Nathaniel Hawthorne
"The House of the seven Gables"
The house of the seven gables - titolo generalmente tradotto come La casa dai sette abbaini -
fu pubblicato nel 1851, e cioè l’anno successivo alla pubblicazione di The Scarlet Letter,
l’opera più famosa e più completa dello scrittore americano. In questo romanzo Hawthorne
riprende alcune tematiche dell’opera precedente, come il significato e l’effetto del
peccato o la distanza che separa l’immagine pubblica di un uomo e la sua vera personalità,
collocandole nell’atmosfera di un romance, per avere, come dice l’autore stesso nell’
introduzione, una maggiore libertà di creazione:
[The Romance] - while, as a work of art, it must rigidly subject itself to laws and while it sins unpardonably so far as it may swerve aside from the truth of the human heart - has fairly a right to present that truth under circmumstances, to a great extent, of the writer’s own choosing or creation.
Dunque, l’autore sceglie il genere del romance perché gli garantisce di descrivere il vero
sulla natura umana senza imbrigliarlo nelle regole di una stretta fedeltà alla realtà come
richiederebbe invece il genere del novel. Per un lettore italiano la differenza tra questi
due generi letterari è forse difficile da comprendere, perché noi definiamo romanzo tutta
la prosa di una certa lunghezza che racconti una storia, ma per chi parla l’inglese la
differenza è netta e scegliere di scrivere un romance piuttosto che un novel significa
scegliere una maggiore o minore distanza da ciò che probabilmente o possibilmente può
accadere nella realtà.
Hawthorne naturalmente non lancia a briglia sciolta la sua fantasia,
non scrive certamente favole con fate, maghi e cavalli alati e neppure ci parla di strani
esseri immaginari; però, la sua analisi della natura umana- o del cuore umano, come si
diceva allora - può essere condotta soltanto attraverso un romanzo situato abbastanza lontano
da descrizioni veriste o troppo realistiche e nello stesso tempo non fantastiche.
Insomma, se Ariosto nell’Orlando furioso ci racconta di maghi, magie e cavalli alati
immergendoci in una realtà poetica completamente immaginaria,
lo scrittore americano rimane sostanzialmente fedele al verosimile, avvolgendo però la sua
narrazione in una “legendary mist”. Solo in questo modo poteva raggiungere il suo scopo,
e cioè unire strettamente il passato con il presente e raccontare come l’azione malvagia
di un uomo venga lasciata in eredità ai suoi discendenti:
the truth, namely, that the wrongdoing of one generation lives into the succesive ones, and, divesting itself of every temporary advantage, becomes a pure and uncontrollable mischief.
Insomma, se un nostro avo ha commesso un’azione malvagia ottenendone un beneficio immediato, col passare del tempo quello stesso beneficio si trasforma in una condanna. E The house of the seven gables è stato scritto proprio per dimostrarcelo.
Il terreno sul quale sorge la dimora della famiglia Pyncheon, la casa dai sette abbaini che dà il titolo al romanzo, apparteneva un tempo a Matthew Maule. Il potente Colonnello Pyncheon, però, se ne era appropriato accusando il vero possessore di magia e così il povero Maule venne giustiziato, ma, un momento prima di morire, lanciò una maledizione sul Colonnello: Dio gli farà presto bere del sangue, gli gridò dal patibolo. Infatti, il giorno dell’inaugurazione della casa, nel corso di un ricevimento al quale partecipavano tutti i più importanti cittadini del paese, il Colonnello venne misteriosamente trovato morto nel suo studio e, siccome non si riusciva assolutamente a spiegare quella morte, il decesso fu imputato come la più ovvia conseguenza della maledizione lanciata da Matthew Maule.
Col passare degli anni i discendenti del Colonnello Pyncheon si erano ridotti a quattro sole persone. L’unica che ancora vive nella casa di famiglia, in condizioni di estrema povertà, è Hepzibah, una donna ormai anziana, sola ed impaurita - “a forlorn old maiden” come lei stessa si definisce -, costretta ad aprire un negozietto per potersi mantenere nonostante la sua incapacità di lavorare; i suoi pensieri sono tutti rivolti al fratello Clifford, accusato in gioventù di avere ucciso un suo parente proprio in quella casa - un parente, è importante tenerlo bene in mente, che era convinto del torto fatto a Maule dal suo avo e quindi deciso a ridare la proprietà ad uno dei suoi discendenti, ma che purtroppo era stato assassinato prima di poter effettuare quel dono - e detenuto in prigione per trent’anni, ma ormai sul punto di venir liberato e di tornare a casa. Un altro componente della famiglia, l’ambiguo giudice Jaffrey - uomo dalle maniere cortesi ed eleganti, ricco e distinto, considerato da tutti un buon cristiano e un buon cittadino -, ripetutamente offre aiuto economico a Hepzibah, aiuto che la donna continua a rifiutare sdegnosamente. Infine c’è la giovane e bella Phoebe, figlia di un membro della famiglia Pyncheon e di una donna di un altro paese - e quindi nata e cresciuta lontano -, che si reca a casa della zia. L’ultimo personaggio del romanzo è il giovane Holgrave, che vive in uno degli abbaini della casa; si tratta di un tipo simpatico e gentile, che si occupa di fotografia e sul quale aleggiano dicerie ambigue.
La vita fra i quattro abitanti della casa scorre lieta e felice: Clifford, mentalmente disturbato e apatico a causa degli anni trascorsi in prigione, è allietato dalla bellezza e dalla spontaneità di Phoebe, la quale si occupa del giardino e del negozio; Hepzibah è contenta di avere un aiuto in casa e Holgrave spesso passa le giornate con la famiglia Pyncheon. L’unico a rimanere fuori dalla casa ed estraneo a quella piacevole vita famigliare è il giudice. Quest’ultimo continua a fare le sue offerte a Hepzibah, ma la donna - unica in tutta la città a vedere nel giudice un uomo avido e malvagio, colpevole della triste sorte del fratello - non solo le rifiuta puntualmente, ma non gli permette nemmeno di entrare nella casa.
Il dramma si compie qualche giorno dopo la partenza di Phoebe. La ragazza ha ormai deciso di stabilirsi nella casa dai sette abbaini, ma ha prima bisogno di tornare al suo paese per sistemare definitivamente le sue faccende. Durante la sua assenza, il giudice entra con forza nella casa, un atto violento ed egoistico che lo porterà alla morte. In una lunga discussione con Hepzibah, l’uomo rivela le sue reali intenzioni: le sue visite ai cugini non sono di natura umanitaria, ma sono fatte con lo scopo di strappare a Clifford un segreto. Lo zio assassinato, infatti, doveva avere molte ricchezze nascoste da qualche parte e adesso il giudice, convinto che il cugina sappia dove siano, vuole parlargli per conoscere quel segreto. Hepzibah cede davanti alla sua violenza e va a chiamare il fratello, senza trovarlo; quando torna in salotto ritrova Clifford accanto al giudice morto. Spaventati da quel misterioso decesso - forse addirittura il secondo assassinio di Clifford -, i due lasciano rapidamente la casa e fuggono via , senza nemmeno sapere dove andare.
Il giorno successivo Phoebe torna alla casa dai sette abbaini e il giovane Holgrave le rivela che il giudice è morto. Certamente è morto, ma non è stato assassinato: infatti, i Pyncheon sono affetti da una specie di malattia, che li assale e li uccide soprattutto in conseguenza di una lite. Sulla conoscenza di tale malattia era basata la profezia di Matthew Maule e sempre questa malattia aveva ucciso in precedenza il Colonnello e lo zio della cui morte era stato incolpato Clifford. Per fortuna i due fuggitivi tornano a casa e così si riesce a stabilire la verità. Clifford, infatti, non aveva mai assassinato nessuno: il vecchio zio era morto a causa di quel male dopo che aveva sorpreso Jaffrey frugare nel suo studio in cerca di denaro. Infatti, il giudice così rispettabile nell’età matura, era da giovane uno scapestrato capace di rubare per continuare la sua vita debosciata e di incolpare del crimine un innocente.
Il romanzo ha poi una conclusione felice: il giovane Holgrave si rivela essere un discendente di Matthew Maule e il suo matrimonio con Phobe mette fine ad una lunga serie di tormenti.
La struttura del romanzo può essere avvicinata allo schema tipico del teatro antico. L’opera può infatti essere divisa in tre parti ben distinte: un antefatto raccontato nel primo capitolo, lo sviluppo della storia che culmina nel dramma della morte del giudice e la fuga di Hepzibah e Clifford, e l’epilogo finale, con riconoscimento e matrimonio.
La trama è molto povera di avvenimenti (dopo l’antefatto, l’arrivo di Phoebe e il ritorno a casa di Clifford, la morte del giudice, la fuga); i momenti “forti” sono dunque veramente pochi in una narrazione che si preoccupa principalmente di descrivere da vicinissimo i pensieri più intimi e gli atti e atteggiamenti apparentemente meno importanti. Insomma, come nella tragedia greca, non ha molta importanza ciò che viene raccontato, ma piuttosto come la storia viene raccontata; inoltre, l’attenzione dell’autore è rivolta soprattutto ad analizzare le varie situazioni, ad indagare le motivazioni
di ogni personaggio, a ragionare sul perché si vengono a creare certe relazioni e
certe circostanze. Il tratto indubitabilmente più lontano dalla struttura della tragedia
è la forte soggettività del romanzo: Hawthorne non si limita a raccontare una storia al
lettore, ma lo informa dei suoi pensieri, delle sue riflessioni, delle sue conclusioni,
guidandolo così alla scoperta delle verità dell’autore.
E ancora una volta risulta chiaro il motivo per cui lo scrittore americano ha sentito il bisogno di spiegare la differenza fra novel e romance e di giustificare la sua scelta in nome di una maggiore libertà di creazione. Non ha importanza che la storia possa o non possa accadere realmente; le preoccupazioni di Hawthorne sono contrarie rispetto al filone realista del romanzo: la vicenda di Madame Bovary, per esempio, è come il simbolo eterno di migliaia di storie simili che sono già accadute e sempre accadranno, mentre la storia della famiglia Pyncheon è pura creazione letteraria allo scopo, espressamente dichiarato dall’autore, di mostrare una verità sulla natura umana. Hawthorne è scrittore e non filosofo: per questo gli è necessario inventare delle storie per esprimere le verità a cui è giunto dopo molta riflessione e lunghe osservazioni, e l’ambito del romance gli offre la struttura più adatta ai suoi fini.
Nel romanzo, dunque, la voce dell’autore si sente chiaramente. Un’importante conseguenza di questa invadenza è il ruolo di osservatore e regista che Hawthorne ritaglia per sé. Le sue descrizioni sono spesso così minuziose e dettagliate che sembra quasi di assistere ad un film o ad uno spettacolo teatrale; il lettore si trasforma in uno spettatore del dramma che si sta svolgendo sotto i suoi occhi accompagnato momento per momento dalla voce dell’autore. L’esempio più significativo di questo metodo narrativo è il capitolo secondo: Hawthorne ci descrive minuziosamente il risveglio di Hepzibah, le sue preghiere subito dopo essersi alzata, tutti i suoi atti per vestirsi e sistemarsi per la giornata, la piccola pausa per guardare un piccola foto del fratello; poi la seguiamo mentre lascia la camera da letto ed entra nel salotto, mentre osserva i dipinti appesi ai muri, mentre si reca controvoglia nel negozio appena aperto. Si tratta di azioni quotidiane, normali, ordinarie che però, grazie ai numerosi interventi dell’autore, ci aiutano a capire l’atmosfera che si respira in quella vecchia casa e soprattutto la personalità di Hepzibah, una donna anziana, sola, impaurita e costretta dalla povertà a guadagnarsi la vita aprendo all’età di sessant’anni un piccolo negozio. L’intero romanzo è costituito da numerosi episodi descritti al rallentatore e “da vicinissimo” che trasformano il lettore in uno spettatore seduto in prima fila.
Come nel precedente The Scarlet Letter e in numerosi racconti, anche con questo romanzo Hawthorne si propone di indagare il significato del peccato e di analizzarne le conseguenze. Lo scrittore sente la necessità di trattare questa tematica tanto spesso per due ragioni principali. Innanzitutto si tratta di una ragione biografica: come egli stesso racconta nella parte introduttiva de The Scarlet Letter, due dei suoi antenati, fra i primi Puritani che giunsero nel Nuovo Mondo, parteciparono alle persecuzioni contro i Quaccheri e ai processi contro le streghe, macchiandosi ai suoi occhi di un peccato enorme di cui lui sente ancora il peso:
I, the present writer, as their representative, hereby take shame upon myself for their sakes, and pray that any curse incurred by them […] may be now and henceforth removed.
E subito dopo aggiunge ironicamente che per i suoi antenati è senz’altro una bella ricompensa
per i loro peccati avere un pronipote che esercita il mestiere di scrittore, cioè “an idler
“ come lui.
Questa notizia biografica, quindi, spiega ampiamente il bisogno dell’autore di
analizzare come un peccato perpetuato da un antico membro di una particolare famiglia possa
ricadere sui discendenti:
wether each inheritor of the property - conscious of wrong, and failing to rectify it - did not commit anew the great guilt of his ancestor, and incur allits original responsabilities.
Ma c’è una seconda ragione per cui Hawthorne vuole indagare la natura del peccato, una ragione di ordine culturale e religioso. Come sappiamo dall’introduzione a The Scarlet Letter, lo scrittore nasce e cresce in un ambiente puritano e due dei suoi avi erano membri importanti di quella nuova società fondata sul puritanesimo; era di conseguenza naturale che egli si interrogasse su tale argomento, centrale per tutti i Puritani e quindi basilare nella società in cui viveva. Insomma, al centro delle preoccupazioni dei suoi antenati c’era appunto un senso acutissimo del peccato: quello che però Hawthorne vuole rimarcare è l’ipocrisia connaturata al modo puritano di intenderlo.
La società americana così come viene descritta da Hawthorne nelle sue opere presenta sempre le
stesse caratteristiche: gente operosa, religiosa e rispettabile, ma soprattutto convinta di
essere sempre nel giusto ogni qualvolta giudica e ogniqualvolta punisce. Nel romanzo da noi
analizzato lo scrittore dice chiaramente come erano i Puritani:
… the Puritan - so, at least, says chimney-corner tradition, which often preserves traits of character with marvelous fidelity - was bold, imperious, relentless, crafty; laying his purposes deep, and following them out with an inveteracy of pursuit that knew neither rest nor conscience; trampling on the weak, and, when essential to his ends, doing his utmost to beat down the strong.
E’ soprattutto una società incapace di analizzare se stessa o di mettere in discussione i propri principi religiosi o il proprio metro di valutazione riguardo agli altri uomini, specialmente coloro che non appartengono al loro gruppo oppure quelli che “sbagliano”. Ed è così che possono tranquillamente commettere dei crimini senza rendersi conto di commettere un peccato, come gli avi dello scrittore o, come è raccontato in The Scarlet Letter, puntando il dito contro una “peccatrice” e marcandola per sempre col segno del suo peccato. In The house of the seven gables ritorna questa sorta di ipocrisia sociale, incarnata specialmente nei personaggi del Colonnello e del giudice Pyncheon. Innanzitutto il vecchio colonnello, avido di soldi e di guadagni, non si accorge del peccato che sta commettendo quando accusa di stregoneria il povero Maule; nonostante ciò, lui e la sua famiglia mantengono inalterato agli occhi degli altri e nella loro coscienza il loro alone di rispettabilità, di generosità, di rettitudine morale. Il giudice Pyncheon rappresenta ancora meglio la disparità fra ciò che appare all’esterno e la sua vera personalità:
The judge, beyond all questions, was a man of eminent respectability. The church acknowledged it; the state acknowledged it. It was denied by nobody. […]his conscience bore an accordant testimony with the world’s laudatory voice.
Insomma è un uomo assolutamente rispettabile, un buon cristiano e un onesto cittadino; generoso con le sue ricchezze e cortese con i concittadini; scrupoloso ed imparziale nel suo lavoro ed elegante nell’abbigliamento. Come potrebbe nascondersi dietro ad una tale facciata di rispettabilità un peccato o un crimine così terribile da fargli meritare l’Inferno? E invece è proprio così: nella sua gioventù scapestrata e dissoluta aveva cercato di derubare lo zio e aveva - cosa ancora peggiore - accusato il cugino di un omicidio che non aveva commesso; perfino dopo la sua liberazione, il giudice nasconde dietro la sua facciata di generosa bontà lo scopo di strappare a Clifford il segreto di numerose ricchezze nascoste.
Naturalmente non tutti sono altrettanto ipocriti e Hawthorne vuole mettere in guardia il lettore dal giudicare un uomo solo dalla bella facciata, dalla sua rispettabile immagine pubblica, dalle sue maniere cortesi ed eleganti o, peggio ancora, dalla sua ricchezza. E ancora: il peccato degli antenati può comunque essere cancellato se si ha il coraggio di ammettere i torti perpetrati a danno di persone innocenti e soprattutto senza sentirsi infallibili e migliori da chi è più povero, più ignorante e meno potente. Lo zio che il giudice tentava di derubare aveva quel coraggio e intendeva ammettere pubblicamente il torto subito da Matthew Maule da parte del Colonnello e di ridargli la proprietà. Ed è proprio questa onestà di coscienza che permette a Hepzibah e Clifford di liberarsi dal peccato commesso dall’avo e dalla maledizione lanciata da Maule. Infine, il matrimonio fra Phoebe e Holgrave - i due ultimi discendenti delle famiglie che per anni erano state in contrasto - pone fine ad una lunga serie di ipocrisie e malvagità.
Uno scrittore non sceglie i titoli delle proprie opere a caso. Hawthorne in particolare
sceglie per titolo qualcosa che racchiuda in sé il senso di tutto il romanzo, quell’elemento
che possa stare a simbolo del contenuto.
La lettera scarlatta del romanzo omonimo, quella
lettera A di colore rosso indica non solo il peccato commesso da Hester Prynne,
ma soprattutto l’analisi che l’autore intende condurre su una comunità tanto virtuosa
da potersi permettere di segnare indelebilmente una donna che ha sbagliato. In questo
romanzo, la casa dai sette abbaini, quell’edificio grandioso ma corroso dalle intemperie,
simboleggia naturalmente la prepotenza del Colonnello nei riguardi di un altro essere umano
e nello stesso tempo la possibilità di riscatto della famiglia Pyncheon dopo l’ammissione
del peccato commesso da parte dello zio.
La casa infatti diventa uno spartiacque fra il
giudice e il resto della famiglia. La povera ed indifesa Hepzibah non gli permette mai di
entrare nella sua abitazione e tanto meno di parlare col povero Clifford, mentre Phoebe
non solo è accolta volentieri, ma con la sua gioia e spontaneità diviene una presenza
indispensabile: l’uomo che porta ancora con sé il peso del peccato iniziale non può
mettere piede in una casa ormai liberata dalla maledizione dovuta alla prepotenza di
uno dei suoi antenati, una casa che invece offre riparo e gioia agli innocenti.
Infatti, quando il giudice riesce con la forza della sua violenza ad entrare in casa,
trova immediatamente la morte. Ed è con questo decesso che si esaurisce il potere
del peccato e la serenità dovuta ad una reale bontà d’animo e da una coscienza familiare ormai ripulita è il giusto compenso di tante sofferenze.