Le
anime morte
(Antologia di Olgiate O.)
Del senso dello humor del povero A.S.F
(A tribute to Bertolt Brecht)
Non ho mai avuto un gran senso dello humor, lo ammetto, Ho sempre preso la vita troppo seriamente e non ho riso quando era il tempo di ridere, se mai quel tempo c'é stato. Quando gli altri si divertivano come matti, io non capivo. Li guardavo sbellicarsi dalle risa e darsi di gomito con le lacrime agli occhi, felici di esistere, e mi sembravano strani. La vita poi, ci ha stritolato tutti: chi ha riso una volta non ride ormai più, e chi non ha mai capito continua a non capire.
(20 aprile 1997)
Le anime morte
Siamo vissuti fra incubi astratti,
cullati in un mondo incompreso
dal respiro profondo.
Qualcuno ha gridato da solo,
di rabbia, d'amore, di gioia
nel buio del giorno splendente.
Di molti, né un suono né un canto
é rimasto sopeso nell'aria
a ricordo del loro passaggio.
Siamo stati sepolti o cremati,
o seccati nel sole cocente.
Se qualcuno dei vivi ci ha pianto
che sia benedetto per sempre.
Noi siamo i fantasmi del mondo,
miliardi di anime morte,
che attendono il nulla nel nulla.
(8 maggio 1997)
Il barbone (*)
Era irsuto, emaciato,
col viso consunto,
con gli occhi infossati
ardenti di febbre.
Era stanco di vagare a ritroso
nell'ombra del mondo,
come solo un barbone
può esserlo ancora.
Cercava solo un cantuccio,
magari un po' tiepido,
per dormire tranquillo una sera.
Nessuno gli tese una mano;
lo scansavano tutti con schifo,
irritati, scontrosi, irridenti,
con l'ansia nascosta nel cuore
di scordare all'istante
quel volto ingiurioso.
"Vattene! Non ti vogliamo,
reietto, barbone...
che lezzo schifoso!
Siamo gente per bene noi,
votiamo, paghiamo le tasse,
sgobbiamo anche troppo,
che vuoi?"
Insultato, scacciato, deriso,
vilipeso, ignorato, deluso,
trascinava intontito dal sonno
i suoi passi di sasso,
mentre il gelo crudele d'inverno
gli mordeva la carne indifesa,
già putrida e fredda.
Un cagnolino, piccolo piccolo,
con gli occhietti imploranti,
bastardo che più non si può,
emaciato quanto lui,
altrettanto affamato,
reietto e tignoso,
lo seguì fiducioso
per vicoli e strade,
per viuzze e cortili,
fino in fondo all'inferno,
nel luogo più sozzo,
più freddo e distante,
senza chiedere niente,
dimenando la coda contento.
Il rifugio é una cassa;
stracci sporchi marciti
e giornali fruscianti
di notizie importanti
già scordate da tutti,
il sontuoso giaciglio.
Il cane uggiolando si fece vicino
e il barbone sorrise:
"Vieni qui cagnolino,
non avere paura...
non ho niente da darti,
ma se vuoi puoi scaldarti;
non é molto, lo so,
ma noi siamo fratelli..."
Si avvolsero insieme,
abbracciati e tremanti
nel ciarpame più immondo,
ritrovando all'istante
il tepore effimero e crudo
di due corpi innocenti.
...E venne la notte,
e il gelo mordeva impietoso
quei corpi ineguali.
Dormivano insieme,
sognando entrambi un bel pranzo,
un profumo d'arrosto,
un osso spolpato...
Li trovarono poi,
dopo giorni di gelo,
abbracciati nel sonno pietoso
dell'eterno abbandono.
Un uomo senza nome,
con un piccolo cane
senza nome né razza.
Due anime semplici e buone,
ignorate e deluse,
volate via insieme.
Iddio, da lassù sorrideva,
o piuttosto ghignava?
Non so...
(febbraio 1997)
(*) Da un'idea di mia moglie, Rosanna Riccarda De Fendi, sviluppata da me.
Isabella
Lo amo ancora, anche in questo nulla dove le passioni non sono che un eco, dove il cuore non batte, dove il sangue non pulsa, dove tutto é silenzio. Lo amo ancora, quello stronzo di Renzo, che sapeva essere dolce nel buio della sua lurida stanza, quando doveva convincermi a battere per lui per comprarsi la "roba" Lo amo ancora, perché é morto con me, dello stesso mio male quando aveva vent'anni.
(11 maggio 1997)
Il macellaio
Anch'io la conoscevo Isabella, bel culo sodo e tettine morbide... E ci sapeva fare la piccola troia! Quindici anni di libidine pura che mi facevano impazzire. Capitava in bottega la sera quando stavo per chiudere e mia moglie era a casa. Con quell'aria innocente, quella gonna minuscola e stretta, quella voce un po' roca da bambina. La scopavo nel retro su dei sacchi di juta, qualche volta anche in piedi. Non diceva mai no, e le ho fatto di tutto, senza mai pensare ad altro che a godere di lei. Glie ne ho dati di soldi per quei pochi momenti! Ma era bella davvero, tutta liscia e così giovane, con quegli occhi da gatta e il buchino ancora stretto. Ho pagato anche troppo la gioia di averla perché mi ha impestato, e son morto fra i più atroci tormenti prima ancora di lei.
La bottega va avanti; c'é mio figlio adesso che taglia la carne e imbroglia le donne mentre parla e le fila. Mia moglie ha frignato per un paio di giorni, più per la vergogna che per me. Ogni tanto mi porta dei fiori appassiti e un po' smunti, poi scappa di corsa fra le braccia di un altro. Non che mi importi poi molto; Io rimpiango Isabella, le sue coscie infantili, la sua bocca sugosa, il calore innocente del suo corpo sottile.
(11 maggio 1997)
Zio Pietro
Io L'isabella l'ho vista nascere e crescere. Ero amico di suo padre che battevo spesso a biliardo la sera, giù al bar delle ACLI in paese. Lui era certo più bravo di me con la stecca, ma vincevo con una mano sola, perché era sempre ciucco tradito. A tredici anni era già un fiorellino, con tutte le sue cosine al loro posto che stavano sbocciando. Tutti la guardavano con gli occhi sgranati quando passava con il motorino scassato per le vie del paese " a miracol mostrare". L'aria le scompigliava i capelli e le scopriva le gambe... Ne aveva pochi di vestiti, povera figliola, ma quella gonnellina a fiori blu stanpati m'é rimasta impressa nella mente; le stava d'un bene... Era una brava ragazza Isabella; andava bene a scuola e faceva tutto in casa, perché sua madre non ci stava con la testa. Mi salutava sempre con un bel sorriso sincero e mi chiamava "Zio Pietro". Ma io la sognavo la notte mentre facevo l'amore con la mia vecchia, e quando venivo era lei che chiamavo. L'ho avuta poi tante volte in macchina, dietro al cimitero; qualche volta anche a casa mia nel morbido letto a due piazze. Non era esosa con me l'Isabella; le bastava anche poco, qualche deca sdrucito che passava di mano in un attimo ed era mia per mezz'ora. Non ha mai riso della mia pancia, dei miei anni disperati di vecchio, del mio coso avvizzito e un po' moscio nella sua piccola mano calda. Si lasciava palpare come una fidanzata e faceva finta di venire con me, dimenando il culetto e abbracciandomi stretto. Poi mi accarezzava e mi baciava come se davvero mi amasse. Le ho raccomandato tante volte di stare attenta, che poteva rimanere incinta, ammalarsi... Ma lei sorrideva gentile e diceva: "Però ti piacerebbe meno, vero zietto?". Quando poi s'é ammalata davvero non ho avuto paura per me. Mi sentivo già stanco da un pezzo dello schifo che ero. Avrei scambiato volentieri, senza nemmeno pensarci la mia stupida vita con la sua. Ma se n'é andata prima lei, ed ho pianto da solo, disperato, sulla sua piccola tomba disadorna. Le portavo dei bei mazzi di fiori almeno due volte la settimana. Non garofani tristi, ma rose e gladioli, viole ciocche e tulipani variopinti. Poi, un sabato sera, sono uscito di strada ritornando dal bar sbronzo marcio. Forse andavo troppo forte, forse l'ho fatto apposta... non so. Ho rivisto il suo volto radioso prima dell'ultimo soffio di vita. Sorrideva tranquilla e felice e mi tendeva la mano. "Vieni zio Pietro, non avere paura, qui non siamo più umani; siamo tutti più buoni... vieni... "
(11 maggio 1997)
Renzo
Mio padre era ingeniere da qualche parte, e mia madre insegnava al Liceo. Mia sorella, mica scema la squinzia, s'é sposata un idiota pieno di soldi che cornifica a tutto spiano, e pare se la passi piuttosto bene. Una bella famiglia la mia, che mi ha dato tutto quello che non mi serviva fin da quando ero un cucciolo e strillavo caparbio per avere sempre di più. A sedici anni appena compiuti ho cominciato a bucarmi per noia, per sentirmi qualcuno. Mi chiamavano "Paperone" gli amici della piazza, perché i soldi per la roba non mi mancavano mai. La mia bella famiglia borghese, distratta e molto, ma davvero molto perbene, ce ne ha messo di tempo per fiutare il movimento. Quando alla fine m'hanno sgamato, ho dovuto sorbirmi una predica di quelle toste, che lasciano il segno. I miei vecchi si sono chiesti angosciati: "Dove abbiamo sbagliato?". Io li guardavo scocciato quei fessi, sognando di farmi una pera con della roba buona, da sballo. Papino e mammina, per mettersi il cuore in pace mi hanno spedito in comunità, 'sti stronzi, a cazzeggiare con altri balordi, ma non é servito a niente, perché circolava più roba là dentro che nella piazza. Quando sono uscito, con i soldi di paparino mi sono sparato nelle vene una dose massiccia nel cesso di una fottuta discoteca. Ho rischiato di brutto di lasciarci le palle quella volta, davvero, ma non era ancora il mio momento... A diciotto anni me ne sono andato da casa per fare, finalmente, i cazzi miei. Ho trovato una stanza da un amico ed ho vissuto da solo, senza dovermi sorbire né prediche né lagne. La mia dolce mammina mi passava dei soldi per pagare l'affitto e mangiare, ma bastavano appena per comprarmi la roba. Per un po' i pusher m'hanno fatto credito, poi uno di loro mi ha spezzato due dita, così ho cominciato a rubacchiare qua e là. Portavo via gli stereo dalle auto e scippavo le vecchiette rincoglionite che strillavano come aquile mentre scappavo col motorino a manetta. Ma i fottuti soldi non bastavano mai, e quando la scimmia mi mordeva incazzata avrei fatto di tutto, ma proprio di tutto. Isabella l'ho conosciuta per caso una sera, in quel buco da discoteca, anche se era troppo giovane per entrarci. Era fresca, simpatica e proprio bellina; innocente come un canarino in gabbia Mi sono detto: "bel fighino... può rendere un sacco...". L'ho lisciata da dio prima di portarla da me. Era vergine come una trota la scema; non sapeva nemmeno baciare. L'ho svezzata per bene nel mio letto bisunto, poi ho deciso di fare fare la scena del drogato marcio, innamorato, sfigato e maledetto. Lei c'é cascata di brutto; ha cominciato a portarmi qualche mille lire ed io la insultavo, la picchiavo forte e davo fuori da matto, un po' per scena, un po' per davvero. Quando finalmente ha capito l'antifona la musica é cambiata di botto. Non più spiccioli, ma centoni a bizzeffe mi portava, col sorriso ebete sulle labbra. "Mi vuoi bene?" chiedeva la stronzetta, ed io rispondevo di si... Non facevo domande su quei soldi, ma sapevo che scopava con tutti, che faceva le pompe ai vecchietti, che tirava le seghe ai ragazzini e non teneva una lira per sé. Per un po' é filato tutto liscio; anche lei si bucava di brutto: "per dividere tutto con te..." diceva lei. Sballo a volontà senza freni, una pacchia! Ma i soldi svanivano a razzo, ed io m'incazzavo con lei. Isabella era la mia banca, il suo corpo il mio conto corrente. Del suo amore da cagnolino randagio non m'importava una sega. Lei era contenta così; é colpa mia se le donne sono tutte masochiste e imbecilli?
Per farla breve,
fra siringhe e scopate promiscue
ci siamo beccati quel morbo schifoso.
La mia stupida storia é finita;
sono morto a vent'anni in un letto pulito
con mammina distrutta vicino
che mi teneva la mano e piangeva
come un maiale sgozzato.
Isabella é crepata anche lei,
poco prima di me,
senza cure speciali in una buia corsia,
senza affetto né pianti, in un letto puzzolente
... col sorriso sulle labbra.
(12 maggio 1997)
Giuliano D. (9 anni)
Ho vissuto così poco, che non so davvero se ho perso qualcosa. Correvo distratto nel sole di un giorno di maggio, correvo nel vento già caldo, felice di un voto brillante che avevo cercato e voluto, per dare a mia madre almeno una volta quel poco di gioia che sempre le avevo negato. Non ho visto la macchina mentre attraversavo la strada... Mia madre ora piange la sera, e prega il suo dio con parole più vere.
(25 maggio 1997)
Norma Jean
La pioggia sottile che batte insistente sul'erba del prato, sussurra misteri celati ai mortali. Le ossa ammuffite, corrose dal tempo, spolpate dai vermi, ricordano un corpo, la carne che avevo. Dal luogo del sogno rivedo me stessa, quand'ero più vera, più bella e radiosa, più triste e più sola. Ripenso a quei giorni passati in un lampo, alle gioie, ai dolori, agli amori di un sogno creduto infinito. Nessuna mi ha amata per quella che ero; quel corpo stupendo, m'ha sempre tradita. lasciandomi vuota.
(25 maggio 1997)
Ma lei sapeva...
Non saprei proprio dire chi sono stato, se buono o cattivo, se ingenuo o prevaricatore... Il mio nome non é importante; se proprio ci tenete a conoscerlo leggetelo sulla lapide marmo nero con le lettere gotiche bianche incise profondamente a bulino. Un nome, in fondo, non significa nulla; te lo trovi già preconfezionato, e ti resta poi appiccicato addosso come una seconda pelle che ti accompagna per sempre, anche quando non ti serve più. Non saprei proprio dire chi sono stato ma ricordo di avere amato; di questo ne sono certo. L'ho amata davvero e per sempre, per tutto quel tempo che ci é stato concesso, senza mai ringraziarla davvero per quei dolci sorrisi, per quegli occhi ridenti, per la gioia serena di sentrla vicino.... Ma lei sapeva.
(22 giugno 1997)
... Non mi ricordo di te
C'é molta gente stamattina, che sussura per non disturbare, che struscia le scarpe sulla ghiaia dei vialetti ordinati. Hanno visi tristi e smunti e mi chiedo sempre il perché, ma ci portano fiori e lumini, sentendosi vivi e, in fondo, felici. Ognuno si ferma da solo a meditare di fronte ad un loculo, o davanti ad un pretenzioso catafalco; ma quanti ricordano davvero? .... Chi sei tu, che mi guardi con gli occhi velati, con le mani contratte che si torcono ansiose? Perché pulisci la mia lapide sospirando e piangendo, perché aggiungi dei fiori di plastica e due grossi lumini odorosi? Non mi ricordo di te, scusami, ti prego, non so proprio chi sei... ... forse hai sbagliato defunto. Ti ringrazio per i fiori, ma li avrei preferiti di campo, profumati di vita. Avresti potuto risparmiare su que costosi lumini che non servono a nulla. ... Ma non mi ricordo proprio di te, scusami, ti prego, non so proprio chi sei.
(5 luglio 1997).