Felicita Frai ...

A Felicita Prai, oltre ai critici militanti, hanno dedicato scritti e volumi Montale, Buzzati, Ferrata, Flora, Carrieri, Enzo Biagi, affascinati, tutti, dalla sua pittura, dalla sua personalità e, diciamolo pure, dalla sua leggendaria bellezza. Ora, novantenne, a
dimostrazione che esiste un'eterna giovinezza creativa, Felicita Frai ha inaugurato una mostra antologica alla Galleria Ponte Rosso (via Brera 2, dal 6 al 28 maggio) e gli ultimi quadri, datati 2000, rinnovano le sue inconfondibili feste di fiori e i suoi harem di "filles en fleur" misteriose. «Educande e diavolesse» le aveva definite Buzzati, e infatti queste bellissime donne hanno occhi persi e immobilità languide come quelle dei gatti accovacciati vicino a loro, a volte essi stessi ritratti da soli come nei più recenti dipinti.
La mostra è un omaggio che la pittrice boema ha voluto dedicare a Milano, sua città d'elezione da una sessantina d'anni, dopo gli studi e il lavoro con i maestri Funi e De Chirico. «Una volta - ricorda Felicita nel libro di memorie che le aveva sollecitato Scheiwiller nel '97 ("Mi racconto un po' da me", in collaborazione con Giulia Borgese) - s'imparava pittura facendo il garzone di bottega e io sono stata garzona, apprendista, modella. Sono stata la mascotte di una generazione di artisti, Maccari, De Pisis, Carrà, Sciltian, Morandi, Savinio, mi si può riconoscere in una gran quantità di angeli, in una Regina di Saba, nella sorella di Fetonte (posa faticosissima). Ho cominciato a guadagnare accettando ogni lavoro, soprattutto numerosi ritratti che mi hanno dato la prima notorietà, ma anche affreschi per quattro transatlantici, il mosaico per un bagno turco di Tripoli. Per il suo tratto inconfondibile si è affermata presto e oggi è la più importante pittrice italiana vivente.
Italiana, sì, perché lasciata Praga dove è nata in una famiglia asburgica, si è sposata a Trieste, a 19 anni, ma si è separata presto «a venticinque anni volevo lavorare, fare, dipingere» e dopo un breve periodo in cui si è adattata al suo ruolo di giovanissima moglie borghese ha liberato il coté ragazzesco e anticonformista che conserva tuttora nonostante l'età. A Milano, dove ha fatto la sua prima mostra, è arrivata negli anni Trenta e grazie a talento e bellezza ha avuto il fior fiore dell'intelligenza e dell'arte ai suoi piedi. Si è risposata tardi, con un nobiluomo che aveva militato con Turati, l'avvocato Piero della Giusta, ma a proposito degli uomini il suo giudizio è sempre stato lo stesso «fanno perdere tempo».
Lo scultore Francesco Messina, dopo aver fatto voto di castità a padre Pio appena la vide tentò di sedurla, ma tanti altri cuori - lo sappiamo dalle sue divertite memorie - spasimarono a lungo per lei e le dedicarono fedeli amicizie. Anche per questo la mostra s'intitola «Amata Brera» in ricordo dei tempi felici nel quartiere bohémien.

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FELICITA FRAI
Il poker della vita

La pittrice boema Felice Frajova, nota come Felicita Frai, ha avuto una vita intensa d'arte e d'amore. Ne parla con grande sincerità. L'ha perfino pubblicato in un libro. Non ha paura di provocare. Ha 89 anni, ma il suo viso, il portamento, lo sguardo rivelano il passato splendore: «Ero radiosa, avevo dentro una luminosità, che la gente sentiva. Anche adesso che sono vecchia ho una specie di karma, come mio padre». Spiega d'aver sempre messo questa luce anche nei dipinti delle sue famose donne-bambine, vestite, nude, seminude, sempre uguali e sempre diverse, occhi spalancati, labbra invitanti, bambole o Lolite con gatti, frutta, fiori, in interni dai colori matissiani: «Sono donne dipinte da una donna».
Negli anni Quaranta, era una ritrattista di successo. Godeva di amicizie importanti, nell'alta borghesia, nella nobiltà, tra pittori e letterati. Amica di Flora, Dorfles, De Chirico, Solmi, Quasimodo, Montale, portava ovunque una ventata di gioventù e di freschezza. Gli uomini l'ammiravano molto: alta, bionda, gli occhi cerulei, portata più ai giochi che ai lutti della vita, dal sesso femminile era invidiata. Una principessa romana, che le aveva chiesto un ritratto, la faceva mangiare in cucina col personale di servizio. Anni fa, un mercante d'arte, assai più giovane di lei, ha fatto pazzie, inseguendola ad ogni mostra. La chiamava la sua Giocasta. «Il fatto è che io voglio amare io, non voglio che mi chiedano di essere amata».
Calca sul pronome personale.
Vive con due gatti, in un quartierino con studio e terrazzo fiorito in una vecchia strada di Milano. È, con Titina Maselli, forse la più nota pittrice italiana. Sua madre era tedesca; suo padre, praghese, possedeva una fabbrica d'argenteria. Anche il suo primo marito, mercante di pellami a Trieste, sposato a 18 anni, era ricco. Vissero insieme una breve stagione, poi lei si innamorò del pittore ferrarese Achille Funi, presentatole da Leonor Fini, pittrice e donna inquietante, e si tuffò nella pittura. Col secondo marito, avvocato, pure ricco e attraente, sposato in età matura, ha vissuto 17 anni. Dice: «Con lui ho fatto la bravissima moglie, avevo capito che prima avevo sballato tutto. Ma che fatica».
La sua vita è come una partita di poker, fatta di rischi, di attese, di tensioni, di vincite liberatorie, di sconfitte, di riprese. Forse di qualche bluff. Ma con un fondo di disinteresse e di umorismo. Ha avuto pellicce costose e usato trucchi da "barbona" per sopravvivere; da bambina passava le vacanze a Marienbad, in tempo di guerra rubava il carbone ai conti Treccani. «Ho fatto una vita molto dura». Ricorda le vite aggrovigliate di travolgenti protagoniste dell'arte come la Sarfatti, la Lempicka, la O'Keeffe, Frida Kahlo.
«Funi era un contadino. Si alzava dal letto, andavamo in studio ed era già una gioia. Tutto si illuminava. Un paradiso». Si amarono, lavorarono insieme a Ferrara, a Milano, a Tripoli e altrove. Lei, imparava con grande rapidità, disegno, olio, affresco, acquaforte. Perfino De Chirico, di cui fu allieva («Solo allieva»), la elogiava. «Ma Funi aveva paura di vivere. Un giorno mi disse: ho quarant'anni e devo smettere di fare l'amore. Temendo un futuro in grigio, presi il primo treno e scappai piangendo a Milano. Sapevo d'aver perso la felicità».
Si accalora quando parla dei suoi quadri (non le piace il nero, preferisce gli accostamenti di toni freddi e caldi), del segno, per lei importantissimo: «Impazzivo all'idea di avere un mio segno». Il segno è la cifra, la personalità di un artista.
Ha avuto anche un amore turbinoso col vulcanico critico e poeta Raffaele Carrieri, il quale, descrivendo le sue donne-bambine, sembra con malizia denudare la loro autrice: «Il divertimento dei corpi sfiora la frenesia. Libertà di sentirsi sole, fuori dall'ipocrisia, dalla decenza, dalla promiscuità dei sessi, in una zona neutra e pacificatrice nella quale ciascuna è complice di se stessa».
Ha amato parecchi uomini. «Erano avventure. E di molti mi sono pentita», afferma. «Ho avuto solo tre veri amori: Funi, Carrieri, il secondo marito». Ci pensa: i tre diventano due e infine uno solo, indimenticabile, Funi. Sorride e sembra dolce, ma è una forza della Natura. Carrieri diceva che aveva una volontà di ferro in una luce mutevole: «Sono passata attraverso sofferenze, elaborazioni, crisi, ma sono sempre arrivata in fondo».
È dotata di humour, come quando dice: «Non sono una donna» oppure «A una certa età succede di parlare come se si fosse altri: ricordo una signora sussiegosa che pareva incaricata di parlare di sé. Io sono un'ignota incaricata da me di parlare di me».
Come rammenta la scienziata Rita Levi Montalcini, sua coetanea, la vita è una partita che si perde, d'accordo, ma Felicita Frai l'ha giocata al meglio: si dovrebbe raccontarla a puntate. Ha fatto errori? «Come tutti gli artisti», dice, «sono egocentrica. Ho sbagliato quando sono uscita dal mio egocentrismo». Quante volte? «Tutte le volte che ho dato più importanza a qualcosa che non era la pittura». Esempio? «I mariti o gli amanti». Oggi chi è Felicita Frai? «Un granello di sabbia che il vento ha fatto volare fuori posto, e mi domando: da dove sono uscita?».