Biso
Simona
D’Angelo
Anna
Esposito Antongiulio
Volkmann-Dinesen Jens
IL
CONFLITTO TRA INDIVIDUO E COLLETTIVITA’
NELLA TUTELA DEI DIRITTI DELL’UOMO
1.
Diritti.
Prima
di esaminare nello specifico se è presente o meno un conflitto tra individuo e
collettività analizziamo cosa s’intende per diritti dell’uomo.
E’
connaturata alla natura dell’uomo la ricerca della felicità, quanto meno la
tendenza a perseguire azioni o comportamenti che lo rendono il meno infelice
possibile, che gli procurano la minore sofferenza possibile, che lo portano cioè
ad esorcizzare angosce e paure, quali ad esempio la morte. La consapevolezza
dello stato di sofferenza, miseria, indigenza, in genere d’infelicità in cui
potrebbe trovarsi e l’esigenza di uscirne, hanno portato l’uomo a
trasformare il mondo per renderlo meno ostile. Ci si serve di tecniche
produttrici di strumenti per trasformare il mondo materiale, da qui
l’irreversibile progresso tecnico-scientifico oggi sempre più rapido ed
incontrollabile, e si creano regole di condotta, diritti ed obblighi, rivolte a
modificare rapporti individuali al fine di una convivenza pacifica e della
stessa sopravvivenza del gruppo. Questo è il progresso morale (ma è effettivo
? Come si può misurare ?).
I
diritti dell’uomo oggi solennemente enunciati in una Dichiarazione universale
e in varie Dichiarazioni regionali si inseriscono nel contesto del progresso
verso il meglio del genere umano. Bisogna comunque notare che sono frutto di
lotte contro il dogmatismo delle Chiese e contro l’autoritarismo degli Stati e
di ben due guerre mondiali. Dai diritti naturali, cioè diritti dell’uomo in
quanto tale, fino ai diritti di “libertà da” e di “libertà di” si è
giunti a quelli che oggi sono configurati come diritti politici e sociali. I
diritti sono dunque lo specchio delle richieste derivanti dalla società,
fenomeni sociali propri di ogni epoca storica.
L’alta
complessità che caratterizza i rapporti sociali contemporanei ha prodotto la
specificazione dei diritti dell’uomo, già positivizzati e internalizzati, cioè
il passaggio graduale sempre più accentrato verso un’ulteriore determinazione
dei soggetti titolare di diritti (donne, anziani, malati, ecc.)
A
questo punto però è necessario distinguere la teoria dei diritti dell’uomo
dalla prassi. L’effettività della crescita morale non si può misurare con il
solo piano ideale cioè parlando e basta dei diritti dell’uomo, è necessario
scendere sul piano reale cioè quello che deve assicurare loro una protezione
effettiva. E’ dunque necessario misurare il contrasto tra le solenni
dichiarazioni e la loro concreta attuazione, fra la grandiosità delle promesse
e la miseria degli adempimenti.
I
diritti dell’uomo storicamente sono passati da un sistema di diritti in senso
forte, da codici di norme naturali a codici di sistemi giuridici nazionali che
li riconoscono e li tutelano.
Oggi
con le varie carte dei diritti internazionali siamo passati da un sistema più
forte come quello di uno Stato di diritto democratico ad uno più debole come
quello internazionale. Qui i diritti proclamati sono sostenuti dalla pressione
sociale e sono ripetutamente violati senza punizioni, al massimo una condanna
morale (Patti del 1966 e meccanismi di controllo).
La
Comunità Internazionale è dunque priva di un potere forte che possa reprimere
le violazioni dei diritti dichiarati. Si potrebbe quindi concludere affermando
che i diritti dell’uomo universali sono diritti in senso improprio, essendo
“richieste” di diritti futuri moralmente necessari per la generalità degli
Stati che si professano democratici e civili. Potranno essere definiti diritti
solo quando saranno “aspettative soddisfacibili perché protette”.
2.
Stati democratici.
Dopo
l’introduzione passiamo al tema centrale del nostro argomento, ossia se esiste
davvero un conflitto tra individuo e collettività nella tutela dei diritti
dell’uomo.
Partiremo,
comunque, dalla analisi del termine “diritto” per provare a confutare una
vecchia distinzione, ossia quella fra diritti positivi e diritti negativi.
Infatti, finora, si è sempre fatta una distinzione tra diritti negativi, che
avevano la caratteristica di richiedere una “libertà da“ (dallo Stato),
ossia con tali diritti vi era una richiesta di meno Stato (ad esempio: libertà
di parola, assemblea, riunione, religione, proprietà privata, libertà
personali), e diritti positivi, ossia “libertà di”, in cui vi è una
richiesta di più Stato (ad esempio l'assistenza sociale e sanitaria,
istruzione, tutela dell’ambiente, ecc.).
Ma
in realtà tale distinzione può considerarsi obsoleta, poiché ogni diritto,
sia quelli di esser lasciati in pace (dagli altri come dallo Stato) sia quelli
di essere aiutati (dallo Stato prima che dagli altri), comporta una serie più o
meno ampia di interventi pubblici, sia pure in maniera diversa, ma comunque
onerosa.
Alcuni
esempi potranno chiarire meglio la precedente affermazione: è pacifico che
diritti positivi come il diritto all’assistenza sociale comporti un costo per
lo Stato, ma anche la libertà di parola (considerato un diritto negativo)
comporta a sua volta un costo per lo Stato, il quale deve garantire
l’individuo di poter esprimere il proprio pensiero e deve impedire che altri
soggetti ostacolino l’esercizio di tale diritto. Anche lo stesso diritto di
proprietà rappresenta un costo per lo Stato: infatti, lo Stato deve intervenire
per evitare possibili occupazioni illegali, incendi, furti, ecc. Possiamo quindi
affermare che ogni giorno “catastrofi” private vengono evitate o mitigate
grazie a consistenti, addirittura massicce, spese pubbliche.
Quindi,
da tutto quanto scritto sopra, si può rilevare l’importanza dello Stato per
la tutela dei diritti. Ma lo Stato per difendere tali diritti ha bisogno di
fondi (poiché la tutela di ogni diritto ha un costo); infatti, solo creando
delle determinate strutture i diritti sono effettivi, vengono tutelati e non
rimangono più solo sulla carta.
Quindi,
poiché la tutela di diritti comporta costi elevati, i diritti non possono
essere protetti o riconosciuti senza il sostegno ed il finanziamento pubblico.
A
questo punto, tornando al tema centrale della nostra analisi, lo Stato
attraverso le tasse a carico dell’intera collettività difende i diritti dei
singoli; quindi, i diritti dei singoli vengono protetti grazie ai soldi della
collettività. Accade spesso, infatti, che risorse alle quali ha contribuito
l’intera collettività siano destinate alla tutela di alcuni cittadini.
Si
può quindi affermare che in una società libera, un individuo non è in grado
di creare le condizioni della sua autonomia da solo, ma solo collettivamente e
quindi all’interno di uno Stato che riesce a tutelare effettivamente i diritti
dell’uomo; il contrasto tra individuo e collettività non è presente, poiché
lo Stato garantendo tali diritti promuove allo stesso tempo sia il benessere
individuale sia quello collettivo.
Con
un esempio proveremo a chiarire ciò che abbiamo precedentemente esposto: la
libertà di espressione di un singolo giova a tutti, in larga misura, grazie ai
suoi effetti sociali; riduce il rischio di interventi statali mal concepiti,
promuove il progresso scientifico, incoraggia la diffusione della conoscenza e
assicura che le prepotenze e gli abusi pubblici siano all’occasione
fronteggiati da energiche proteste. Quindi come la libertà di espressione,
anche il diritto al giusto processo o la libertà di religione, o il diritto a
non subire arresti arbitrari, ecc. promuovono al tempo stesso sia il benessere
individuale sia quello collettivo: in tutti questi, i diritti in questione
assicurano benefici per molti, al di là di coloro che al momento lo
rivendicano. Questa è una delle ragioni per cui il costo della tutela della
maggior parte dei diritti è a carico della fiscalità generale e non solamente
di coloro che se ne avvalgono.
Una
società è tenuta insieme anche grazie alla diffusa consapevolezza dei vantaggi
reciproci. La società prospera se gli individui assistono a vicenda, se
sottostanno a regole chiare, equamente imposte a tutti e se danno il loro
contributo agli sforzi comuni diretti al perseguimento di obiettivi collettivi.
Quando tutto ciò si verifica allora il peso che i singoli devono sopportare è
assai minore dei vantaggi individuali e collettivi che ne derivano.
Da tutto
ciò che abbiamo precedentemente affermato risulta, quindi, che è fondamentale
il ruolo dello Stato per la tutela dei diritti, in quanto solo lo Stato può
effettivamente tutelare tali diritti, ma per farlo ha bisogno di fondi che
vengono dall’intera collettività; quindi si pone il problema delle differenze
tra Stati ricchi (caso di cui abbiamo sopra trattato) e Stati poveri (caso di
cui ci accingiamo a trattare).
3.
Stati: Asia.
Alla
Conferenza sui diritti dell’uomo a Bangkok nel marzo 1993 tra gli Stati
asiatici viene sottolineato che i diritti dell’uomo sanciti nella
Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, invece di essere
universali sono un prodotto della cultura dei paesi occidentali. Nel cercare di
imporre questi diritti agli Stati asiatici, l’Occidente tenterebbe di imporre
loro il proprio modello politico, sociale ed economico, rallentando lo sviluppo
dei paesi poveri del mondo, in quanto l’imposizione di standard di diritti
civili, sociali e politici per gli individui implica alti costi e farebbe
mantenere così agli Stati occidentali il loro predominio internazionale.
Quindi
gli Stati asiatici ritengono che si giusto dare preminenza al diritto allo
sviluppo piuttosto che ai diritti dell’uomo. Come conseguenza in questi Stati
è forte il conflitto tra individuo e collettività in quanto i diritti
dell’uomo, cioè dell’individuo, vengono sacrificati nel nome dello sviluppo
generale della società.
4.
Chiesa cattolica.
Così
come lo Stato svolge un ruolo fondamentale nella tutela dei diritti umani, anche
la Chiesa occupa oggi una posizione dominante relativamente a questo tema.
Tuttavia la posizione della Chiesa nel corso degli anni non è stata la stessa
ma ha invece subito una graduale evoluzione che è sfociata, oggi, in un ruolo
attivo e determinante nella promozione e salvaguardia dei diritti fondamentali
dell’individuo.
La
posizione iniziale della Chiesa, ostile all’affermazione dei diritti
dell’uomo, deriva dagli atteggiamenti di prevaricazione e talora di condanna
dei Papi verso grandi cambiamenti prodotti dai nuovi ideali di libertà,
progresso, laicizzazione della società, affermatisi con la filosofia
illuminista e con la rivoluzione francese. La svolta concreta
dell’accettazione dei diritti dell’uomo nella loro formulazione moderna è
avvenuta con l’enciclica di Giovanni XXIII° “Pace in terra” del 1963.
Essa è soprattutto l’inizio di una ricerca di valori umani. In tale ricerca
viene esaminato il rapporto dell’uomo con gli altri uomini e con i pubblici
poteri. In particolare si afferma che i principali compiti dei pubblici poteri
consistono nel riconoscere, rispettare, promuovere quei diritti e nel facilitare
l’adempimento di rispettivi doveri. Nel 1963 Giovanni XXIII° elogiava la
Dichiarazione del 1948 e riconosceva il processo storico che aveva condotto a
formulare tale Dichiarazione sulla dignità di ogni essere umano. Viene elogiata
quale atto della più alta importanza compiuto dalle Nazioni Unite. Il documento
segna un passo importante verso l’organizzazione giuridica e politica della
Comunità Mondiale. In esso viene riconosciuta la dignità di persona a tutti
gli esseri umani. Viene proclamato come ideale da perseguire da tutti i popoli e
da tutte le Nazioni l’effettivo riconoscimento e rispetto dei diritti
fondamentali e delle rispettive libertà. Si auspica che un giorno gli individui
possano trovare nelle Nazioni Unite una tutela efficace in ordine a quei diritti
che scaturiscono dalla loro dignità come persone e che perciò sono universali
e inalienabili.
Un
altro documento che esprime tale cambiamento e dunque l’assunzione di
responsabilità del magistero papale riguardo al tema dei diritti umani è “la
Chiesa e i diritti dell’uomo” del 1975. Tale documento si apre con
un’affermazione di Paolo VI°; egli afferma che se i diritti fondamentali
dell’uomo rappresentano una base comune di tutta l’umanità verso la
conquista della pace è necessario che tutti gli individui prendano coscienza di
tale realtà e si rendano conto dell’importanza della correlazione tra diritti
e doveri (i diritti del singolo e il dovere della collettività di rispettarli).
L’apertura
della Chiesa ai diritti umani è stata pienamente sancita dal Concilio Vaticano
II° dove si afferma il ruolo dinamico della Chiesa nella promozione dei diritti
umani. Il ruolo della Chiesa, oggi, è importante nel campo dei diritti umani,
soprattutto nel contesto fra individuo e collettività nella tutela dei diritti
dell’uomo. E’ la Chiesa, infatti, che educa ai diritti dell’uomo e
soprattutto al rispetto degli altri e di tutte quelle differenze che
caratterizzano ogni essere umano.
In
un messaggio per il 30° anniversario della Dichiarazione universale Giovanni
Paolo II° afferma che la base dei diritti umani è la dignità della persona.
E’ su questa base che nascono e possono prosperare i diritti individuali e
sociali fondamentali. Solo il rispetto di questo vasto insieme dei diritti umani
costituisce la condizione fondamentale per la pace nel mondo. Il rispetto della
persona umana implica il rispetto dei diritti che scaturiscono dalla sua dignità
di essere umano. Questi diritti sono anteriori alla società e ad esse si
impongono. Essi sono il fondamento della legittimità morale di ogni autorità.
Se tale rispetto manca un’autorità può poggiare solo sulla forza e sulla
violenza per ottenere l’obbedienza dei propri sudditi. E’, perciò, compito
della Chiesa rilevare alla memoria degli uomini questi diritti e distinguerli
dalle rivendicazioni false.
Adesso
passiamo ad analizzare il conflitto tra individuo e collettività negli Stati
islamici.
5.
Islam.
In
molti Stati islamici c’è un forte conflitto tra individuo e collettività. Il
fondamento del diritto musulmano è Dio che è soggetto ultimo dei diritti, cui
corrispondono doveri da parte dell’uomo. Quindi i diritti dell’uomo sono
rispettati soltanto se compatibili con la Sharia che è la Legge islamica
attraverso cui il volere divino trova concreta applicazione nell’ordine
sociale. La Sharia è legittimata dalla rivelazione e dunque è superiore
a qualsiasi altra legge frutto di iniziativa umana.
Il
diritto musulmano si basa su tre fondamentali relazioni di disuguaglianze: la
disuguaglianza tra uomo e donna, tra musulmano e non musulmano, tra libero e
schiavo.
Sulla
base di questo si fonda quindi, ad esempio, il diniego ad ammettere il
matrimonio delle donne musulmane con il non musulmano, oppure l’impossibilità
per il musulmano di cambiare religione. Inoltre per la Dichiarazione del Cairo
dei diritti dell’uomo nell’islam, approvata al Congresso dei ministri degli
esteri dell’Organizzazione della Conferenza Islamica nel 1990, l’individuo
ha diritto di esprimere liberamente la sua opinione a patto che non sia
contraria ai principi della Legge islamica. Inoltre non si può sfruttare
l’informazione abusandone o offendendo le cose sacre e la dignità dei
profeti. E’ vietato adottare comportamenti che rechino oltraggio ai valori
morali o che provochino disgregazione e corruzione nella società,
danneggiandone o scalzando la religione. La stessa Dichiarazione dei diritti
dell’uomo dell’Islam consente allo Stato o alla “comunità musulmana” di
intervenire per impedire atti ritenuti contrari all’ortodossia islamica. Così
secondo l’interpretazione tradizionalista e maggioritaria dell’Islam
prevalgono i diritti della comunità sui diritti del singolo. Questa tesi è
stata ed è uno strumento importante per chi sta al potere perché lascia spazio
all’arbitrio nei confronti del singolo.
Negli
ultimi anni alcuni movimenti islamici hanno denunciato gli Stati musulmani per
violazione dei diritti umani nei loro confronti. Hanno tuttavia un rapporto
ambiguo con questi diritti in quanto vorrebbero, nel caso in cui conquistassero
il potere, procedere alla totale applicazione della Sharia, quindi
allontanarsi anziché avvicinarsi alla Dichiarazione del 1948.
All’interno
dell’Islam c’è peraltro anche chi pensa che la religione si dovrebbe
avvicinare alla società moderna. Esiste un’interpretazione interessante della
Sharia che aprirebbe al rispetto maggiore dei diritti dell’uomo: come detto il
diritto musulmano si basa sulla disuguaglianza tra uomo e donna, tra musulmano e
non musulmano, tra schiavo e libero. Nella Sharia è presente anche il
concetto di finalità. Nel caso della schiavitù si afferma che l’intenzione
ultima del legislatore era quella di abolirla attraverso un percorso giuridico e
sociale progressivo, cioè attraverso il continuo miglioramento della condizione
dello schiavo fino all’abolizione della schiavitù. Così alcuni autori
sostengono, contrariamente all’opinione maggioritaria, che le altre
disuguaglianze svilupparsi similmente fino alla loro estinzione. Questa tesi è
interessante perché avvicinerebbe il diritto degli Stati islamici ai diritti
dell’uomo, rimanendo all’interno della religione islamica.
Finora
abbiamo sviluppato il conflitto tra individuo e collettività all’interno dei
vari tipi di Stati ed anche il ruolo della Chiesa. Però tale conflitto può
sorgere anche tra una multinazionale ed una popolazione. Emblematico è il caso
della Nestlè.
6.
Nestlè.
Nel
1974 i gruppi di lavoro svizzeri per la politica di sviluppo avevano tradotto un
opuscolo inglese sul modo di operare nei paesi del terzo mondo da parte delle
grandi imprese multinazionali nel settore del latte in polvere. L’opuscolo
descrive come queste imprese conducono campagne pubblicitarie ingannevoli e del
tutto insufficienti dal punto di vista dell’informazione. L’uso corretto del
latte in polvere prevede ad esempio che si lavino le mani con il sapone prima di
preparare il pasto del bambino mentre il 66% delle casalinghe della capitale del
Malawi non ha acqua corrente e il 60% non ha cucine all’interno
dell’abitazione. Si prevede la conservazione del latte già preparato in
frigorifero, ma le famiglie africane che vivono in campagna non hanno il
frigorifero. Inoltre le istruzioni d’uso sono scritte mentre la stragrande
maggioranza delle madri del Terzo Mondo è analfabeta. Poi il latte viene
diluito con acqua inquinata. Tutti questi fattori rendono il latte in polvere
mortale per i bambini. L’allattamento al seno sarebbe molto più sano, mentre
il latte in polvere serve per quei neonati che non possono essere allattati
dalle madri, ad esempio per i gemelli e per gli orfani. Ma le multinazionali
usano slogans come “i vostri bambini saranno più intelligenti” e vestono i
propri rappresentanti di commercio da infermieri che consigliano l’uso di
questi prodotti. Inoltre regalano campioni gratuiti alla madre.
Questi
gruppi di lavoro svizzeri hanno dato il titolo alla loro traduzione “Nestlè
uccide i bambini” e sono stati ovviamente querelati dalla multinazionale per
diffamazione. Durante il giudizio i gruppi di lavoro hanno mostrato i metodi di
commercializzazione della Nestlè nel Terzo Mondo. Hanno anche mostrato come la
distribuzione gratuita dei campioni del loro prodotto, nel caso in cui le madri
lo usano, il che è frequente vista la pubblicità ingannevole, già dopo tre
giorni senza avere allattato al seno il bambino, può esaurire la funzione del
petto come fonte del latte e quindi la madre è costretta a continuare a
comprare il latte in polvere della Nestlè.
Il
giudice svizzero in questo caso da ragione ai gruppi di lavoro, ma si
contraddice tuttavia nella sentenza in quanto sostiene che non si può accusare
la Nestlè di uccidere i bambini in quanto la responsabilità è delle madri.
Dice questo quando poche righe prima ammette che le madri stesse sono vittime di
una pubblicità ingannevole e che l’informazione è incompleta. Quindi il
risultato del processo è che i gruppi di lavoro vengono condannati, non per
diffamazione (per il diritto svizzero ci vuole la mala fede), ma per il reato di
calunnia.
L’effetto
di questo caso ha peraltro avuto grande risonanza sia negli Stati occidentali,
sia nel Terzo Mondo. Nel 1981 è stato adottato dall’Organizzazione Mondiale
della Sanità un codice per il marketing internazionale di sostituti del
latte materno: contiene norme importanti sulla pubblicità dei prodotti e
sull’uso di consegnare campioni gratuiti alle madri. Il codice ha tuttavia
incontrato l’opposizione di alcuni Stati (U.S.A., Argentina, Giappone, ecc.).
Le multinazionali hanno ritenuto il codice contrario alle esigenze sanitarie dei
bambini e un attacco alla economia di mercato e alla libertà di parola.
Quindi
la domanda è se è giusto limitare il diritto alla libertà di parola e alla
libertà di iniziativa economica nel nome della tutela della collettività
internazionale.
7.
Barbie.
Finora
abbiamo analizzato i possibili conflitti tra individuo e collettività; adesso
invece passiamo ad analizzare una possibile reazione verso gravi violazioni di
diritti.
L’art.
6 dell’Accordo di Londra del 1945, istitutivo del Tribunale di Norimberga e
considerato come un monumento importantissimo della moderna civiltà giuridica,
aggiunge alla categoria dei crimini di guerra due nuove categorie di reati:
quella dei crimini contro la pace e quella dei crimini contro l’umanità.
Durante la seconda Guerra Mondiale gli Alleati si accorsero che limitandosi alla
categoria dei crimini di guerra non sarebbe stato possibile punire adeguatamente
le atrocità die nazisti.
Per
crimini di guerra, una categoria tradizionale del Diritto Internazionale, si
intendono tutte quelle violazioni gravi di norme riguardanti la condotta bellica
e norme sulla protezione dei civili (persone che non prendono parte alle ostilità).
Cioè violazioni gravi commesse a danno del nemico o della popolazione nemica,
quali: tortura o uccisione di civili o di prigionieri di guerra, bombardamento
di città indifese o di chiese o monumenti storici, l’uso di armi proibite.
Tradizionalmente
gli autori dei crimini di guerra sono giudicati o dallo Stato cui appartengono o
più frequentemente dalle autorità dello Stato avversario, o dai tribunali
internazionali come avvenne dopo la seconda Guerra Mondiale a Norimberga e
Tokio.
Durante
la seconda Guerra Mondiale i misfatti nazisti non erano classificabili come
crimini di guerra (per esempio l'uccisione o la persecuzione di cittadini
tedeschi per ragioni di religione, razza, politiche o azioni simili perpetrate
contro i cittadini di Stati non occupati, come gli ebrei austriaci). Le potenze
alleate, non potendo lasciare questi crimini impuniti, violarono uno dei
pilastri fondamentali dei moderni ordinamenti giuridici, il principio “nullum
crimen sine lege”, nessuno può essere punito per una atto che, al momento del
suo compimento, non era considerato come criminoso, applicando retroattivamente
la legge penale (ex post facto) ai crimini contro l’umanità.
Tale
norma vieta due categorie di azioni: “L’assassinio, lo sterminio, la
riduzione in schiavitù, la deportazione ed atti disumani commessi contro
qualsiasi popolazione civile” e la “persecuzione per ragioni politiche,
razziali o religiose”. I crimini contro l’umanità possono essere
rappresentati come un cerchio che comprende in sé il cerchio più piccolo dei
crimini di guerra: uno stesso fatto può essere qualificato doppiamente come
crimine di guerra e crimine contro l’umanità. Il fondamento è da ricercare
nella tutela dei diritti dell’uomo, di due in particolare: diritto
all’eguaglianza, senza distinzione di razza, colore e nazionalità e il
diritto al rispetto delle opinioni politiche e religiose di ciascuno. Chi
commette atti inumani e crudeli non viola solo leggi e usi di guerra creati
dagli uomini per tenere la coscienza tranquilla e legittimare il ricorso alla
forza assolutamente necessaria, ma offende la condizione umana, la dignità
dell’umanità. Tali crimini sono imprescrittibili; le colpe di un individuo
che si è macchiato di barbarie non hanno scadenza. Klaus Barbie nel 1987 viene
processato per l’imputazione di crimini contro l’umanità commessi quaranta
anni prima e condannato all’ergastolo dai giudici di Lione. Il processo, che
per Cassese è stato giuridicamente equo ma in parte strumentalizzato dagli
organi che dirigono l’opinione pubblica in Francia per far conoscere gli
orrori nazisti, ha assunto inevitabilmente una valenza simbolica: anche se in
ritardo la società democratica francese è riuscita a punire adeguatamente un
efferato criminale e a rendere gloria alla memoria delle vittime, fra cui quella
di uno degli eroi della resistenza francese, Jean Houlin. Il suo valore è
quello di evitare il ripetersi di simili misfatti o comunque di deterrente verso
potenziali criminali. La Francia ha avuto il diritto di giudicare un uomo che
quaranta anni prima aveva agito in conformità delle leggi del proprio Stato
perché il Diritto Internazionale attuale ha autorizzato la Francia a ritenere
Barbie colpevole di atti gravissimi, atti considerati criminosi ex-post facto.
Non si è applicata la legge nazionale, ma principi internazionali che
consacrano esigenze umanitarie, cioè traducono in diritto positivo dei precetti
etici, e che avendo natura internazionale sono sottratti agli arbitri dei
singoli Stati. Bisogna notare che le norme internazionali non bastano se si
vuole fare progredire la civiltà giuridica; queste restano importanti ma mute
finche non mettono le radici negli ordinamenti interni degli Stati, finche gli
organi statali e l’opinione pubblica non ne concepiscono l’importanza e li
rendono concretamente operanti nella lotta contro l’inaccettabile. E’ ciò
che è accaduto in Francia con la norma internazionale sui crimini contro
l’umanità. Così come ha fatto la Francia, ogni Stato dovrebbe ricercare e
punire chi ha commesso tali crimini. Invece spesso ci si scontra contro la
manchevolezza degli Stati sovrani, “dei mortali” che rispondono a logiche
loro e spesso non possono o non vogliono ispirare la loro azione ad esigenze di
coerente rispetto dei valori umani.
Dunque
in tutti i casi in cui la “Ragion di Stato” soffoca i diritti degli uomini
il ruolo portante lo devono avere i gruppi privati, gli individui, la stampa. I
governi non possono più essere lasciati liberi e soli, la società civile
organizzata deve controllarli.
8.
Pinochet.
Molto
importante è la riflessione che Filibeck fa sul caso Pinochet in occasione del
50° anniversario della Dichiarazione universale.
L’anniversario
avviene in un clima segnato dalla decisione del tribunale inglese della Camera
dei Lords sul caso Pinochet. Questa decisione rappresenta un segno concreto
dell’universalità dei diritti umani e si inserisce nell’iter di una
giurisdizione penale permanente la cui principale tappa è stata l’adozione a
Roma dello Statuto del Tribunale Penale Internazionale. Ma tutto ciò è
avvenuto in un clima ambiguo perché chiaramente dubbia è l’effettiva volontà
di perseguire tutti i responsabili dei crimini elencati nello Statuto.
Perciò,
se da una parte negli ultimi cinquant’anni si è avuta una sensibilizzazione
dell’opinione pubblica verso le offese alla dignità della persona,
dall’altra parte si assiste ad un processo inverso caratterizzato dalle
incapacità di reazione dinanzi alle continue violazioni dei diritti umani in
ogni parte del mondo.
9.
Conclusione.
Dopo aver
analizzato i vari aspetti della questione vorremmo trarre delle conclusioni
finali.
In
pratica i diritti si trasformano in qualcosa di più di una semplice
affermazione astratta solo nella misura in cui l’ordinamento conferisce ad
organi, le cui decisioni sono giuridicamente vincolanti, il potere di imporre il
rispetto (cosa che per esempio non succede per i diritti morali sanciti nella
Dichiarazione nelle Nazioni Unite sui diritti umani del 1948). Di regola, le
persone che non hanno la fortuna di vivere sotto un governo capace di imporre
tasse e di fornire riparazione effettiva in caso di eventuali danni illeciti
subiti non hanno diritti in senso giuridico: niente Stato vuol dire niente
diritti.
Però la
Comunità non protegge tutte le libertà concepibili, né solo quelle che in un
dato momento storico, lo Stato, in buona misura attraverso il potere
giudiziario, riconosce come diritti giuridicamente protetti, ed è disposto a
tutelare, cioè a finanziare come tali.
Ma dal
momento che una collettività non esiste senza gli individui che la compongono,
essa è in grado di definire, attribuire, interpretare e tutelare i diritti solo
se è ben organizzata dal punto di vista politico e solo se può agire in modo
coerente ricorrendo a Istituzioni di governo che risponderanno davanti ai
cittadini.
Il costo
dei diritti non solleva solo questioni di responsabilità democratiche e di
trasparenza nel processo di distribuzione delle risorse, ma ci porta
inaspettatamente nel cuore della teoria morale dove si affrontano i problemi di
equità e di giustizia distributiva. Descrivere i diritti come investimenti
collettivi significa indurre i teorici dei diritti a prestare attenzione al
seguente problema: il complesso dei diritti tutelati per quanto valido e saggio,
è anche distribuito in modo giusto? La questione è allora di stabilire se gli
esborsi per la tutela dei diritti quali attualmente programmati ed attuati
avvantaggiano le società intere, o almeno la maggior parte dei suoi membri, o
solo quei gruppi che hanno maggiore influenza politica.
Per
quanto detto sopra noi, dopo quest’analisi, rilanciamo le sedi della
democrazia diretta e rappresentativa, deputate alle scelte collettive a fini
generali; poiché solo in società democratiche, nel caso in cui la classe
politica non tuteli i diritti dell’uomo, o tuteli solo determinati diritti
tralasciandone altri, o comunque nel caso in cui la comunità giudichi la tutela
dei diritti applicata in maniera inefficace e inadeguata, solo all’interno di
ordinamenti democratici la comunità può scegliere attraverso libere elezioni
una nuova classe politica che riesca a rispondere in maniera più efficace alle
esigenze della comunità, e quindi sia capace di tutelare in maniera più
efficace i diritti di cui la comunità sente in quel particolare momento una
maggiore esigenza di tutela.
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