Il dipendente può 'servire' due datori di
lavoro
(Cassazione 2171/2000)
Non è illegale lavorare contemporaneamente
alle dipendenze di due datori di lavoro,
anche nel caso in cui uno dei due sia un
ente pubblico. L'importante principio è stato
stabilito dalla Sezione Lavoro della Corte
di Cassazione, che ha dato ragione ad un
insegnante pubblico che aveva lavorato, per
oltre vent'anni, presso una azienda agraria,
senza essere in alcun modo regolarizzato;
in seguito alla cessazione del rapporto,
il lavoratore aveva convenuto in giudizio
l'azienda agricola, rivendicando la natura
subordinata del rapporto di lavoro, con le
conseguenti differenze contributive e regolarizzazione.
Nonostante l'azienda convenuta avesse eccepito
l'incompatibilità della subordinazione con
le funzioni di pubblico impiegato, i giudici
di merito, in primo ed in secondo grado,
avevano accolto la domanda del dipendente.
La Suprema Corte conferma le decisioni di
merito, precisando che il divieto posto ai
pubblici impiegati di svolgere attività lavorativa
nel settore privato è stabilito unicamente
nell'interesse della Pubblica Amministrazione,
per cui la violazione di tale divieto non
determina comunque la nullità del contratto
di lavoro privato; in ogni caso, anche volendo
considerare nullo il contratto, la nullità
non produrrebbe effetto per il tempo in cui
il contratto ha avuto esecuzione e rimarrebbe
salvo il diritto del dipendente al trattamento
contrattuale ed ai contributi previdenziali.
Sentenza della Sezione Lavoro n.2171/2000
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO
(…)
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
F. F. Francesco, procuratore generale di
F. F. Giacinto, elettivamente domiciliato
in ROMA, Via delle tre Madonne, 8, presso
lo studio dell'avvocato Marzio Morazza, che
li rappresenta e difende, giusta delega in
atti;
-ricorrenti-
contro
M. Antonio, elettivamente domiciliato in
ROMA Via Fabio Massimo, 60, presso lo studio
dell'avvocato Sebastiano Mastrobuono, rappresentato
e difeso dagli all'avvocati Bruno Anellio,
Angelo Polacco, giusta delega in atti;
-controricorrente-
nonché contro
INPS (Istituto Nazionale della Previdenza
Sociale, in persona del legale rappresentante
pro tempore, elettivamente domiciliato in
Roma, Via della Frezza, 17 presso l'Avvocatura
Centrale dell'Istituto, rappresentato e difeso
dagli avvocati F. Correra, D. Ponturo, giusta
procura speciale per atto notar F. Lupo di
Roma del 4 gennaio 1999 rep. N. 21127;
-resistente con sola procura-
nonché contro
ENPAIA;
avverso la sentenza n. 511/96 del Tribunale
di Vibo Valentia, depositata il 07/08/96
r.g.n. 677/93;
Udita la relazione della causa svolta nella
pubblica udienza del 10/03/99 dal Consigliere
Dott. Pietro Cuoco;
udito l'Avvocato Marazza;
udito l'Avvocato Mastrobuono per delega Anello;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. Marco Pivetti che ha concluso:
parzialmente accolto il primo motivo del
ricorso, respinti gli altri motivi.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso depositato il 2 febbraio 1988
Antonio M., insegnante elementare, sostenendo
di aver lavorato alle dipendenze dell'amministrazione
di F. F. dal 1 settembre 1964 all'agosto
del 1987 con molteplici mansioni (gestione
del patrimonio, riscossione dei canoni, vendita
dei frutti pendenti, stipulazione di locazioni),
poi estese a procedure di trasformazione
agraria (mutui finanziamenti agevolati, prestiti
di conduzione, contatti con enti pubblici,
imprese, tecnici legali) ed inquadrabili
nel livello di impiegato di concetto di gruppo
"uno", ed aggiungendo di essere
stato licenziato senza preavviso, chiese
che il Pretore di Vibo Valentia in funzione
di giudice del Lavoro dichiarasse l'esistenza
del rapporto di lavoro subordinato con l'indicata
qualifica, condannasse la predetta amministrazione
al pagamento della somma di lire 470.020.521
comprensiva di rivalutazione (oltre a successiva
rivalutazione ed interessi, per differenze
retributive, indennità per ferie non godute,
lavoro straordinario e festivo, XIII mensilità
per l'anno 1987, XIV mensilità, TFR ed indennità
di preavviso), e condannasse la stessa amministrazione
a pagare a favore dell'ISTITUTO NAZIONALE
DELLA PREVIDENZA SOCIALE, (INPS) e dell'EMPAIA,
la somma di lire 136.103.223 per contributi
previdenziali dichiarando gli stessi ISTITUTI
obbligati ad accettare la contribuzione,
ed in subordine condannasse l'indicata amministrazione
al risarcimento del danno ex art. 2116 cod.
civ. [1], oltre alle spese del giudizio.
Con sentenza del 6 aprile 1993 il Pretore
condannò l'amministrazione a pagare al ricorrente
la somma di lire 222.228.118 con rivalutazione
ed interessi, e di lire 50.000.000 per il
danno causato dall'omessa contribuzione dal
1 agosto 1964 al 12 maggio 1978, ed a versare
all'INPS ed all'ENPAIA i contributi dovuti
dal 13 maggio 1978, con le spese dei giudizio.
Con sentenza del 7 agosto 1996 il Tribunale
di Vibo Valentia, parzialmente accogliendo
l'appello proposto da
Giacinto F. F., dichiarò che dalla somma
liquidata dovevano essere detratta la somma
di lire 534.590 (con conseguente rivalutazione)
nel resto confermando l'impugnata sentenza.
A questa decisione il Tribunale giunge affermando
quanto segue.
1. Poiché la violazione del divieto di svolgere
contestualmente al rapporto di pubblico impiego
lavoro subordinato di natura privata ha conseguenze
meramente disciplinari e non incide sull'esistenza
e validità del contratto di lavoro privato
e del connesso rapporto previdenziale ed
assistenziale, il primo motivo dell'appello,
costituito dall'inesistenza d'ogni diritto
del ricorrente per la violazione del predetto
divieto, era infondato.
2. Infondato era anche l'assunto per cui,
poiché il rapporto di lavoro subordinato
è caratterizzato dal vincolo di soggezione
del lavoratore al potere direttivo del datore
e dalla dedizione del lavoratore al suo datore,
il rapporto in esame, caratterizzato da mera
occasionale collaborazione, condizionata
alla libertà da altri preminenti impegni
di pubblico impiegato, non avrebbe avuto
natura subordinata. Il rapporto di lavoro
dipendente, ed in particolare in agricoltura,
è compatibile con iniziativa e discrezionalità
del lavoratore. E nel caso in esame, come
emergeva dalle molteplici testimonianze,
il M. si era occupato di tutte le esigenze
dell'azienda (redigendo contratti di conduzione,
riscuotendo canoni di affitto, vigilando
la coltivazione, curando i rapporti con legali,
enti pubblici, banche, fisco). Ed era irrilevante
il fatto che il M. avrebbe curato solo una
delle 29 operazioni finanziarie e 5 dei 121
contratti di vendita, e non avrebbe curato
girate di effetti cambiari né rivestito la
qualità di amministratore o procuratore dell'azienda.
3. Poiché il contratto collettivo è vincolante
anche ove sia accettato dalle parti per facta
concludentia [2] ed è utilizzabile dal giudice anche come
parametro per l'adeguamento della retribuzione,
l'omessa indicazione del contratto collettivo
applicabile e l'assenza di iscrizione delle
parti ad organizzazione sindacale erano irrilevanti.
4. L'eccezione di prescrizione, non formulata
con l'atto introduttivo del giudizio in primo
grado, era inammissibile.
5. Dalla somma dovuta al M. doveva essere
detratta la somma di lire 7.057.037, rivalutazione
di quanto corrispostogli per i diritti di
mediazione nel corso del rapporto.
6. Poiché attraverso la prova testimoniale
era emerso il lungo quotidiano impegno lavorativo
del M. in azienda (di pomeriggio ed anche
al mattino, durante le ferie estive del lavoro
di insegnante), era infondato l'appellante
assunto relativo all'assenza della prova
in ordine ad un lavoro quotidiano di otto
ore ed all'inipotizzabilità d'un rapporto
di lavoro full time.
7. Essendo accertato che Il F. F. era proprietario
di ampia impresa agricola, l'eccezione relativa
all'assenza di legittimazione passiva era
infondata.
8. La coesistenza del rapporto di lavoro
privato con il rapporto di pubblico impiego
non escludeva l'obbligo datorile di costituire
il conseguente rapporto previdenziale.
Per la cassazione di questa sentenza ricorre
Francesco F. F., procuratore generale di
Giacinto F. F., percorrendo le linee di 5
motivi poi illustrati con memoria. Resiste
Antonio M. con controricorso, poi illustrato
con memoria.
E' stata disposta, e tempestivamente eseguita
l'integrazione del contraddittorio nei confronti
dell'INPS e dell'EMPAIA.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo, denunciando per violazione
degli artt. 1723 e 1726 cod. civ. [3], dell'art. 36 Cost. [4], e degli artt. 3 e 5 del R.D. 10 settembre
1923 n. 1956 [5] nonché carente e contraddittoria motivazione,
il ricorrente
sostiene che
1.1. la ritenuta applicazione del contratto
collettivo in quanto recepito dalle parti
per facta concludentia non sarebbe ipotizzabile
per la tredicesima mensilità, per la quattordicesima
mensilità, per la retribuzione del lavoro
straordinario e per la retribuzione del lavoro
festivo, non applicato in alcun modo nei
confronti del M. (come lo stesso Tribunale
riconosce attraverso la condanna al pagamento
delle relative somme) né nei confronti di
altri dipendenti;
1.2. il contratto stesso sarebbe applicabile
quale parametro solo per la retribuzione
base: non per gli accessori (tredicesima
mensilità, quattordicesima mensilità, scatti
di anzianità, indennità per titolo di studio,
premio di incentivazione) e l'indennità di
contingenza, pur riconosciuti ex art. 36
Cost.
1.3. inapplicabile sarebbe anche il parametro
per la determinazione dei lavoro straordinario,
poiché, la materia è disciplinala dal RD.
10 settembre 1923 n. 1956 (esecuzione del
R.D.L. 15 marzo 1923 n. 692).
Con il secondo motivo, denunciando carente
e contraddittoria motivazione, il ricorrente
lamenta che il giudice di merito:
1. non aveva motivato l'acritica accettazione
(da parte del consulente tecnico d'ufficio
e poi del giudicante) delle ore di lavoro
e della retribuzione indicata dal ricorrente;
2. aveva determinato l'orario anche attraverso
l'utilizzazione di elementi episodici (telefonate
del sig. Bonenno, visite del sig. Patania);
3. aveva immotivatamente inquadrato l'azienda
fra le grandi aziende.
Con il terzo motivo, denunciando per l'art.
360 nn. 3 e 5 cod. proc. civ. violazione
dell'art. 112 cod. proc. civ. nonché:
omessa pronuncia, il ricorrente eccepisce
l'acritica accettazione del calcolo del consulente
tecnico d'ufficio, ove non era data alcuna
indicazione in ordine alla somma di 94.000.000
che per incarico del giudicante il consulente
avrebbe dovuto detrarre in quanto corrisposta.
Con il quarto motivo, denunciando violazione
ed errata applicazione degli artt. 1343 e
2126 cod. civ. e degli artt. 60 e segg. del
D.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3, il ricorrente
sostiene che il contratto di lavoro in controversia,
essendo in contrasto con norma imperativa
(che vieta al pubblico impiegato di assumere
altro continuativo lavoro), sarebbe nullo:
e pertanto alcuna conseguenza economica potrebbe
discenderne.
Con il quinto motivo, denunciando violazione
dell'art. 2094 cod. civ., il ricorrente premette
che l'individuazione del carattere subordinato
della prestazione implica una preliminare
indagine sulla volontà negoziale delle parti,
che consenta, in concreto, di ravvisare quel
vincolo di natura personale che assoggetta
il prestatore d'opera, con conseguente limitazione
della sua libertà, al potere direttivo (e
quindi organizzativo e disciplinare) del
datore di lavoro, vincolo che rappresenta
il proprium della subordinazione. E tuttavia
nel caso in esame il Tribunale aveva ignorato
l'impossibilità di coesistenza, anche per
"assoluta inconciliabilità storica e
logica" del rapporto di pubblico impiego
con un rapporto di lavoro subordinato. Aveva
poi ritenuto l'esistenza del contratto di
lavoro subordinato, non accertando preliminarmente
la volontà delle parti (nel suo contenuto
e nella sua direzione) e non esaminando come
l'attività di insegnante elementare potesse
coesistere con un'attività continuativa ed
a tempo pieno, con il luogo e con gli orari
del lavoro; ed aveva ritenuto di ravvisare
elementi sintomatici della subordinazione
nel luogo della prestazione, pur in assenza
d'un orario fisso (che il Tribunale qualifica
come "flessibile"), del pagamento
d'un corrispettivo mensile (che non era stato
detratto dalle somme accertate come retribuzione
dovutagli), e della "sostanziale indeterminatezza
di compiti e mansioni, affidate alla scelta
ed alla libera interpretazione del M."
ed invero, "ove si fosse concretamente
considerata la volontà delle parti in relazione
alla qualità di uno dei soggetti del rapporto
(il M. quale insegnante elementare), ciò
non poteva che condurre ad escludere gli
elementi della subordinazione quale vincolo
personale che assoggetta il prestatore d'opera
(con conseguente limitazione della sua libertà)
al potere direttivo (e quindi organizzativo
e disciplinare) del datore di lavoro. E ci
sarebbe da chiedere ....se il M. abbia subito
restrizioni della sua libertà personale da
non consentirgli di essere presente tutti
i giorni a scuola dalle ore 8 e 30 alle ore
12 e 30, ed inoltre quale forma, di subordinazione
e di dipendenza possa caratterizzare la prestazione
di un signore che asserisce di essersi occupato
del disbrigo di pratiche amministrative anche
presso enti pubblici che osservano un orario
proprio durante l'orario dell'insegnamento
nelle scuole elementari".
2. Con il controricorso si eccepisce che:
2.1. il resistente è direttamente vincolato
dal contratto collettivo, essendo diretto
rappresentante della categoria;
anche il Trattamento di fine rapporto è determinabile
attraverso il parametro collettivo;
2.2. la determinazione della retribuzione
e del relativo parametro è apprezzamento
di merito, insindacabile in sede di legittimità;
insindacabile è anche l'apprezzamento in
ordine al lavoro espletato;
2.3. dal precetto intimato era stata dedotta
la somma di lire 94.215.000, pagata dal debitore.
2.4. il contratto di pubblico impiego non
preclude agli insegnanti il rapporto di lavoro
privato, né determina la nullità del relativo
rapporto privato; ed il divieto ha effetti
esclusivamente nell'interesse della pubblica
amministrazione: non dei privati;
2.5. la volontà contrattuale era desumibile
dallo svolgimento del rapporto, accertato
attraverso la prova testimoniale.
3. E' stata disposta l'integrazione del contraddittorio
nei confronti dell'INPS e dell'ENPAIA. E'
da evidenziare che all'INPS non poteva essere
comunicata l'udienza di discussione, poiché
non aveva depositato controricorso ed aveva
depositato procura solo dopo la fissazione
della predetta udienza per provvedimento
del 3 febbraio 1999
(Cass. 1 febbraio 1991 n. 953).
4. E' preliminare l'esame del quinto motivo
poiché ha per oggetto la stessa ipotizzabilità
del rapporto di lavoro in controversia. Il
ricorrente contesta la decisione attraverso
una censura fondata su molteplici argomentazioni
(incompatibilità con il pubblico impiego,
carente esame della volontà delle parti,
assenza d'un orario di lavoro, indeterminatezza
delle mansioni, assenza di assoggettamento
del prestatore e di direttive del datore,
per questa molteplicità, il motivo è risonanza
anche di aspetti attinenti ad altri motivi).
Nell'ambito di questi aspetti è pregiudiziale
l'esame della censura avente per oggetto
l'astratta compatibilità della prestazione
in controversia con il rapporto di pubblico
impiego, poiché la censura investe il rapporto
nella sua stessa ipotizzabilità: possibilità
di esistenza non solo come concreta materialità
bensì come astratta configurabilità.
Dall'angolazione di questa astratta configurabilità,
il ricorrente sostiene la nullità del rapporto
per la violazione d'un divieto esistente
nei confronti del pubblico dipendente.
Questa censura è palesemente infondata. Come
esattamente rileva il controricorrente, il
divieto è posto nell'interesse della pubblica
amministrazione (in tal senso, anche Cass.
12 dicembre 1991 n. 13393); e la relativa
violazione, pur causa di eventuali sanzioni
disciplinari nei confronti del dipendente
pubblico, non determina la nullità del contratto
concluso fra i privati (Cass. 14 gennaio
1985 n. 58, 14 febbraio 1985 n. 1287, 22
maggio 1991 n. 5736).
Per mera esigenza di completezza è da osservare
che l'invocata nullità, non causata dall'illiceità
di cui all'art. 2126 cod. civ. (illiceità
dell'oggetto o della causa o dei motivi comuni
alle parti, ed identificabile solo nella
violazione dei principi etici fondamentali
dell'ordinamento: Cass. nn. 63 del 1973,
2434 del 1981, 4681 del 1987, 8830 del 1987),
non produrrebbe effetto per il periodo in
cui il contratto ha avuto esecuzione (art.
2126 primo comma cod. civ. che, come in altre
ipotesi normative in materia di lavoro, ha
fondamento non solo nell'umana natura della
prestazione bensì nel particolare meccanismo
contrattuale, caratterizzato dalla necessità
e dall'irreversibilità dell'anticipazione,
che esigono adeguata tutela del creditore).
E l'inefficacia di questa inefficacia (che,
negazione d'una negazione, è efficacia del
contratto) investe anche il rapporto contributivo.
Anche la censura avente per oggetto la concreta
materiale possibilità di coesistenza del
rapporto di lavoro privato con il rapporto
di pubblico impiego è infondato. Ed invero,
da un canto non è astrattamente da escludersi
che il pubblico impiegato possa, nel pur
limitato tempo residuo, impegnare le proprie
residue energie in altro lavoro, lavoro che,
nella ricorrenza degli elementi normativamente
necessari, ed in particolare le direttive
d'un datore che accetti questa coesistenza
ed il condizionamento di orari e di disponibilità
lavorativa, assuma anche natura dipendente.
D'altro canto, il Tribunale ha analiticamente
motivato, attraverso l'esame di molteplici
coerenti testimonianze, l'esistenza d'un
lavoro lungamente ed ininterrottamente prestato
dal ricorrente (sentenza, pp. 22, 23, 24),
e la relativa misura, ritenendo che si sia
trattato d'una ipotesi di lavoro full time"
(p. 26). Da un canto, la presenza di questi
elementi di fatto, adeguatamente motivata,
è valutazione di merito, che resta insindacabile
in sede di legittimità. D'altro canto il
ricorrente non ha fornito alcun concreto
elemento di segno contrario, idoneo a contestare,
in ordine a questi aspetti di fatto, il percorso
logico del giudicante ed a condurre ad una
diversa decisione.
Anche l'aspetto della censura con cui si
invoca quale strumento di qualificazione
del rapporto il determinante peso della volontà
delle parti è infondato. Giova a tal fine
osservare che, poiché l'iniziale contratto
è causa d'un rapporto che si protrae nel
tempo, la volontà che esprime e lo stesso
nomen juris che utilizza, pur necessari elementi
di valutazione, non costituiscono fattori
assorbenti; ed il comportamento posteriore
alla conclusione del contratto diventa elemento
necessario non solo (per l'art. 1362 secondo
comma cod. civ.) all'interpretazione dello
stesso iniziale contratto (Cass. 22 giugno
1997 n. 5520) bensì all'accertamento d'una
nuova diversa volontà eventualmente intervenuta
nel corso della relativa attuazione e diretta
a modificare singole clausole e talora la
stessa natura del rapporto di lavoro inizialmente
previste; e pertanto in caso di contrasto
fra iniziali dati formali e successivi dati
fattuali (emergenti dallo svolgimento del
rapporto), questi assumono necessariamente
un rilievo prevalente; ciò non solo nell'ambito
della tutela del lavoro subordinato (Cass.
22 giugno 1997 n. 5520) bensì (con ulteriore
fondamento) ai fini della necessaria tutela
del terzo (quale l'Istituto previdenziale)
il quale diventi parte d'un rapporto avente
causa dall'attuazione d'un contratto intervenuto
fra altri soggetti che lo hanno precostituito
nel proprio esclusivo interesse (eventualmente,
anche in suo danno).
5. Diversamente è a dirsi per quanto attiene
alla censura relativa all'assenza del l'assoggettamento
del prestatore e delle direttive del datore.
Giova premettere che, come questa Corte ha
ripetutamente affermato, ai fini della distinzione
fra rapporto di lavoro autonomo e rapporto
di lavoro subordinato, in sede di legittimità
è censurabile solo ciò che attinge alla lettura
del modulo normativo: l'individuazione del
parametro ivi descritto. L'accertamento dell'effettiva
presenza degli elementi (che caratterizzano
il parametro) attraverso la valutazione delle
risultanze processuali ed il conseguente
inquadramento della concreta prestazione
nell'astratto modulo normativo è apprezzamento
di fatto:
valutazione del giudice di merito che, immune
da errori giuridici ed adeguatamente motivata,
resta insindacabile in
sede di legittimità (Cass. 3 ottobre 1994
n. 8006).
Come è stato ripetutamente affermato, l'elemento
di qualificazione del rapporto di lavoro
subordinato è costituito dalla permanenza
dell'obbligo del lavoratore di mantenere
a disposizione del datore l'attività lavorativa
nella sua indifferenziata materialità (come
operare), e dalla permanenza del suo conseguente
assoggettamento al potere direttivo e disciplinare
del datore, con la conseguente limitazione
della sua autonomia ed il suo inserimento
nell'organizzazione aziendale (per l'obbligo,
Cass. 15 maggio 1987 n. 4515, 14 febbraio
1985 n. 1287; per le direttive, Cass. 4 marzo
1998 n. 2370, 25 luglio 1994 n. 6919).
Altri elementi quali l'assenza di rischio,
la continuità della prestazione, l'osservanza
di un orario e la forma della retribuzione
assumono natura meramente sussidiaria e non
decisiva (Cass. 15 maggio 1991 n. 5409, 29
marzo 1990 n. 2553).
D'altro canto, poiché alla base del contratto
è la volontà delle parti, è ben ipotizzabile
che le parti stesse (ed in particolare il
datore) convengano su orari assolutamente
flessibili (condizionati alla contingente
disponibilità del prestatore) e su mansioni
non specificamente predeterminate. E pertanto
nel caso in esame anche la censura avente
per oggetto l'elasticità degli orari e l'indeterminatezza
delle mansioni è infondata. E tuttavia, la
pur limitata indeterminatezza di orari e
mansioni non esclude la natura subordinata
del rapporto, solo ove sia il prodotto dell'indicato
obbligo del prestatore, e dell'indicato assoggettamento
al potere del datore: obbligo ed assoggettamento
che, in quanto fondamento e giustificazione
dell'indeterminatezza, in questa eventuale
indeterminatezza assumono rilievo (ancor
più) determinante.
Ed invero, nell'assenza di mansioni ed orari
predeterminati (giustificata dal particolare
settore di attività, quale, l'agricoltura),
la congiunta assenza dell'indicato obbligo
del lavoratore, e del suo conseguente assoggettamento,
non consentirebbe di distinguere adeguatamente
il lavoro subordinato da una forma di lavoro
autonomo svolto con piena intensità e diffusa
partecipazione, quale l'opera d'un collaboratore
che si occupi di ogni necessità di una grande
azienda.
Né, in questa ipotesi, assumerebbe funzione
determinante un inserimento che si esaurisse
in una mera pur protratta presenza, ed in
una diffusa partecipazione ai problemi aziendali
(quali, anche la risoluzione di questioni
contrattuali, fiscali e tributarie). Ed invero,
questa presenza e questa partecipazione,
da un canto potrebbero mancare (mansioni
esterne) e non escludere tuttavia la subordinazione
e d'altro canto potrebbero essere il mero
riflesso dell'intensità e della durata di
un lavoro svolto con (anche piena) autonomia,
ed in tal modo non esprimere la subordinazione.
Normativamente necessari alla subordinazione
sono l'obbligo del lavoratore (come precedentemente
indicato) ed il suo conseguente assoggettamento
alle direttive del datore (art. 2094 cod.
civ.). E pertanto solo l'esistenza e la permanenza
di questi elementi consente di affermare
la subordinazione.
Nel contempo, poiché l'azienda è una struttura
organizzata che fa capo all'imprenditore
(e questo far capo è l'aspetto qualificante
dell'organizzazione e della stessa azienda:
ex art. 2082 e 2555 cod. civ.), l'inserimento
nell'azienda è tale solo in quanto inquadramento
in una struttura che faccia capo al titolare.
Attraverso il riferimento all'imprenditore
(necessario alla qualificazione dell'inserimento),
l'inserimento stesso diventa il mero aspetto
del fatto (sussistenza e permanenza dell'obbligo
e del l'assoggettamento) che caratterizza
la subordinazione e, in assenza di elementi
che integrino questo fatto, resta di per
sé insufficiente a qualificare la subordinazione.
Concretamente risolvendosi in un mero aspetto
dell'indicato obbligo e dell'indicato assoggettamento
(elementi normativamente necessari al rapporto
di subordinazione), l'inserimento del lavoratore
nell'azienda non solo non è, parametro di
qualificazione, bensì non resta idoneo a
provare, di per sé solo, questi elementi,
ed ad esprimere l'esistenza della subordinazione.
E' pertanto da affermare il principio per
cui, "nelle situazioni ove, per la particolare
attività (come ) in alcune forme di lavoro
in agricoltura), alcuni aspetti (orari, mansioni)
non assumono natura rigida, il mero inserimento
del lavoratore nell'azienda non è parametro
di qualificazione della subordinazione, né
può costituire elemento esclusivo per dedurre
la subordinazione stessa, il parametro di
qualificazione si risolve necessariamente
negli elementi (non diversamente deducibili)
dei quali l'inserimento è mera conseguenza:
la sussistenza e la permanenza dell'obbligo
del lavoratore di mantenere a disposizione
del datore l'attività lavorativa nella sua
indifferenziata materialità (come operae),
e la sussistenza e la permanenza del suo
conseguente assoggettamento al potere direttivo
e disciplinare del datore".
Baricentro della controversia è pertanto
la necessità di accertare l'effettiva esistenza
di questi elementi. E nel caso in esame il
Tribunale, pur ponendo in luce alcuni aspetti
specifici dell'attività (ove "la fattispecie,
concreta, concernente le esigenze di conduzione
di un'azienda agricola, comporta tempi di
attività, iniziative adeguate e comportamenti
prestazionali del dipendente non programmabili
con troppa precisione ed a contenuto variabile":
sentenza, p. 14), ne deduce uno specifico
carattere della subordinazione ("attuata
in termini più funzionali che tecnici"),
espresso dalla possibilità che questa si
concretizzi "nella sola sistematica
inserzione della prestazione del lavoratore
nell'organizzazione unitaria dell'impresa,
ancorché senza un'effettiva direzione da
parte del datore" (sentenza, p. 15).
In tal modo il Tribunale, pur in assenza
di un'affermazione precisa e categorica,
da un canto adombra la possibilità che nel
rapporto in controversia manchi una "effettiva"
direzione da parte del datore e nel contempo
non afferma, come principio, né accerta,
nei fatti, la sussistenza e la permanenza
dell'obbligo, da parte del lavoratore, di
porre a disposizione la sua opera, e del
suo conseguente assoggettamento alle direttive
del datore.
Ciò conduce, nell'accoglimento del quinto
motivo (limitatamente all'indicato aspetto
della censura), alla cassazione della sentenza
ed al rinvio a contiguo giudice di merito,
che, nell'applicazione dell'indicato principio,
dovrà procedere ad un nuovo esame di merito
della materia controversa, nei limiti delle
censure accolte, provvedendo anche alla disciplina
delle spese del giudizio di legittimità.
PQM
La Corte accoglie il quinto motivo del ricorso,
dichiara assorbiti gli altri, e rinvia, anche
per le spese, al Tribunale di Catanzaro.
Così deciso in Roma il 10 marzo 1999.
Depositato in cancelleria il 25 febbraio
2000.