda in genere. Quel che più é nuovo é migliore; quanto é antico diviene superato e, pertanto, può essere archiviato. E' la movimentolatria, che comincia già a fare la sua comparsa nell'università, anche nella nostra. E' la figura del professore che tanto teme di restare "fuori moda", al punto che le sue lezioni sono un commento alle notizie del mattino: notizia fresca, signori, grande novità. Del professore che ha un complesso di inferiorità verso i suoi alunni: siccome sono più giovani, sono anche più "nuovi". Qualunque stupidaggine pensino, siccome é più recente delle sue assennate ricerche, ha maggior valore: é il professore che va a rimorchio dei suoi alunni, che compiace i presuntuosetti e disprezza gli alunni seri.

Ma quel progressismo, per quanto sia deplorevole, é tutt'altro che inspiegabile. In fondo e alla fine, tutti agiamo per qualcosa, qualcosa che reputiamo buono, valido. Per cui, quando nell'università tutto ha smesso di essere considerato valido, si inventano altre cose da fare in essa, altri valori. In questo caso, sebbene meno "validi" dei precedenti, ma in cui comunque si crede. Ce ne deve sempre essere qualcuno.

E noi, quale proponiamo? Ebbene, preferiamo non proporne alcuno. Preferiamo non parlare di esso, bensì operare in accordo con esso. Prima pensare, seriamente, cos'è che ci prefiggiamo col lavorare nell'università. Poi, farlo. E crediamo che, in queste cose, la predicazione unita all'esempio possa essere più efficace della sola parola, che corre il rischio della magniloquenza. E' l'unica, pensiamo, che possa ottenere che il lavorare seriamente divenga di moda nell'università. E se così accadrà, le sue "strutture" si adatteranno a ciò da sé medesime. I Ministeri dell'educazione seguiranno la corrente, non manca loro l'abitudine a farlo...