Il dipendente può 'servire' due datori di lavoro
(Cassazione 2171/2000)


Non è illegale lavorare contemporaneamente alle dipendenze di due datori di lavoro, anche nel caso in cui uno dei due sia un ente pubblico. L'importante principio è stato stabilito dalla Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, che ha dato ragione ad un insegnante pubblico che aveva lavorato, per oltre vent'anni, presso una azienda agraria, senza essere in alcun modo regolarizzato; in seguito alla cessazione del rapporto, il lavoratore aveva convenuto in giudizio l'azienda agricola, rivendicando la natura subordinata del rapporto di lavoro, con le conseguenti differenze contributive e regolarizzazione. Nonostante l'azienda convenuta avesse eccepito l'incompatibilità della subordinazione con le funzioni di pubblico impiegato, i giudici di merito, in primo ed in secondo grado, avevano accolto la domanda del dipendente. La Suprema Corte conferma le decisioni di merito, precisando che il divieto posto ai pubblici impiegati di svolgere attività lavorativa nel settore privato è stabilito unicamente nell'interesse della Pubblica Amministrazione, per cui la violazione di tale divieto non determina comunque la nullità del contratto di lavoro privato; in ogni caso, anche volendo considerare nullo il contratto, la nullità non produrrebbe effetto per il tempo in cui il contratto ha avuto esecuzione e rimarrebbe salvo il diritto del dipendente al trattamento contrattuale ed ai contributi previdenziali.
Sentenza della Sezione Lavoro n.2171/2000


LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO
(…)
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
F. F. Francesco, procuratore generale di F. F. Giacinto, elettivamente domiciliato in ROMA, Via delle tre Madonne, 8, presso lo studio dell'avvocato Marzio Morazza, che li rappresenta e difende, giusta delega in atti;
-ricorrenti-
contro
M. Antonio, elettivamente domiciliato in ROMA Via Fabio Massimo, 60, presso lo studio dell'avvocato Sebastiano Mastrobuono, rappresentato e difeso dagli all'avvocati Bruno Anellio, Angelo Polacco, giusta delega in atti;
-controricorrente-
nonché contro
INPS (Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, Via della Frezza, 17 presso l'Avvocatura Centrale dell'Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati F. Correra, D. Ponturo, giusta procura speciale per atto notar F. Lupo di Roma del 4 gennaio 1999 rep. N. 21127;
-resistente con sola procura-
nonché contro
ENPAIA;
avverso la sentenza n. 511/96 del Tribunale di Vibo Valentia, depositata il 07/08/96 r.g.n. 677/93;
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/03/99 dal Consigliere Dott. Pietro Cuoco;
udito l'Avvocato Marazza;
udito l'Avvocato Mastrobuono per delega Anello;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Marco Pivetti che ha concluso: parzialmente accolto il primo motivo del ricorso, respinti gli altri motivi.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso depositato il 2 febbraio 1988 Antonio M., insegnante elementare, sostenendo di aver lavorato alle dipendenze dell'amministrazione di F. F. dal 1 settembre 1964 all'agosto del 1987 con molteplici mansioni (gestione del patrimonio, riscossione dei canoni, vendita dei frutti pendenti, stipulazione di locazioni), poi estese a procedure di trasformazione agraria (mutui finanziamenti agevolati, prestiti di conduzione, contatti con enti pubblici, imprese, tecnici legali) ed inquadrabili nel livello di impiegato di concetto di gruppo "uno", ed aggiungendo di essere stato licenziato senza preavviso, chiese che il Pretore di Vibo Valentia in funzione di giudice del Lavoro dichiarasse l'esistenza del rapporto di lavoro subordinato con l'indicata qualifica, condannasse la predetta amministrazione al pagamento della somma di lire 470.020.521 comprensiva di rivalutazione (oltre a successiva rivalutazione ed interessi, per differenze retributive, indennità per ferie non godute, lavoro straordinario e festivo, XIII mensilità per l'anno 1987, XIV mensilità, TFR ed indennità di preavviso), e condannasse la stessa amministrazione a pagare a favore dell'ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, (INPS) e dell'EMPAIA, la somma di lire 136.103.223 per contributi previdenziali dichiarando gli stessi ISTITUTI obbligati ad accettare la contribuzione, ed in subordine condannasse l'indicata amministrazione al risarcimento del danno ex art. 2116 cod. civ. [1], oltre alle spese del giudizio.
Con sentenza del 6 aprile 1993 il Pretore condannò l'amministrazione a pagare al ricorrente la somma di lire 222.228.118 con rivalutazione ed interessi, e di lire 50.000.000 per il danno causato dall'omessa contribuzione dal 1 agosto 1964 al 12 maggio 1978, ed a versare all'INPS ed all'ENPAIA i contributi dovuti dal 13 maggio 1978, con le spese dei giudizio.
Con sentenza del 7 agosto 1996 il Tribunale di Vibo Valentia, parzialmente accogliendo l'appello proposto da
Giacinto F. F., dichiarò che dalla somma liquidata dovevano essere detratta la somma di lire 534.590 (con conseguente rivalutazione) nel resto confermando l'impugnata sentenza. A questa decisione il Tribunale giunge affermando quanto segue.
1. Poiché la violazione del divieto di svolgere contestualmente al rapporto di pubblico impiego lavoro subordinato di natura privata ha conseguenze meramente disciplinari e non incide sull'esistenza e validità del contratto di lavoro privato e del connesso rapporto previdenziale ed assistenziale, il primo motivo dell'appello, costituito dall'inesistenza d'ogni diritto del ricorrente per la violazione del predetto divieto, era infondato.
2. Infondato era anche l'assunto per cui, poiché il rapporto di lavoro subordinato è caratterizzato dal vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo del datore e dalla dedizione del lavoratore al suo datore, il rapporto in esame, caratterizzato da mera occasionale collaborazione, condizionata alla libertà da altri preminenti impegni di pubblico impiegato, non avrebbe avuto natura subordinata. Il rapporto di lavoro dipendente, ed in particolare in agricoltura, è compatibile con iniziativa e discrezionalità del lavoratore. E nel caso in esame, come emergeva dalle molteplici testimonianze, il M. si era occupato di tutte le esigenze dell'azienda (redigendo contratti di conduzione, riscuotendo canoni di affitto, vigilando la coltivazione, curando i rapporti con legali, enti pubblici, banche, fisco). Ed era irrilevante il fatto che il M. avrebbe curato solo una delle 29 operazioni finanziarie e 5 dei 121 contratti di vendita, e non avrebbe curato girate di effetti cambiari né rivestito la qualità di amministratore o procuratore dell'azienda.
3. Poiché il contratto collettivo è vincolante anche ove sia accettato dalle parti per facta concludentia [2] ed è utilizzabile dal giudice anche come parametro per l'adeguamento della retribuzione, l'omessa indicazione del contratto collettivo applicabile e l'assenza di iscrizione delle parti ad organizzazione sindacale erano irrilevanti.
4. L'eccezione di prescrizione, non formulata con l'atto introduttivo del giudizio in primo grado, era inammissibile.
5. Dalla somma dovuta al M. doveva essere detratta la somma di lire 7.057.037, rivalutazione di quanto corrispostogli per i diritti di mediazione nel corso del rapporto.
6. Poiché attraverso la prova testimoniale era emerso il lungo quotidiano impegno lavorativo del M. in azienda (di pomeriggio ed anche al mattino, durante le ferie estive del lavoro di insegnante), era infondato l'appellante assunto relativo all'assenza della prova in ordine ad un lavoro quotidiano di otto ore ed all'inipotizzabilità d'un rapporto di lavoro full time.
7. Essendo accertato che Il F. F. era proprietario di ampia impresa agricola, l'eccezione relativa all'assenza di legittimazione passiva era infondata.
8. La coesistenza del rapporto di lavoro privato con il rapporto di pubblico impiego non escludeva l'obbligo datorile di costituire il conseguente rapporto previdenziale.
Per la cassazione di questa sentenza ricorre Francesco F. F., procuratore generale di Giacinto F. F., percorrendo le linee di 5 motivi poi illustrati con memoria. Resiste Antonio M. con controricorso, poi illustrato con memoria.
E' stata disposta, e tempestivamente eseguita l'integrazione del contraddittorio nei confronti dell'INPS e dell'EMPAIA.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo, denunciando per violazione degli artt. 1723 e 1726 cod. civ. [3], dell'art. 36 Cost. [4], e degli artt. 3 e 5 del R.D. 10 settembre 1923 n. 1956 [5] nonché carente e contraddittoria motivazione, il ricorrente
sostiene che
1.1. la ritenuta applicazione del contratto collettivo in quanto recepito dalle parti per facta concludentia non sarebbe ipotizzabile per la tredicesima mensilità, per la quattordicesima mensilità, per la retribuzione del lavoro straordinario e per la retribuzione del lavoro festivo, non applicato in alcun modo nei confronti del M. (come lo stesso Tribunale riconosce attraverso la condanna al pagamento delle relative somme) né nei confronti di altri dipendenti;
1.2. il contratto stesso sarebbe applicabile quale parametro solo per la retribuzione base: non per gli accessori (tredicesima mensilità, quattordicesima mensilità, scatti di anzianità, indennità per titolo di studio, premio di incentivazione) e l'indennità di contingenza, pur riconosciuti ex art. 36 Cost.
1.3. inapplicabile sarebbe anche il parametro per la determinazione dei lavoro straordinario, poiché, la materia è disciplinala dal RD. 10 settembre 1923 n. 1956 (esecuzione del R.D.L. 15 marzo 1923 n. 692).
Con il secondo motivo, denunciando carente e contraddittoria motivazione, il ricorrente lamenta che il giudice di merito:
1. non aveva motivato l'acritica accettazione (da parte del consulente tecnico d'ufficio e poi del giudicante) delle ore di lavoro e della retribuzione indicata dal ricorrente;
2. aveva determinato l'orario anche attraverso l'utilizzazione di elementi episodici (telefonate del sig. Bonenno, visite del sig. Patania);
3. aveva immotivatamente inquadrato l'azienda fra le grandi aziende.
Con il terzo motivo, denunciando per l'art. 360 nn. 3 e 5 cod. proc. civ. violazione dell'art. 112 cod. proc. civ. nonché:
omessa pronuncia, il ricorrente eccepisce l'acritica accettazione del calcolo del consulente tecnico d'ufficio, ove non era data alcuna indicazione in ordine alla somma di 94.000.000 che per incarico del giudicante il consulente avrebbe dovuto detrarre in quanto corrisposta.
Con il quarto motivo, denunciando violazione ed errata applicazione degli artt. 1343 e 2126 cod. civ. e degli artt. 60 e segg. del D.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3, il ricorrente sostiene che il contratto di lavoro in controversia, essendo in contrasto con norma imperativa (che vieta al pubblico impiegato di assumere altro continuativo lavoro), sarebbe nullo: e pertanto alcuna conseguenza economica potrebbe discenderne.
Con il quinto motivo, denunciando violazione dell'art. 2094 cod. civ., il ricorrente premette che l'individuazione del carattere subordinato della prestazione implica una preliminare indagine sulla volontà negoziale delle parti, che consenta, in concreto, di ravvisare quel vincolo di natura personale che assoggetta il prestatore d'opera, con conseguente limitazione della sua libertà, al potere direttivo (e quindi organizzativo e disciplinare) del datore di lavoro, vincolo che rappresenta il proprium della subordinazione. E tuttavia nel caso in esame il Tribunale aveva ignorato l'impossibilità di coesistenza, anche per "assoluta inconciliabilità storica e logica" del rapporto di pubblico impiego con un rapporto di lavoro subordinato. Aveva poi ritenuto l'esistenza del contratto di lavoro subordinato, non accertando preliminarmente la volontà delle parti (nel suo contenuto e nella sua direzione) e non esaminando come l'attività di insegnante elementare potesse coesistere con un'attività continuativa ed a tempo pieno, con il luogo e con gli orari del lavoro; ed aveva ritenuto di ravvisare elementi sintomatici della subordinazione nel luogo della prestazione, pur in assenza d'un orario fisso (che il Tribunale qualifica come "flessibile"), del pagamento d'un corrispettivo mensile (che non era stato detratto dalle somme accertate come retribuzione dovutagli), e della "sostanziale indeterminatezza di compiti e mansioni, affidate alla scelta ed alla libera interpretazione del M." ed invero, "ove si fosse concretamente considerata la volontà delle parti in relazione alla qualità di uno dei soggetti del rapporto (il M. quale insegnante elementare), ciò non poteva che condurre ad escludere gli elementi della subordinazione quale vincolo personale che assoggetta il prestatore d'opera (con conseguente limitazione della sua libertà) al potere direttivo (e quindi organizzativo e disciplinare) del datore di lavoro. E ci sarebbe da chiedere ....se il M. abbia subito restrizioni della sua libertà personale da non consentirgli di essere presente tutti i giorni a scuola dalle ore 8 e 30 alle ore 12 e 30, ed inoltre quale forma, di subordinazione e di dipendenza possa caratterizzare la prestazione di un signore che asserisce di essersi occupato del disbrigo di pratiche amministrative anche presso enti pubblici che osservano un orario proprio durante l'orario dell'insegnamento nelle scuole elementari".
2. Con il controricorso si eccepisce che:
2.1. il resistente è direttamente vincolato dal contratto collettivo, essendo diretto rappresentante della categoria;
anche il Trattamento di fine rapporto è determinabile attraverso il parametro collettivo;
2.2. la determinazione della retribuzione e del relativo parametro è apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità; insindacabile è anche l'apprezzamento in ordine al lavoro espletato;
2.3. dal precetto intimato era stata dedotta la somma di lire 94.215.000, pagata dal debitore.
2.4. il contratto di pubblico impiego non preclude agli insegnanti il rapporto di lavoro privato, né determina la nullità del relativo rapporto privato; ed il divieto ha effetti esclusivamente nell'interesse della pubblica amministrazione: non dei privati;
2.5. la volontà contrattuale era desumibile dallo svolgimento del rapporto, accertato attraverso la prova testimoniale.
3. E' stata disposta l'integrazione del contraddittorio nei confronti dell'INPS e dell'ENPAIA. E' da evidenziare che all'INPS non poteva essere comunicata l'udienza di discussione, poiché non aveva depositato controricorso ed aveva depositato procura solo dopo la fissazione della predetta udienza per provvedimento del 3 febbraio 1999
(Cass. 1 febbraio 1991 n. 953).
4. E' preliminare l'esame del quinto motivo poiché ha per oggetto la stessa ipotizzabilità del rapporto di lavoro in controversia. Il ricorrente contesta la decisione attraverso una censura fondata su molteplici argomentazioni (incompatibilità con il pubblico impiego, carente esame della volontà delle parti, assenza d'un orario di lavoro, indeterminatezza delle mansioni, assenza di assoggettamento del prestatore e di direttive del datore, per questa molteplicità, il motivo è risonanza anche di aspetti attinenti ad altri motivi).
Nell'ambito di questi aspetti è pregiudiziale l'esame della censura avente per oggetto l'astratta compatibilità della prestazione in controversia con il rapporto di pubblico impiego, poiché la censura investe il rapporto nella sua stessa ipotizzabilità: possibilità di esistenza non solo come concreta materialità bensì come astratta configurabilità.
Dall'angolazione di questa astratta configurabilità, il ricorrente sostiene la nullità del rapporto per la violazione d'un divieto esistente nei confronti del pubblico dipendente.
Questa censura è palesemente infondata. Come esattamente rileva il controricorrente, il divieto è posto nell'interesse della pubblica amministrazione (in tal senso, anche Cass. 12 dicembre 1991 n. 13393); e la relativa violazione, pur causa di eventuali sanzioni disciplinari nei confronti del dipendente pubblico, non determina la nullità del contratto concluso fra i privati (Cass. 14 gennaio 1985 n. 58, 14 febbraio 1985 n. 1287, 22 maggio 1991 n. 5736).
Per mera esigenza di completezza è da osservare che l'invocata nullità, non causata dall'illiceità di cui all'art. 2126 cod. civ. (illiceità dell'oggetto o della causa o dei motivi comuni alle parti, ed identificabile solo nella violazione dei principi etici fondamentali dell'ordinamento: Cass. nn. 63 del 1973, 2434 del 1981, 4681 del 1987, 8830 del 1987), non produrrebbe effetto per il periodo in cui il contratto ha avuto esecuzione (art. 2126 primo comma cod. civ. che, come in altre ipotesi normative in materia di lavoro, ha fondamento non solo nell'umana natura della prestazione bensì nel particolare meccanismo contrattuale, caratterizzato dalla necessità e dall'irreversibilità dell'anticipazione, che esigono adeguata tutela del creditore). E l'inefficacia di questa inefficacia (che, negazione d'una negazione, è efficacia del contratto) investe anche il rapporto contributivo.
Anche la censura avente per oggetto la concreta materiale possibilità di coesistenza del rapporto di lavoro privato con il rapporto di pubblico impiego è infondato. Ed invero, da un canto non è astrattamente da escludersi che il pubblico impiegato possa, nel pur limitato tempo residuo, impegnare le proprie residue energie in altro lavoro, lavoro che, nella ricorrenza degli elementi normativamente necessari, ed in particolare le direttive d'un datore che accetti questa coesistenza ed il condizionamento di orari e di disponibilità lavorativa, assuma anche natura dipendente. D'altro canto, il Tribunale ha analiticamente motivato, attraverso l'esame di molteplici coerenti testimonianze, l'esistenza d'un lavoro lungamente ed ininterrottamente prestato dal ricorrente (sentenza, pp. 22, 23, 24), e la relativa misura, ritenendo che si sia trattato d'una ipotesi di lavoro full time" (p. 26). Da un canto, la presenza di questi elementi di fatto, adeguatamente motivata, è valutazione di merito, che resta insindacabile in sede di legittimità. D'altro canto il ricorrente non ha fornito alcun concreto elemento di segno contrario, idoneo a contestare, in ordine a questi aspetti di fatto, il percorso logico del giudicante ed a condurre ad una diversa decisione.
Anche l'aspetto della censura con cui si invoca quale strumento di qualificazione del rapporto il determinante peso della volontà delle parti è infondato. Giova a tal fine osservare che, poiché l'iniziale contratto è causa d'un rapporto che si protrae nel tempo, la volontà che esprime e lo stesso nomen juris che utilizza, pur necessari elementi di valutazione, non costituiscono fattori assorbenti; ed il comportamento posteriore alla conclusione del contratto diventa elemento necessario non solo (per l'art. 1362 secondo comma cod. civ.) all'interpretazione dello stesso iniziale contratto (Cass. 22 giugno 1997 n. 5520) bensì all'accertamento d'una nuova diversa volontà eventualmente intervenuta nel corso della relativa attuazione e diretta a modificare singole clausole e talora la stessa natura del rapporto di lavoro inizialmente previste; e pertanto in caso di contrasto fra iniziali dati formali e successivi dati fattuali (emergenti dallo svolgimento del rapporto), questi assumono necessariamente un rilievo prevalente; ciò non solo nell'ambito della tutela del lavoro subordinato (Cass. 22 giugno 1997 n. 5520) bensì (con ulteriore fondamento) ai fini della necessaria tutela del terzo (quale l'Istituto previdenziale) il quale diventi parte d'un rapporto avente causa dall'attuazione d'un contratto intervenuto fra altri soggetti che lo hanno precostituito nel proprio esclusivo interesse (eventualmente, anche in suo danno).
5. Diversamente è a dirsi per quanto attiene alla censura relativa all'assenza del l'assoggettamento del prestatore e delle direttive del datore.
Giova premettere che, come questa Corte ha ripetutamente affermato, ai fini della distinzione fra rapporto di lavoro autonomo e rapporto di lavoro subordinato, in sede di legittimità è censurabile solo ciò che attinge alla lettura del modulo normativo: l'individuazione del parametro ivi descritto. L'accertamento dell'effettiva presenza degli elementi (che caratterizzano il parametro) attraverso la valutazione delle risultanze processuali ed il conseguente inquadramento della concreta prestazione nell'astratto modulo normativo è apprezzamento di fatto:
valutazione del giudice di merito che, immune da errori giuridici ed adeguatamente motivata, resta insindacabile in
sede di legittimità (Cass. 3 ottobre 1994 n. 8006).
Come è stato ripetutamente affermato, l'elemento di qualificazione del rapporto di lavoro subordinato è costituito dalla permanenza dell'obbligo del lavoratore di mantenere a disposizione del datore l'attività lavorativa nella sua indifferenziata materialità (come operare), e dalla permanenza del suo conseguente assoggettamento al potere direttivo e disciplinare del datore, con la conseguente limitazione della sua autonomia ed il suo inserimento nell'organizzazione aziendale (per l'obbligo, Cass. 15 maggio 1987 n. 4515, 14 febbraio 1985 n. 1287; per le direttive, Cass. 4 marzo 1998 n. 2370, 25 luglio 1994 n. 6919).
Altri elementi quali l'assenza di rischio, la continuità della prestazione, l'osservanza di un orario e la forma della retribuzione assumono natura meramente sussidiaria e non decisiva (Cass. 15 maggio 1991 n. 5409, 29 marzo 1990 n. 2553).
D'altro canto, poiché alla base del contratto è la volontà delle parti, è ben ipotizzabile che le parti stesse (ed in particolare il datore) convengano su orari assolutamente flessibili (condizionati alla contingente disponibilità del prestatore) e su mansioni non specificamente predeterminate. E pertanto nel caso in esame anche la censura avente per oggetto l'elasticità degli orari e l'indeterminatezza delle mansioni è infondata. E tuttavia, la pur limitata indeterminatezza di orari e mansioni non esclude la natura subordinata del rapporto, solo ove sia il prodotto dell'indicato obbligo del prestatore, e dell'indicato assoggettamento al potere del datore: obbligo ed assoggettamento che, in quanto fondamento e giustificazione dell'indeterminatezza, in questa eventuale indeterminatezza assumono rilievo (ancor più) determinante.
Ed invero, nell'assenza di mansioni ed orari predeterminati (giustificata dal particolare settore di attività, quale, l'agricoltura), la congiunta assenza dell'indicato obbligo del lavoratore, e del suo conseguente assoggettamento, non consentirebbe di distinguere adeguatamente il lavoro subordinato da una forma di lavoro autonomo svolto con piena intensità e diffusa partecipazione, quale l'opera d'un collaboratore che si occupi di ogni necessità di una grande azienda.
Né, in questa ipotesi, assumerebbe funzione determinante un inserimento che si esaurisse in una mera pur protratta presenza, ed in una diffusa partecipazione ai problemi aziendali (quali, anche la risoluzione di questioni contrattuali, fiscali e tributarie). Ed invero, questa presenza e questa partecipazione, da un canto potrebbero mancare (mansioni esterne) e non escludere tuttavia la subordinazione e d'altro canto potrebbero essere il mero riflesso dell'intensità e della durata di un lavoro svolto con (anche piena) autonomia, ed in tal modo non esprimere la subordinazione.
Normativamente necessari alla subordinazione sono l'obbligo del lavoratore (come precedentemente indicato) ed il suo conseguente assoggettamento alle direttive del datore (art. 2094 cod. civ.). E pertanto solo l'esistenza e la permanenza di questi elementi consente di affermare la subordinazione.
Nel contempo, poiché l'azienda è una struttura organizzata che fa capo all'imprenditore (e questo far capo è l'aspetto qualificante dell'organizzazione e della stessa azienda: ex art. 2082 e 2555 cod. civ.), l'inserimento nell'azienda è tale solo in quanto inquadramento in una struttura che faccia capo al titolare. Attraverso il riferimento all'imprenditore (necessario alla qualificazione dell'inserimento), l'inserimento stesso diventa il mero aspetto del fatto (sussistenza e permanenza dell'obbligo e del l'assoggettamento) che caratterizza la subordinazione e, in assenza di elementi che integrino questo fatto, resta di per sé insufficiente a qualificare la subordinazione.
Concretamente risolvendosi in un mero aspetto dell'indicato obbligo e dell'indicato assoggettamento (elementi normativamente necessari al rapporto di subordinazione), l'inserimento del lavoratore nell'azienda non solo non è, parametro di qualificazione, bensì non resta idoneo a provare, di per sé solo, questi elementi, ed ad esprimere l'esistenza della subordinazione.
E' pertanto da affermare il principio per cui, "nelle situazioni ove, per la particolare attività (come ) in alcune forme di lavoro in agricoltura), alcuni aspetti (orari, mansioni) non assumono natura rigida, il mero inserimento del lavoratore nell'azienda non è parametro di qualificazione della subordinazione, né può costituire elemento esclusivo per dedurre la subordinazione stessa, il parametro di qualificazione si risolve necessariamente negli elementi (non diversamente deducibili) dei quali l'inserimento è mera conseguenza: la sussistenza e la permanenza dell'obbligo del lavoratore di mantenere a disposizione del datore l'attività lavorativa nella sua indifferenziata materialità (come operae), e la sussistenza e la permanenza del suo conseguente assoggettamento al potere direttivo e disciplinare del datore".
Baricentro della controversia è pertanto la necessità di accertare l'effettiva esistenza di questi elementi. E nel caso in esame il Tribunale, pur ponendo in luce alcuni aspetti specifici dell'attività (ove "la fattispecie, concreta, concernente le esigenze di conduzione di un'azienda agricola, comporta tempi di attività, iniziative adeguate e comportamenti prestazionali del dipendente non programmabili con troppa precisione ed a contenuto variabile": sentenza, p. 14), ne deduce uno specifico carattere della subordinazione ("attuata in termini più funzionali che tecnici"), espresso dalla possibilità che questa si concretizzi "nella sola sistematica inserzione della prestazione del lavoratore nell'organizzazione unitaria dell'impresa, ancorché senza un'effettiva direzione da parte del datore" (sentenza, p. 15).
In tal modo il Tribunale, pur in assenza di un'affermazione precisa e categorica, da un canto adombra la possibilità che nel rapporto in controversia manchi una "effettiva" direzione da parte del datore e nel contempo non afferma, come principio, né accerta, nei fatti, la sussistenza e la permanenza dell'obbligo, da parte del lavoratore, di porre a disposizione la sua opera, e del suo conseguente assoggettamento alle direttive del datore.
Ciò conduce, nell'accoglimento del quinto motivo (limitatamente all'indicato aspetto della censura), alla cassazione della sentenza ed al rinvio a contiguo giudice di merito, che, nell'applicazione dell'indicato principio, dovrà procedere ad un nuovo esame di merito della materia controversa, nei limiti delle censure accolte, provvedendo anche alla disciplina delle spese del giudizio di legittimità.
PQM
La Corte accoglie il quinto motivo del ricorso, dichiara assorbiti gli altri, e rinvia, anche per le spese, al Tribunale di Catanzaro.
Così deciso in Roma il 10 marzo 1999.
Depositato in cancelleria il 25 febbraio 2000.