COSMOPOLIS
LA
PROSPETTIVA DEL GOVERNO MONDIALE
MANUEL
MARAGHELLI
PAOLO
ROTILI
MARIADOMENICA
MARICA CUGNIDORO
PAMELA
DOMENGHETTI
VALENTINA
MILLETTI
ALESSANDRA
BAJEC
CARLO
TIMIO
ALESSIA
LUCENTINI
CHIARA
MORICONI
CAPITOLO PRIMO
IL MODELLO COSMOPOLITICO DELLA
SANTA ALLEANZA
Le Nazioni
vincitrici dei conflitti si sono impegnate in ambiziosi progetti di pace:
secondo Roling, la pace ha preso
il posto dell’idea di cristianità. Dopo le grandi guerre, le potenze più
forti, dopo aver ottenuto i risultati prefissati, desideravano una pace
stabile e universale: per questo, per ben tre volte, hanno tentato di creare
una organizzazione internazionale per eliminare l’anarchia e la guerra. Se
sono tornate alla guerra è stato sempre per difendere la “stabilità
economica” raggiunta: comunque sia le nazioni attive sono sempre state
poche, mentre le altre hanno sempre subito passivamente.
LA
SANTA ALLEANZA
Con Westfalia, dopo la
guerra dei trenta anni, era nato il primo ordinamento internazionale moderno
basato su stati indipendenti da Chiesa e Impero; Napoleone tentò di
sostituire il pluralismo di stati con il suo impero universale e le monarchie
reagirono con durezza. Sconfitto Napoleone, Austria,Russia, Inghilterra e
Prussia diedero vita alla SANTA ALLEANZA (durata ventennale) per tutelare
l’equilibrio. Si sarebbero riunite periodicamente e, in poco tempo, si
aggiunsero tutti gli stati europei, accettando le decisioni già prese dai
quattro (federazione con direttorio): fra le discussioni che portò avanti vi
fu quella dell’abolizione degli schiavi. Le ragioni del fallimento furono le
diatribe tra Inghilterra e Russia ma, soprattutto, gli scontri fra il
legittimismo dinastico e l’impero del nazionalismo e liberalismo.
SOCIETA’
DELLE NAZIONI
La Società delle Nazioni
(1920) fu il secondo grande tentativo di assicurare al mondo una pace stabile:
fu voluto da Gran Bretagna, Francia, Italia e Giappone: era, però, una vera
organizzazione internazionale con vari organi:
1)
ASSEMBLEA: ogni Stato aveva un voto e le decisioni di tipo politico,
anche le controversie, erano prese all’unanimità. Nelle controversie le
parti in causa non votavano.
2)
CONSIGLIO: era formato da membri permanenti e membri non permanenti: si
votava all’ unanimità.
L’errore più grande è
stato quello di utilizzare l’organizzazione solo come rigida garanzia dello
status quo: per questo motivo contribuì a tener fuori USA e URSS e non
raggiunse lo scopo di mantener disarmata la Germania. Inoltre il grande
“scontro” tra Francia e Gran Bretagna bloccò gran parte dei lavori della
Società delle Nazioni: si legittimò l’occupazione italiana di Corfù,
l’occupazione della Manciuria, le violazioni tedesche di Versailles, ecc. Le
uniche sanzioni contro l’ Italia restarono senza effetto. In pratica ebbe
termine con lo scoppio della Seconda Guerra mondiale.
LE
NAZIONI UNITE
Il 23 aprile 1945 gli
stati si riunirono a San Francisco: i 50 Stati che ricevettero l’invito dai
quattro (USA, Gran Bretagna, URSS, Cina) potevano votare gli articoli con la
maggioranza dei 2/3, ma dovettero seguire le linee tracciate dai più grandi
per non far fallire l’iniziativa. L’unica eccezione al monopolio delle
grandi fu la tutela della legittima difesa, ma l’interpretazione della Carta
non fu data alla Corte di Giustizia Internazionale. Le uniche analogie con la
Società delle Nazioni sono gli organi abbastanza simili, mentre per il resto
è “simile alla Santa Alleanza”: qui l’Assemblea Generale è priva di
grandi poteri vincolanti, mentre ha solo il potere di raccomandazione. Il
Consiglio delle Nazioni Unite ha, sulla carta, molti più poteri di quelli
della Società delle Nazioni in quanto si voleva evitare un fallimento per
scarsi poteri: non decide all’ unanimità, ma con una maggioranza
qualificata e con diritto di veto. Per Morgenthau le Nazioni Unite sono un
governo aristocratico che finge di essere aperto e democratico come quello
della Società delle Nazioni.
STORIA
DELLE NAZIONI UNITE
Nei primi anni ci fu un
dominio degli USA che, per esempio, portò alla creazione di Israele, poi nel
1950 gli USA, approfittando della assenza dei delegati dell’URSS, decisero
di intervenire in Corea a nome dell’ONU: a partire dai primi anni ’50 fino
alla fine degli anni ’80 c’è stata una sorta di paralisi nelle Nazioni
Unite per il contrasto fra le due superpotenze. USA e URSS hanno più volte
violato i principi delle Nazioni Unite (per esempio Vietnam e Afghanistan)
eppure si sono sempre tutelati con il diritto di veto. Nel 1986 gli USA furono
condannati dal CIG per il sostegno ai Contras del Nicaragua, ma
ignorarono la sentenza. Come sappiamo, gran parte del capitolo VII della Carta
è rimasto inapplicato: per esempio la creazione di un esercito permanente.
Quanto all’Assemblea Generale, secondo Zolo
si è impegnata in una serie di dichiarazioni di principi prive di cogenza
normativa. Le cause di inefficacia dei progetti di pace possono essere
riscontrate nel fatto che gli stati forti svolgono una politica di potenza
contraria ai principi dell’organizzazione, ma anche per le contese fra gli
stati per le quali non era prevista la procedura
di soluzione pacifica. In pratica il MODELLO DELLA SANTA ALLEANZA si
caratterizza:
1)
le nazioni che si trovano al vertice di questo modello regolano
coattivamente le controversie che
riguardano gli altri paesi e contemporaneamente si sottraggono loro stessi al
medesimo procedimento;
2)
il potere d’intervento è un monopolio delle grandi nazioni;
3)
la pace stabile coincide con il congelamento della mappa geopolitica;
4)
Si parla d’intervento in caso di controversia, ma nulla si dice per
evitarla.
IL
MODELLO E’ VALIDO MA COSTRUITO MALE
OPPURE NON E’ PROPRIO VALIDO?
CAPITOLO SECONDO
LA GUERRA DEL GOLFO
In URSS, a partire dal
1987, si afferma la “perestroika”, di cui sono attori principali Gorbaciov
e Shevardnaze. La perestroika avvia una nuova politica diplomatica dell’URSS
all’interno delle Nazioni Unite, fondata su nozioni come “interdipendenza
globale” e “sistema di sicurezza complessivo”, attraverso
l’organizzazione di una unità militare permanente alle dipendenze del
Consiglio di Sicurezza. Si cerca così, caduti i contrasti tra USA e URSS, di
proporre un rilancio delle effettive funzioni del Consiglio di Sicurezza,
soprattutto come organo al servizio della pace: nel 1988 le Nazioni Unite
vengono insignite del premio Nobel per la pace. La situazione però cominciò
a cambiare con la “rivoluzione democratica” del 1989 che porta alla
dissoluzione dell’URSS: gli USA e i loro alleati occidentali si rendono ben
presto conto di aver vinto quella che potremmo chiamare la “terza guerra
mondiale”, o meglio la quarta includendo le guerre napoleoniche, grazie alla
loro superiorità economica. Essi, finita la guerra fredda, rilanciano una
strategia di pace universale, senza però l’istituzione di una nuova
organizzazione internazionale, ma attraverso la reinterpretazione del ruolo
delle Nazioni Unite. In questa situazione gli USA emergono come unica
superpotenza, quindi inevitabilmente il progetto di pace universale tenderà a
coincidere con la tutela dei propri interessi vitali. La guerra del Golfo
viene interpretata come una prima occasione per realizzare l’idea della “global
security”: essa però si rivela ben presto di ardua
realizzazione. Il 12 agosto 1990 l’Iraq invade il Kuwait: con la risoluzione
n. 678 del 29 novembre il Consiglio di Sicurezza autorizza gli Stati Membri ad
utilizzare tutti i mezzi necessari per restaurare la sovranità del Kuwait: il
17 gennaio si scatena così la “Tempesta del Deserto” che dura 42 giorni.
Essa può essere definita come guerra del futuro per i seguenti motivi:
1)
efficacia della tecnologia delle armi;
2)
entità della devastazione ambientale;
3)
spettacolarità dell’informazione televisiva.
La guerra del Golfo è
stata oggetto di giudizi divergenti: i più autorevoli pensatori occidentali
come Habermans, Daherendof,
Bobbio hanno sostenuto che la
guerra era se non giuta, giustificata e una maggioranza dell’opinione
pubblica occidentale ha considerato la guerra come necessaria. Zolo esamina la guerra dal punto di vista delle istituzioni
internazionali, si chiede se esse abbiano operato correttamente, in particolar
modo se le Nazioni Unite avevano il compito di autorizzare o invece evitare
l’intervento armato come legittima difesa collettiva. Egli analizza in
particolare modo la teoria del “pacifismo istituzionale” di Bobbio
e quello del “global
centralism” di Falk,
i quali affermano entrambi la necessità di un’autorità sopranazionale
dotata di efficaci poteri d’intervento, ma giungono a conclusioni diverse
nei confronti della guerra del Golfo. Infatti per Bobbio
il fatto che sia stata la prima guerra “legalmente autorizzata” da
un’istituzione internazionale, rappresenta, nonostante tutto, “un passo
avanti nel processo di formazione di un potere comune al di sopra degli
stati”. Falk ha invece
sostenuto che la guerra del Golfo ha segnato un tragico fallimento delle
Nazioni Unite proprio per il fatto che hanno legalmente autorizzato e quindi
legittimato la guerra. Lo schema del pacifismo cosmopolitico di Bobbio,
partendo dalle teorie di Hobbes e
Kant, presuppone 4 passaggi:
1)
I° pactum societatis (preliminare e negativo, di non
aggressione);
2)
II° pactum societatis (positivo, con cui gli stati concordano
regole comuni);
3)
pactum subjectionis (assoggettamento ad un potere comune);
4)
riconoscimento e protezione dei fondamentali diritti e libertà, per
evitare un potere dispotico.
In questo quadro la
guerra del Golfo è considerata da Bobbio
una “guerra giusta” da un punto di vista giuridico, essendo autorizzata
dalle Nazioni Unite, autorità sovraordinata agli stati: egli però non nega
le sue perplessità sull’efficacia della guerra. Zolo
in merito crede che non è poi così scontata l’evoluzione delle istituzioni
internazionali verso un ordine internazionale stabile, pacifico e democratico:
egli sostiene che la guerra del Golfo non può essere considerata
un’iniziale adempimento di tale processo, ma come un tragico fallimento. Falk
si impegna a delineare un ampio progetto globalista e pacifista: ha, a
differenza di Bobbio, un
approccio per quanto riguarda la formazione della nuova struttura
costituzionale e democratica, più lockiano che hobbesiano. La base sociale di
questa nuova struttura deve essere costituita dal complesso delle iniziative
transnazionali spontanee, anzitutto quello ispirate al globalismo ecologista.
Egli crede che le Nazioni Unite sono dotate di potenzialità praticamente
illimitate, anche se incapaci di opporsi all’uso della forza da parte delle
grandi potenze. La guerra del Golfo per Falk,
da un verso ha mostrato le capacità delle Nazioni Unite di rispondere
efficacemente all’aggressione in nome della sicurezza collettiva,
dall’altro però hanno concesso un’autorizzazione ufficiale ad una guerra
che non erano in grado di tenere sotto controllo, lasciando così agli USA il
potere di condurre una guerra senza limiti. Secondo Zolo
il global costituzionalismo è una dottrina più complessiva e sfumata
del pacifismo cosmopolitico di Bobbio.
Inoltre per Zolo la censura del
Comportamento del Consiglio di Sicurezza e in particolar modo degli USA (in
base al fatto che avrebbero violato la Carta), operato da Falk,
non ha tuttavia intaccato la struttura di fondo delle Nazioni Unite, né il
suo obiettivo di globalismo.
CAPITOLO TERZO
I VICOLI CIECHI DELL'ETICA
INTERNAZIONALE
In questo capitolo Zolo
fa una riflessione sul concetto di etica delle relazioni internazionali. Il
punto di partenza di tale riflessione è costituito dallo studio del pacifismo
etico. Il pacifismo etico si colloca accanto al pacifismo istituzionale, ma a
differenza di questo che riguarda il problema della pace dal punto di vista
delle istituzioni politiche tralasciando l’importanza degli aspetti
antropologici dell’aggressività umana, il pacifismo etico parte proprio da
questo presupposto: trae origine dalla cultura occidentale, dalla tradizione
per cui l’alternativa tra la pace e la guerra dipende da scelte di carattere
morale invece che da scelte politico istituzionali. Zolo riconosce due componenti del pacifismo etico:
1)
di tipo spiritualistico che si richiama ai principi evangelici del
sermone della montagna
2)
che pone le sue radici nella prima e seconda scolastica cattolica.
Queste due componenti del
pacifismo etico si differenziano profondamente sia dal punto di vista teorico
che a quello pratico. Nel primo caso si tratta della tradizione della non
violenza e delle varie forme del pacifismo militante. Questa tradizione ha
trovato nel XX secolo l’espressione più compiuta e più alta nella
“sayagraha” gandhiana. Nel secondo caso si tratta dell’etica della
guerra e dei rapporti internazionali : da essa deriva un sistema dio regole
sulla base delle quali vengono espresse valutazioni etiche dei componenti
ritenuti rilevanti dal punto di vista della pace e della guerra. Questa
corrente di pensiero si sviluppa poi come dottrina dello “justum bellum”
entro l’ortodossia cattolica della scolastica ed influenza con Grozio
la nascita del diritto internazionale moderno. Qui si pongono due
interrogativi di Zolo: il
pacifismo etico è in grado di indicare strategie operative che consentano
l’espressione della conflittualità umana in forme diverse dalla guerra e
dalla “diplomazia coercitiva”? Il punto di vista etico e l’idea
dell’unità morale del genere umano offrono argomenti a favore delle teorie
globaliste e cosmopolitiche?
Riguardo a tali
interrogativi Zolo elabora alcune osservazioni prendendo in considerazione
il pacifismo solo quale “resistenza umana”, sarebbe a dire il pacifismo
praticato da Gandhi e Martin
Luther King. Caratteristica
principale di questa forma di pacifismo è quella di aver utilizzato una virtù
morale, la mitezza, come strumento della rivoluzione politico sociale per
costruire la pace, sostengono i fautori della non violenza, occorre puntare
sulla qualità morale delle persone, indurle all’assenso, non puntare
all’annientamento dell’avversario o alla sua umiliazione morale. Inoltre,
secondo questa teoria, una comunità può essere stabilmente pacifica sia al
proprio interno che verso l’esterno solo quando gli individui che la
compongono siano convertiti nella pratica della non violenza e alle virtù ad
essa associate (lealtà, umiltà, sincerità). La violenza produce altra
violenza, la guerra altra guerra: ed è qui che si colloca la non violenza,
quale forza in grado di spezzare questa catena autodistruttiva. Ma come agisce
la forza della non violenza? Il non violento, attore di questa forza, accetta
di subire la violenza puntando sull’effetto di conversione che la sofferenza
sopportata con dignità produce in chi l’ha ingiustamente provocata: tale
mitezza del non violento, dunque, avrebbe capacità di contagio spirituale.
Sulla base di questa idea Gandhi
esortava gli ebrei perseguitati dal nazismo ad accettare il martirio,
confidando nel fatto che le loro sofferenze avrebbero” intenerito” il
cuore di Hitler: Ma quali sono le
motivazioni antropologiche e psicologiche della violenza? La violenza ha
profonde radici nella psicologia degli individui ed è proprio per questa
radicalità ed universalità che essa è diffusa nel tessuto sociale ed
estremamente pericolosa. Ma occorre considerare che anche per il pacifismo
assoluto sono presenti dei limiti. Sarebbe a dire che il torto di Gandhi
sta nell’avere invertito la relazione assiologia tra il fine e i mezzi
dell’azione: cercare di realizzare senza spargimento di sangue il fine
dell’indipendenza politica di popolo attraverso la conversione di milioni di
persone alla non violenza è porsi un obbiettivo intermedio più alto e più
difficile della meta finale. Il gandhismo fallisce tragicamente perché viene
travolto dalla violenza che si scatena tra gli oppressi e che si abbatte sulla
stessa persona del mahatma. Scomparso il profeta, le sue idee non esercitano
alcuna influenza sulla costituzione politica del nuovo stato e vengono
dimenticate. A Gandhi sfugge il
radicamento biologico dell’aggressività nell’uomo; la violenza umana non
può essere imbrigliata attraverso l’immediato contagio originato dalla
testimonianza di un leader religioso. Altro grosso ostacolo che incontra il
“contagio morale” del pacifismo assoluto sono le società moderne e le
strutture della divisione del lavoro. Nelle società moderne, che si
caratterizzano per l’essere differenziate ed eterogenee, il senso di
un’esperienza vissuta all’interno di un determinato ambito è
difficilmente traducibile all’interno di un altro ambito. Dunque l’aspettativa
della “transitività sociale” e del “pacifismo contagioso” è
un’assunzione che può avere di mira una società statica, la società
arcaica.
A questo punto Zolo
descrive le caratteristiche dell’etica delle relazioni internazionali per
distinguerla dal pacifismo assoluto:l’etica internazionale non si impegna
nella formulazione di precetti o principi deontologici come invece fa il
pacifismo assoluto che si rivolge alla coscienza morale dei soggetti vietando
comportamenti specifici(come il divieto categorico di esercitare violenza o
uccidere), ma fa riferimento ai principi morali comunemente accettati o, come
sostiene Michael Walzer,
“universalmente riconosciuti”, ma evita di enunciarli. I teorici
dell’etica internazionale non esitano ad ammettere che nell’ambito
internazionale dove i soggetti del discorso morale sono gli stati e solo
marginalmente gli individui, i principi morali devono essere contemperati con
la considerazione delle circostanze ed il calcolo dei risultati. Joseph Nye,
movendo da tale presupposto, propone uno schema tridimensionale quale sintesi
normativa di intenzioni, mezzi e conseguenze. La prova della efficacia della
sua etica tridimensionale è data dalle azioni militari degli USA che, secondo
Nye, sono sempre state moralmente ineccepibili perché
dirette a restaurare l’ordine democratico ed a garantire l’autonomia dei
paesi attaccati.
Secondo quanto sostiene Zolo
è da mettersi in dubbio l’esistenza di una morale comune universalmente
accettata nelle società occidentali che potrebbe essere applicata ai rapporti
tra gli stati. La complessità delle società moderne è il motivo per cui i
codici morali tradizionali hanno cessato di valere. Il politeismo morale è
causato dalla privatizzazione delle credenze morali e questo determina che
ogni etica pubblica sia una sorta di sopravvivenza dei vecchi meccanismi di
ordine sociale. A questo punto Zolo
si pone il problema di identificare i soggetti dell’ordinamento morale
internazionale. Le opinioni a proposito sono disparate e controverse, ma le
opzioni ritenute fondamentali da Zolo
sono due: opzione statista e opzione cosmopolita. Secondo la prima sono gli
stati i titolari dei diritti e dei doveri morali nell’ambito delle relazioni
internazionali, sono considerati una sorta di leviatani etici che assommano in
se stessi le pretese morali dei cittadini. La seconda, all’opposto,
attribuisce esclusivamente agli individui il titolo di soggetti originari
dell’ordinamento etico universale. L’etica cosmopolitica trascende il
particolarismo politico e territoriale degli stati nazionali; essi sono
considerati destinatari di doveri, non titolari di diritti. L dovere
fondamentale degli stati è quello di trattare in modo eguale tutti gli uomini
prescindendo dalle differenze di razza, sesso, cultura e anche dalla loro
cittadinanza o appartenenza nazionale. I teorici della moralità degli stati
sostengono l’uso morale della forza da parte degli stati. In particolare
Spencer avanza una teoria, un obbligo morale di assistenza che avrebbero i
paesi ricchi nei confronti di quelli poveri. Ciò consiste nel fatto che i
paesi ricchi debbano ridurre il livello di benessere dei propri cittadini per
aiutare i cittadini degli stati più poveri. Ma questa teoria è confutata da Zolo
perché lo stato moderno non è in grado di operare imparzialmente secondo i
canoni di un’etica universalistica, il sistema politico statale è
imparziale e per sua natura portato ad assicurare soltanto la protezione dei
propri membri. Infatti la stessa tutela dei diritti di libertà, delle regole
di mercato e della proprietà privata all’interno dei paesi
liberal-democratici, sarebbe impossibile senza la possibilità per lo stato di
adottare decisioni arbitrarie dal punto di vista etico.
Zolo
ritiene che quando si tenta di risalire a valutazioni del caso specifico per
la formulazione di una massima generale ci si trova di fronte ad ambiguità
normativa e a questo proposito cita le massime dell’etica nucleare formulate
da Joseph Nye, il quale
suggerisce all’amministrazione americana le seguenti cose:
1)
la deterrenza nucleare apprestata dagli USA è moralmente
giustificabile dal loro diritto di autodifesa;
2)
armi nucleari non devono essere trattate come armi convenzionali;
3)
bisogna evitare le guerre nucleari;
4)
bisogna ridurre le armi nucleari.
Zolo
ritiene che queste massime assai generiche diano implicita legittimazione
dell’uccisione volontaria di persone innocenti.
“Quando si è innocenti
chi lo stabilisce?”
A proposito di imperativi
morali, S. Brown è del parere
che si debba misurare il grado di immoralità di un’azione politica
internazionale dal numero delle persone che sono state uccise per tale azione.
Secondo Zolo, Brown non
vieta l’omicidio di individui, ma si limita a condannare l’uccisione
internazionale. ”Come si concilia con il bombardamento di città abitate da
civili?” Ciò che sorprende Walzer
muove dalla necessità dichiarata per cui come lui è un cittadino americano
di religione ebraica, di giustificare moralmente come legittima difesa
preventiva l’aggressione di Israele contro Egitto, Siria, Giordania con cui
nel 1967 ebbe inizio la guerra dei 6 giorni e l’occupazione di ampi
territori palestinesi. Inoltre Walzer
di fronte al pericolo inusuale e orrendo non c’è nessun limite di carattere
etico che debba essere rispettato da chi è minacciato.”Quando si può dire
che il pericolo è inusuale e orrendo?” NON C’E’ UN SUPERPARTES.
Walzer
definisce il nazismo come una minaccia radicale ai valori umani e perciò fu
necessario ricorrere a misure che le regole della guerra giusta vietano. Perciò
furono leciti i bombardamenti terroristici decisi dal governo britannico
contro la popolazione civile tedesca che causarono 300000 morti, mentre furono
moralmente ingiustificati i bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki,
perché non sussistevano le condizioni di un’emergenza suprema. Inoltre
Walzer si pronuncia fermamente per la moralità dell’intervento degli USA
nella guerra del Golfo e per l’immoralità del nemico Saddam Hussein. Walzer, richiamandosi alla dottrina cristiano medievale,
sostiene che in presenza di un conflitto armato possono esserci ragioni morali
che giustificano la guerra condotta da uno dei due contendenti, cioè la parte
ispirata dalla moralità universale condurrebbe ad una guerra giusta,
l’altra non ispirata da un’etica superiore condurrebbe ad una guerra
ingiusta: Walzer fonda tutto
questo sull’ipotesi che la sovranità territoriale fosse un assoluto
morale.”Cosa dire allora dei territori conquistati da Israele attraverso le
guerre?”
Per quanto riguarda le
critiche realistiche, Zolo fa
riferimenti a Weber: Weber
sottolinea che alle radici della violenza politica e della guerra ci sia
sempre un’incompatibilità fra universi simbolici, concezioni morali,
sistemi di valori diversi e che i pregiudizi provocano aspettative di
sicurezza al proprio interno. Zolo
è dell’opinione che il realismo politico possa affermare che la guerra
moderna sia un fenomeno moralmente intrattabile, perché la sua potenzialità
distruttiva non sopporta limiti e non rispetta proporzioni. Quindi la guerra
può essere giudicata esclusivamente in base ai criteri di prudenza e
responsabilità politica: la prudenza include le conseguenze dirette come le
sofferenze, distruzioni che la guerra comporta per un gruppo sociale,
economico, ecologico. La responsabilità politica verso il proprio popolo si
sostanzia del fatto che il ricorso alla violenza è sempre rischioso, tanto più
oggi in un mondo nucleare: infatti, secondo me, parlare di guerra giusta è
proprio grave, è da stupidi distinguere tra guerre giuste e non: bisogna solo
evitarle!
Zolo
conclude che il contributo della tradizione del pacifismo etico può offrire
all’elaborazione di una filosofia politica del paese-keeping
è rilevante; la strategia della non violenza può suggerire alternative
concrete per la difesa e la politica estera. Il contributo dell’etica
conseguenzialistica e della dottrina Justum Bellum non va al di là di
argomentazioni casualistiche circa divieti e obblighi morali: si può, dunque,
ritenere che l’etica internazionale, nonostante le sue aspirazioni
universalistiche, non offra argomenti a favore della prospettiva globalistica
e cosmopolitica del Governo mondiale.
CAPITOLO QUARTO
CIVITAS MAXIMA E DIRITTO
COSMOPOLITICO
In
questo capitolo il problema che verrà impostato sarà la distinzione tra due
modelli normativi che riescono a convivere all’interno dell’ordinamento
giuridico internazionale. Essi sono:
1)
il modello di Westfalia;
2)
il modello della Carta delle Nazioni Unite.
Per modello di
Westfalia Cassese e Falk
intendono l’assetto originario dell’ordinamento giuridico internazionale
presente in Europa dopo la conclusione della Guerra dei Trenta Anni. I suoi
contenuti principali sono:
a)
gli Stati come soggetti fondamentali;
b)
non esiste un legislatore internazionale che possa porre norme che
valgono automaticamente erga omnes: quest’autorità spetta
all’autorità sovrana degli Stati;
c)
l’ordinamento giuridico internazionale è costituito quasi
esclusivamente da norma primaria, mentre mancano le norme secondarie o di
organizzazione. In altre non è prevista alcuna giurisdizione obbligatoria che
abbia il potere di accertare la violazione del diritto internazionale.
L’accertamento dell’attivazione delle norme è affidato ad apparati
interni all’ordinamento statale.
A)
La sovranità degli Stati e la loro eguaglianza giuridica sono principi
assoluti e incondizionati.
B)
Ogni stato può ricorrere alla guerra o ad analoghe misure coercitive
per attuare i propri diritti o per proteggere i propri interessi.
Il modello che si è
prodotto sulla base del disegno della Carta delle Nazioni Unite presenta,
sempre per Cassese e Falk, i seguenti aspetti:
a)
i soggetti internazionali non sono soltanto gli stati, ma anche le
organizzazioni internazionali;
b)
si sono affermati dei principi generali ritenuti vincolanti per
tutti gli stati e che prevalgono come jus cogens sui trattati e sulla
norma consuetudinaria;
c)
viene demolito il mito della uguaglianza giuridica degli stati e
viene dato rilievo giuridico alle differenze in potenza e ricchezza;
d)
viene limitato il diritto a ricorrere alla guerra solo per
legittima difesa. L’uso della forza sanzionatoria è stato affidato al
Consiglio di Sicurezza delle N.U.
Comunque
il cosmopolitismo giuridico congiunge quattro tesi normative: nella prima c’è
il prevalere del diritto internazionale e la riduzione della sovranità degli
stati. La seconda prevede il centralismo giurisdizionale mediante lo sviluppo
di apparati centralizzati per l’applicazione coercitiva del diritto. Nella
terza il centralismo giuridico conta su uno sviluppo di un diritto
internazionale come jus contra bellum. La quarta e ultima tesi
comprende il globalismo costituzionale, cioè si tenta di tutelare i diritti e
le libertà dell’ uomo.
Per
Falk e Cassese
la prospettiva normativa della Carta fonda un vero e proprio diritto
cosmopolitico e rinviano implicitamente alla teoria kelseniana del primato del
diritto internazionale, visto come ordinamento giuridico originario, esclusivo
e universale. Kelsen tentò di
costruire una teoria giuridica monastica, postulando l’esistenza del diritto
internazionale come ordinamento giuridico unitario che include tutti gli altri
ordinamenti ed è ad essi gerarchicamente sovraordinato. Quindi vede il
diritto interno degli stati come un ordinamento parziale rispetto
all’universalità dell’ordinamento internazionale. Per Kelsen
l’essenza stessa dell’ordinamento internazionale è l’idea di una
comunità di stati forniti di uguali diritti nonostante l’effettiva diversità
di estensione territoriale, di popolazione e di potere. Kelsen
formalizza il paradigma moderno di una società internazionale di stati
sovrani: stati concepiti come soggetti giuridici indipendenti gli uni dagli
altri, ma tutti sulla stesso tempo a rispettare il diritto della “universalis
societas gentium”. Kelsen
inoltre ripropone l’idea dell’unità del genere umano come civitas
maxima avanzata da Christian Wolff,
cioè un ordinamento giuridico superiore in misura uguale agli stati
particolari. Per cui quando l’unico ordinamento sovrano dello stato mondiale
avrà assorbito tutti gli altri ordinamenti il diritto sarà divenuto
organizzazione mondiale. Quindi il diritto internazionale e la rimozione della
prerogativa sovrana degli stati sono
indissociabili dall’idea dell’uguaglianza giuridica degli stati come
soggetti del diritto internazionale. Questo deve valere almeno sino al momento
in cui gli stati saranno scomparsi interamente assorbiti dall’ordinamento
globale della civitas maxima. A questo punto si può o rifiutare ogni
considerazione giuridica dei rapporti internazionali e la prospettiva del
cosmopolitismo giuridico, oppure si aderisce a questa prospettiva e in questo
caso sembra difficile poter evitare una collisione con la logica normativa che
sta alla base dell’ ordinamento delle N.U. È un ordinamento che trova il
suo fondamento nel criterio di disuguaglianza formale che attribuisce un
privilegio ad alcuni suoi membri. Infatti l’art. 23 accorda un vero e
proprio privilegio che dipende dall’esito della seconda guerra mondiale.
L’attribuzione di questo privilegio si giustifica in base ad un puro e
semplice vincolo patrizio: l’accettazione della Carta delle N.U. come “dictat”
imposto dalle grandi potenze agli stati a conclusione della conferenza
di San Francisco. Il modello delle N.U. è visto come un nostrum normativo
perché vìola il principio dell’unicità del soggetto di diritto: indica
quindi una norma fondamentale su cui fonda l’obbligatorietà delle sue
decisioni. Cassese riconosce che
per la prima volta alla forza del diritto si sovrappone il diritto della
forza.
È
possibile superare il pessimismo circa la capacità del diritto di opporsi
alla guerra o almeno di limitarne gli effetti distruttivi? E’ possibile
ritenere che il diritto sia lo strumento efficace per garantire la pace o
addirittura che sia il solo strumento in grado di garantire stabilmente e
universalmente? “Peace
through law” è uno scritto di Kelsen nel quale ha disegnato una strategia giuridica di
perseguimento della pace. Kelsen
pensava che la situazione del secondo dopoguerra, caratterizzato dalla
presenza di 3 o 4 superpotenze, le quali non avanzavano eccessive pretese
territoriali, avrebbe favorito l’accordo tra esse, sarebbe stato possibile
realizzare l’idea di una pace internazionale tramite la legge
internazionale. Il diritto bellico è il settore meno dotato di affettività
anche se si sono avuti degli sviluppi significativi sia sul piano teorico che
su quello della produzione normativa. Sul piano teorico si è avuto il
superamento della dottrina medioevale del justum bellum, e la
concentrazione di sforzi normativi in termini di jus in bello. Si tratta di un
fenomeno accompagnato alla nascita e allo sviluppo del diritto internazionale
moderno. Questo processo di emersione del diritto bellico europeo ha
consentito una estesa produzione di diritto orientato a scoraggiare il ricorso
alla violenza militare, prescindendo dalle sue cause e ad attenuare gli
aspetti più distruttivi della guerra. Con queste premesse, a partire dalla
seconda metà dell’800 il diritto bellico si è costituito attraverso una
lunga serie di conferenze, convenzioni e trattati unilaterali come il
Protocollo di Ginevra del 1924, il Patto Briand-Kellog del 1928 e le
Convenzioni di Ginevra dal 1949 fino ad oggi. Si tenta di fissare regole per
prevenire le guerre, senza però vietarla o cercare di abolirla: a queste
condizioni la guerra è un’opzione legittima a disposizione di tutti. Si è
inoltre cercato di fare degli accordi multilaterali per il commercio e la
produzione di armi da guerra, si è tentato di
“umanizzare” la guerra vietando o restringendo l’uso delle armi
chimiche, batteriologice, mine antiuomo,ecc..
Sono anche stati istituiti dei tribunali per giudicare i crimini di
guerra come quelli di Norimberga, Tokio, quello per i crimini in ex
Jugoslavia, ecc. Comunque le potenze militari più importanti non hanno mai
accettato restrizioni generali così in tema di limitazione giuridica della
condotta delle attività belliche, il sistema normativo internazionale è
caratterizzato da lacune. Infatti, non solo non è stato mai vietato il lancio
di bombe dagli aerei, ma non è stato mai sancito un divieto formale
dell’uso delle armi atomiche e nucleari. Inoltre i paesi industrializzati
sono sempre in grado di produrre nuove e più sofisticate che non ricadono
sotto i divieti specifici delle normative esistenti. Un netto cambiamento si
è avuto con la Carta delle N.U. che si è impegnata ad elaborare un
meccanismo di concentrazione del potere militare nelle mani del Consiglio di
Sicurezza, operante come garante di una pace stabile e universale. Si è
imboccata la strada dello jus contra bellum: la Carta vieta agli stati
l’uso della forza e limita drasticamente anche il diritto di difesa di uno
stato militarmente attaccato poiché gli accorda solo la facoltà di resistere
provvisoriamente in attesa dell’intervento del Consiglio di Sicurezza. Ciò
che si può osservare è che l’insieme di queste proposte è caratterizzata
dalla supposizione che sia possibile abolire la guerra affidandosi
essenzialmente a strumenti normativi. Lo sbaglio che viene commesso è che la
guerra condotta in nome di un supremo organismo internazionale tende ad
assumere inevitabilmente le caratteristiche di una guerra legale o legittima,
ma anche di una guerra giusta: paradossalmente il passaggio dal sistema di
Westfalia a quella della Carta delle N.U. rischia di reintrodurre l’arcaica
nozione di justum bellum.
Soltanto
un’istituzione esemplare sul modello delle N.U. può assicurare
un’effettiva protezione dei diritti dell’uomo. Una tesi così necessita
però di qualche assunzione: la dottrina dei diritti dell’uomo deve essere
argomentabile e quindi universale, i diritti dell’uomo devono essere diritti
in senso pieno, definibili e delimitabili, inoltre la tutela dei diritti
dell’uomo non può essere adeguatamente garantita dagli stati nazionali,
anche dai più liberali e democratici. Bobbio
ha scritto riguardo a ciò:” si potrà parlare di tutela internazionale dei
diritti umani solo quando una giurisdizione internazionale riuscirà ad
imporsi alle giurisdizioni nazionali.” Si potrebbe dire quindi che la
dottrina dei diritti dell’uomo presenta un’inclinazione cosmopolitica,
poiché attribuisce la natura dei soggetti dell’ordinamento internazionale
non solo agli stati, ma anche agli individui. Questa dottrina tende a
costruire la prospettiva di una cittadinanza cosmopolitia, un ordinamento
giuridico senza frontiera. Quindi si rinvia all’idea etica di una comunità
universale, di una civitas maxima di cui tutti gli uomini sono membri.
La tutela dei diritti fondamentali non può essere che affidata alla
giurisdizione garantista di uno stato di diritto planetario, di una cosmopolis
di diritto. È difficile cercare di percepire l’urgenza e la gravità di
problema ai quali questa dottrina cerca di dare una risposta. Oltre 2 miliardi
di persone oggi soffrono per la mancanza o la violazione di diritti
fondamentali normalmente riconosciuti da uno stato di diritto occidentale. Kelsen
per primo sostenne che la Dichiarazione del 1948, così come è stata
formulata, è ben lungi dal possedere i requisiti di una disciplina
giuridicamente vincolante. Ciò non soltanto per la nota carenza di poteri
legislativi dell’organo che l’ha approvata (Assemblea Generale delle
N.U.), ma anche per la formulazione non imperativa del testo e per l’assenza
di norme secondarie che consentano a una corte internazionale di sanzionare le
violazioni dei diritti violati.
CAPITOLO QUINTO
"PER UN PACIFISMO DEBOLE"
A questo punto Zolo
si chiede se non siano errati i piani di pace stabile e universale così
come la scelta di un governo concepito in senso universalistico e centralistico:
tre le eventuali risposte:
1)
anzitutto, a causa del pacifismo cosmopolitico, la globalizzazione
verrebbe indicata come “esperimento” del sistema di stati in vista di una
società civile omogenea
2)
inoltre lo stesso pacifismo non valuterebbe sufficientemente
all’interno delle rivalità internazionali gli aspetti finanziari ed
economici, tesi a favorire i processi dello sviluppo umano
3)
infine l’operatore peacemaking sarebbe resa impossibile da
aggressività e riconciliazione: due caratteri costanti ed onnipresenti nella
natura umana.
Secondo
teorici cosmopoliti come Falk e Held,
la domestic analogy ha consentito l’aumento della civil
society nella vita internazionale e quindi attività di tipo
volontario già proposte negli anni ’80 ovvero organizzazioni non governative.
Dinanzi a questioni sempre più interdipendenti e globali, esse hanno gettato le
basi per la creazione di uno stato costituzionale mondiale, volto a garantire
un’integrazione sociale planetaria nell’ambito di diritti, ambiente, pace.
Ritenuta lo spazio sociale in cui economia e cultura borghesi di alcuni stati
nordeuropei erano già fiorite con nuovi valori ed istituzioni di cittadinanza
moderna, la società civile ha contribuito maggiormente a realizzare uno stato
liberale unitario e politicamente centralizzato, grazie alla condivisione di
comuni ideale progressisti. Dall’hobbesiana domestic
analogy si arriverebbe dunque alla lockiana unificazione
contrattualistica del sistema politico, configurato a livello planetario.
Tuttavia, affinché un leviatano costituzionale governi l’intero pianeta,
bisognerebbe delegittimare gli stati nazionali legittimando le istituzioni
internazionali oppure omogeneizzare il mondo culturalmente attraverso
un’integrazione di tradizioni, ideologie, valori ed interessi in comune;
altrimenti si potrebbe sedare i conflitti per mezzo della globalizzazione,
riducendo il dislivello tra paesi sviluppati e paesi arretrati in termini di
produzione e sviluppo umano.
La
delegittimazione di Stati nazionali, prima di tutto, non rappresenterebbe però
un passo verso la società civile globale in quanto le richieste di libertà
nazionali renderebbero più complesso e meno gestibile il sistema politico
globale (Bull). Al contrario,
sarebbe l’anarchia cooperativa di ogni stato ad esprimere una vera garanzia in
ambito internazionale, per opera di un federalismo moderato che lasci in vita le
funzioni importanti degli stati nazionali e ridefinisca democraticamente le
varie attribuzioni di competenze e decisioni politiche, sganciando libertà e
tutela dei diritti da particolarismi nazionalistici. In secondo luogo si devono
prendere in considerazione le mosse dalle ambiguità della globalizzazione come
unificazione morale dell’uomo che rende ogni cultura partecipe alla
modernizzazione occidentale e porta ad un’integrazione e centralizzazione
istituzionale della società mondiale. In realtà, potrebbe trattarsi di una
porta di “creolizzazione” con effetti tutt’altro che confacenti
all’integrazione comunitaria oppure di terze culture promosse da chi è
cosmopolita solo professionalmente. Si avanza ancora l’ipotesi di popoli
colpiti dall’occidente “impersonale” che, favorendo le élites
nel mercato mondiale (Bull), sradica i diseredati dai loro vincoli sociali e
culturali senza integrarli e crea un pianeta di “naufraghi” restii
all’unificazione mondiale (Latouche).
Infine,il cosmopolitismo liberale, oltre a non riuscire a neutralizzare i
conflitti di troppi interessi etnico-nazionali, produce anche un disarmo
ecologico. Pertanto la società civile globale oggi starebbe a significare
esclusivamente quel groviglio di legami interdipendenti in alcuni settori del
mercato, destinando quel senso di cosmopolitismo ai cittadini occidentali
benestanti che però non rinunciano ai propri punti di vista. In ultima
considerazione viene sminuito l’antagonismo presente tra cittadini agiati e
popoli deboli che continuano ancora a lottare per un riconoscimento multietnico
di diritti individuali ed identità etniche. Negli ultimi 30 anni si sono
registrate imponenti disuguaglianze economiche ed una crescente conflittualità
sin dai primi anni ’60: il 20% più ricco della popolazione mondiale detiene
redditi 30 volte più alti di quelli del 20% più povero. Se si pensa oggi che
il divario tra stati sviluppati e quelli sottosviluppati è più che
raddoppiato, le disparità distribuite stanno aumentando ulteriormente
all’interno di ogni paese e che circa un quarto della popolazione mondiale
vive in piena povertà, le previsioni per i prossimi 20 anni non sono affatto
rosee, a dispetto di quanti negano tali differenze e vedono sviluppo economico e
umano correlati. Per ovviare alla divaricazione tra economie deboli e forti,
alle incredibili sperequazioni tra i vari indicatori di sviluppo umano,
andrebbero perciò individuate nuove soluzioni di politica economica, in base
alle risorse disponibili ed alle differenti strutture politiche di ogni stato.
Una
delle interpretazioni che spiega il fenomeno della globalizzazione è la teoria
della dipendenza di stampo neomarxista elaborata da Frank.
Si sostiene in tale teoria che esiste un nesso causale fra l’incremento sempre
più consistente della ricchezza dei paesi industrializzati ed il crescente
impoverimento dei paesi industrializzati arretrati. La critica che a questa tesi
viene avanzata fa dipendere il divario fra paesi ricchi e poveri ad altri
fattori quali il grado di produttività dei sistemi economici nazionali, il
livello di cultura, la qualificazione tecnica, la competenza amministrativa e la
disposizione agli investimenti. Robert Gilpin
sostiene che il terzo mondo non esiste più: questo è già dimostrabile, per
certi versi, se si considera lo sviluppo di alcuni paesi, per lo più di piccole
dimensioni, come Hong Kong e Singapore, che hanno riprodotto su scala ridotta il
modello giapponese. Non è, inoltre, azzardato prevedere nei prossimi anni dei
profondi capovolgimenti delle potenze economiche: paesi come la Cina e l’India
potranno presto surrogarsi a quelle potenze attualmente sviluppate che hanno
dominato la scena sui mercati mondiali per quasi due secoli e mezzo. Un altro
punto da tenere in considerazione è che la globalizzazione dei fattori
produttivi non equivale in alcun modo all’integrazione economico-sociale del
pianeta: ne è evidente esempio l’accusa ai paesi di recente
industrializzazione di praticare, nei confronti dei paesi che essi hanno
economicamente superato, politiche economiche altrettanto predatorie rispetto a
quelle che venivano classicamente adottate dai paesi occidentali. Chi pagherà
il prezzo più alto di uno sviluppo frammentato sono e saranno nel lungo periodo
i più poveri dei paesi più poveri e cioè una larga maggioranza della
popolazione che vive nell’Asia Meridionale, in gran parte dell’Africa e nei
paesi più arretrati dell’America Latina. In realtà le politiche economiche
delle nazioni industriali si ispirano solo in parte ai principi liberali
dell’apertura al mercato mondiale: di fatto essi praticano complesse strategie
che si possono riassumere con l’intreccio fra il regionalismo economico, il
protezionismo settoriale e competizione mercantilistica fra stati. Anche le
massime istituzioni economiche internazionali, in modo particolare la Banca
Mondiale ed il Fondo Monetario Internazionale, si sono subordinate negli ultimi
anni a questa tendenza generale dell’economia mondiale. A tal punto che oltre
che svolgere una funzione di controllo e di pressione sulle economie interne dei
settanta paesi più gravemente indebitati, attraverso i cosiddetti programmi di
aggiustamento strutturale, esercitano anche una sorta di governo parallelo sulle
economie di questi paesi, costringendoli a prendere misure sicuramente
svantaggiose per loro ed inducendoli a ridurre drasticamente gli investimenti
sullo sviluppo umano (livello di vita medio, grado di educazione primaria,
condivisione di uno standard medio di benessere, godimento dei diritti
fondamentali). E’ per questo motivo che si è diffusa una generale convinzione
che va contro il rafforzamento delle attuali istituzioni finanziarie
internazionali o che contrasta la proposta di istituire una “Global
Central Bank” sotto l’egida delle N.U. In definitiva si può
affermare che l’abisso che attualmente separa i paesi più poveri da quelli
ricchi non verrà colmato con questo processo di globalizzazione dell’economia
internazionale perché questo non favorisce né lo sviluppo economico, né
quello umano dei paesi poveri. E sicuramente non dipenderà dagli interventi
assistenzialistici del Welfare
State planetario perché lo sviluppo, come del resto la democrazia e
la pace, non possono essere esportati. Occorreranno, probabilmente, cambiamenti
strutturali che ruotino intorno all’innovazione tecnico-scientifica congiunti
ad altri fattori come la resistenza al processo di occidentalizzazione del
mondo, la capacità di essere competitivi senza lasciarsi plagiare dal paradigma
tecnocratico. E’ necessario anche focalizzare l’attenzione sull’idea di
una pace universale e duratura che difficilmente si può raggiungere con
l’utilizzo dei mezzi giuridici ed istituzionali. Appurato infatti che la
guerra sia un fenomeno culturale e strettamente correlato con l’aggressività
umana e considerando che l’uso della violenza è un mezzo per ristabilire una
situazione di equilibrio e di ordine, allora il conflitto e la guerra non
possono essere negati, ma occorre integrarli nella vita degli individui e nei
gruppi sociali. Questo implica attivare meccanismi di controllo
dell’aggressività che riducano la frequenza del conflitto: bisogna
innanzitutto riconoscere che la guerra, oltre a comportare sacrificio di vite
umane, produce un’alterazione irreversibile dell’ambiente naturale e
culturale. Probabilmente la soluzione più efficace da attuare è quella di
potenziare i contatti simbolici tra le culture e le civiltà che vada nella
direzione della diffusione di una cultura delle “diversità umane”. Bisogna
guardare alle differenze culturali non con avversità ma con aperture ad un
mondo cosmopolitico basato su una multilateralità che è la molla inevitabile
di vivacità culturale e creatività: andrebbero riconosciute le varie
soggettività politiche e la relativa autonomia e dignità sul piano
internazionale. Di fronte a questo tentativo di rivendicare le proprie ragioni
politiche, le istituzioni internazionali rispondono con una teoria che invece
tende a concentrare le strutture di potere internazionale per cercare di
scongiurare la minaccia per gli equilibri della stabilità egemonica. Per
evitare l’effetto atomizzante dei particolarismi etnico-nazionali, sembra
essere indispensabile creare istituzioni decentrate, regionali e diplomazia non
coercitiva. Si deve applicare la teoria del peacemaking attraverso
l’istituzione di organizzazioni internazionali decentrate in grado di
propugnare una pace “debole” e duratura: cioè andrebbe confinato ed
imbrigliato ogni tentativo insurrezionale che potrebbe dar vita ad un conflitto.
Tali istituzioni dovrebbero però essere distaccate dal controllo delle
superpotenze che oggi, invece, finanziano organizzazioni internazionali come le
N.U., hanno l’assoluto predominio sulla scena politica e giuridica mondiale.
Le comunità internazionali dovrebbero comunque astenersi dall’intervenire
direttamente con le armi: al contrario, dovrebbero cercare di imporre una
soluzione negoziale non andando oltre gli embarghi delle armi e delle risorse
belliche. Questa forma di pacifismo può sembrare troppo debole, tuttavia parte
dall’assunto che la pace può realizzarsi solo attraverso il conflitto e nel
conflitto, nel momento in cui si superano le ragioni del conflitto stesso: lo
dimostrano le recenti elezioni della Ruanda e delle regioni della ex Jugoslavia.
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