Relazione di Nicola Bistoni, Letizia Cinti, Jenny Iacoucci

 

 

 

Il Globalismo giudiziario di Hans Kelsen

 

 

Da “I Signori della pace. Una critica del globalismo giuridico” di D. Zolo

 

 

·                    Muovendo da Kelsen

 “Il problema della sovranità e la teoria del diritto internazionale”  (1920)

“La pace attraverso il diritto”  (1944)

 

 

·                    Foro di discussione:

problematicità del mantenimento della pace universale

 

 

·                    Arrivando a Kant

 “Per la pace perpetua”(1795)

 

 

 

 

Muovendo da Kelsen…

 

Noi, popoli delle Nazioni Unite,decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all’umanità, a riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’ uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nell’uguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle Nazioni grandi e piccole,a creare le condizioni in cui la giustizia e il rispetto degli obblighi derivanti dai trattati e dalle altre fonti del diritto internazionale possano essere mantenuti,a promuovere il progresso sociale ed un più elevato tenore di vita in una più ampia libertà,

e per tali fini

a praticare la tolleranza ed a vivere in pace l’uno con l’altro in rapporti di buon vicinato, ad unire le nostre forze per mantenere la pace e la sicurezza internazionale, ad assicurare, mediante l’ accettazione dei principi e l’istituzione di sistemi, che la forza delle armi non sarà usata ,salvo che nell’interesse comune, ad impiegare strumenti internazionali per promuovere il progresso economico e sociale di tutti i popoli,

abbiamo risoluto di unire i nostri sforzi per il raggiungimento di tali fini.

In conseguenza, i nostri rispettivi governi, per mezzo dei loro rappresentanti riuniti nella città di San Francisco e muniti di pieni poteri riconosciuti in buona e debita forma, hanno concordato il presente statuto delle Nazioni Unite ed istituiscono con ciò un’organizzazione internazionale che sarà denominata le Nazioni Unite.”

 

  

 

Così, il 26 giugno 1945, i redattori della Carta delle Nazioni Unite sancivano la “vittoria” di un’idea, che già dai tempi del mandato presidenziale di Wilson, si stava cercando di affermare all’interno della comunità internazionale: sembrava che l’ applicazione del principio della cooperazione fosse la risposta necessaria e più giusta per scongiurare eventi bellici quali erano stati i due recenti conflitti mondiali (non è opportuno ora stabilire se fosse questo il vero motivo e non anche sottese ragioni economiche  di un singolo o di un gruppo di stati a spingere per l’ affermazione di tale principio , ma non escludiamo che nel prosieguo del nostro lavoro esse stesse possano emergere).

Nel periodo tra le due guerre, la teoria dominante vedeva regolati in maniera conflittuale i rapporti fra gli Stati, i quali erano, non a caso, detentori di una sovranità piena ed esclusiva: conseguenza diretta di ciò era l’esistenza di una regola di diritto internazionale generale per cui la guerra era ritenuta legittima.

Oltre la naturale tendenza umana a scongiurare la guerra, diveniva in quegli anni pressante il desiderio di evitare il ripetersi degli orrori perpetrati dalla Germania nazista durante il secondo conflitto mondiale.

Interprete di questo clima si fece Hans Kelsen con la sua teoria della ricerca della pace attraverso il globalismo giudiziario.

Nel 1920 pubblicò “Il problema della sovranità e la teoria del diritto internazionale” con il quale si fece portavoce della cosiddetta teoria monistica e nel 1944 ribadì nello scritto “La pace attraverso il diritto”, la centralità e l’importanza delle istituzioni internazionali per il raggiungimento di una pace stabile e universale tra le nazioni,abbandonando dunque, definitivamente, il paradigma statocentrico.

Nel primo scritto, Kelsen si chiede cosa sia la sovranità, cioè quando si possa definire un’ ente come sovrano, ovvero quando è che si presuppone un ordinamento sovrano: la sovranità per Kelsen non è un fatto bensì un’ ipotesi dell’osservatore.

A ciò vi approda dopo aver stabilito che, qualunque metodo si segua nella ricognizione del concetto di sovranità, l’ambito in cui si ricadrà sarà sempre quello giuridico, affermando di conseguenza la coincidenza tra Stato e Diritto.

Solo percorrendo questa via, egli afferma, si può ricavare il concetto di sovranità: un ordinamento (e dunque uno Stato)è sovrano quando è originario e sovraordinato rispetto agli ordinamenti parziali.

Dalla constatazione che nella realtà esiste un ordinamento giuridico che delimita l’ambito d’azione dei singoli Stati, si può dedurre che esso si trovi sovraordinato rispetto ad essi.

Difatti questa serie di relazioni tra Stati e la sua conseguente organizzazione, non si può spiegare, secondo Kelsen, alla luce di un diritto statale esterno, in quanto ciò condurrebbe ciascuno stato a credere, in virtù del riconoscimento ricevuto al proprio interno, che spetti solamente a lui “il ruolo di unico ordinamento supremo”.

Quando è invece il diritto internazionale ad assumere tale ruolo, il concetto di diritto, citando Kelsen, “si completa sia in senso formale sia in senso materiale: il diritto diventa organizzazione dell’ umanità e perciò tutt’uno con l’idea etica suprema.”[1]

Ciò conduce Kelsen ad abbracciare inequivocabilmente la teoria monistica, secondo la quale l’unicità del diritto risiede nell’ordinamento internazionale,egli a riguardo scrive: “solo in base al primato dell’ordinamento internazionale gli stati particolari appaiono sullo stesso piano giuridico e possono valere giuridicamente come enti di egual rango (…). Questa idea trova la sua espressione nell’ipotesi, avanzata da Christian Wolff, della civitas maxima,che come ordinamento giuridico è superiore in misura eguale agli Stati particolari.”

L’ipotesi di Wolff, si identifica dunque con una comunità universale intesa come un vero e proprio Stato mondiale, la civitas maxima,configurandosi come un ente dotato di “imperium” nei confronti dei singoli stati, riproducendo dunque a livello internazionale quell’“imperium civile” che si frapponeva tra governanti e governati a livello statale.

Da ciò ne consegue che il frequente ricorso alla guerra fosse un fatto assolutamente naturale,poiché legittimato sia dalla liceità dell’uso della guerra sia dal decentramento,nel diritto internazionale,delle funzioni di governo(in particolare quella di accertamento del diritto).

In “Peace through law”, Kelsen si fa forte dei risultati raggiunti fino a quel momento in campo giuridico internazionale e formula due chiare proposte: la creazione di una Corte internazionale con giurisdizione obbligatoria per la soluzione delle controversie internazionali e la previsione di una responsabilità individuale per la violazione del diritto internazionale, in particolare per gli autori della guerra.

Nella diatriba tra le due teorie fondamentali, le quali vedevano come fondamento del mantenimento della pace rispettivamente l’efficacia del diritto o l’egemonia instaurata con la forza, Kelsen afferma che il diritto è organizzazione della forza e che quindi la soluzione obbligatoria delle controversie sia il miglior strumento per scongiurare la guerra (attraverso la centralizzazione del monopolio dell’uso della forza). Venendo all’attuabilità concreta di quest’idea, Kelsen non può esimersi da considerazioni realistiche,che lo inducono a preferire in un primo momento un’unione di Stati anziché una Stato mondiale (il quale sarebbe stato più coerente date le premesse).

La giurisdizione obbligatoria di una futura Corte sarebbe stata poi la caratteristica saliente di tale unione: anzitutto l’eliminazione della guerra avrebbe risolto alla radice il problema  del ricorso a questo strumento per motivi economici; inoltre  avrebbe permesso l’ingresso dell’Unione Sovietica, la quale così, non si sarebbe dovuta sottoporre ad atti vincolanti di natura politica; infine sarebbe venuta meno ,in tal modo,la distinzione tra conflitti politici e conflitti giuridici, essendo i primi sempre riconducibili nella sfera giuridica.[2]

Diventa a questo punto chiaro quale fosse per Kelsen la maggiore innovazione da inserire nella comunità internazionale :l’introduzione e con essa il consolidamento, del principio del voto a maggioranza.

Non a caso, questo era la caratteristica principale della procedura delle Corti di arbitrato: fino a quel momento i trattati più rispettati dagli Stati erano proprio quelli con i quali le parti si sottoponevano al giudizio di tali Corti.

Le decisioni della Corte, dice Kelsen, verranno perciò adottate con tale metodo e anche la loro esecuzione, in un primo tempo, sarà garantita dagli stessi Stati membri[3].

Anche la questione di come conciliare la Dichiarazione di Mosca sull’“eguaglianza sovrana” e la creazione di un organo sovraordinato, trova soluzione in Kelsen grazie a questo principio:

“Sovrano” significherà allora soggetto solamente al diritto internazionale e quindi indipendente; “Eguale” andrà inteso nel senso di autonomo, anche se, rileva Kelsen, vi sono già nel diritto internazionale , casi in cui uno Stato risulta essere vincolato anche contro la propria volontà.

Applicando solo il diritto esistente, la Corte riuscirebbe a svolgere in modo imparziale ed efficace la funzione per cui è stata creata.

Kelsen infine traccia un profilo di quelle che sarebbero dovute essere le innovazioni più importanti da introdurre nella nascente organizzazione:

-            la Corte come organo principale;

-            l’indipendenza dagli Stati e l’imparzialità nel giudizio dei giudici della Corte attraverso una rinnovata procedura di elezione;

-            la non previsione del diritto di recesso da parte degli Stati membri dell’organizzazione.

 Circa la responsabilità individuale, Kelsen afferma che questa,se dovesse imporsi la previsione di sanzioni nei confronti di individui che abbiano violato il diritto internazionale ,diventerebbe uno dei mezzi più efficaci per prevenire la guerra e garantire la pace internazionale.

Esistono già, nel diritto internazionale sia generale che patrizio, simili previsioni (ad esempio la pirateria e i crimini di guerra per quanto riguarda le consuetudini e la Convenzione internazionale dei cavi sottomarini telegrafici per le norme patrizie),è quindi pensabile che un tale regime possa essere creato in occasione della punizione degli autori dei crimini commessi durante la seconda guerra mondiale, ma che poi possa essere sviluppato per la punizione dei crimini in generale.

Se infatti a seguito della Prima Guerra Mondiale era controversa la possibilità di applicazione di un tale giudizio, nel secondo dopoguerra, vari elementi (la violazione dei Patti di non Aggressione stipulati  con Polonia e Unione Sovietica,la violazione del Patto Briand-Kellog ed infine la violazione del principio di “iustum bellum”) dimostrano la natura illegittima della guerra intrapresa dalla Germania nazista .

Al giudizio su gli autori della guerra , si accompagnerebbe anche quello sulla condotta della ostilità, che, sebbene lecita in sé, diventerebbe illegittima una volta constatata a priori la violazione del principio dello “iustum bellum”.

Non si porrebbe nemmeno il problema di incompatibilità con un principio di diritto riconosciuto dalle Nazioni civili, quale quello dell’ irretroattività,poiché dice Kelsen: “la sua base è l’idea morale secondo cui non è giusto considerare responsabile un individuo se egli, mentre poneva in essere l’ atto, non sapeva e non poteva sapere che quel suo atto costituisse un’illegalità. Se, comunque, l’atto era, nel momento del suo compimento,moralmente ,sebbene non giuridicamente, ingiusto, una legge che determinasse ex post facto una sanzione per l’atto, è retroattiva solo da un punto di vista legale, non morale.Una tale legge non è contraria all’idea morale che è alla base del principio in questione”.



Foro di discussione

  

Così D. Zolo riassume e critica l’impianto teorico di Kelsen:

 

1)      La coercitività: elemento fondamentale per la giuridicità di un ordinamento, intesa come esercizio della forza fisica o solo come minaccia (Kelsen distingue l’aspetto propriamente normativo della coercizione dalla sua effettività e considera quest’ultima come un mero fatto e in quanto tale normativamente ininfluente); l’ordinamento internazionale dunque, è giuridico se emana norme sull’uso della forza e se sulla loro base, è possibile qualificare l’esercizio della forza da parte di uno Stato contro un altro Stato o come una sanzione o come un illecito.

2)      Lo “iustum bellum: la guerra “giusta” si configura come lo strumento coercitivo introdotto dalla comunità internazionale contro chi viola le sue norme. Al di fuori dell’ipotesi giusta, la guerra rimane configurabile come illecito internazionale.

 3)      L’eguaglianza formale degli Stati: secondo Kelsen è l’“idea etica per eccellenza” e l’essenza stessa dell’ordinamento internazionale, dalla quale deriva che la comunità sia costituita da tutti gli Stati, ciascuno dei quali potenzialmente fornito di eguali diritti (nonostante la loro diversità “sostanziale”).

 4)      Gli individui come soggetti di diritto internazionale: il diritto internazionale deve regolare, accanto alle azioni degli Stati, anche le attività degli individui, esercitando la sua potestà anche nei loro confronti.

 

Dopo aver letto il libro di Zolo (e, in particolare, la parte dedicata a Kelsen)e analizzato i due testi a nostra disposizione di Kelsen, abbiamo ritenuto opportuno fissare, in conclusione, dei punti di approfondimento e di riflessione su particolari questioni:

 -            La “guerra giusta”: è problematica la definizione di giustizia, in assenza di un’autorità superiore e neutrale che abbia il potere di qualificare gli atti di guerra giusti o ingiusti, ciò porta, dunque, ad una definizione parziale ed artificiosa, creata il più delle volte dagli Stati che hanno più influenza, attraverso una non totale veridicità delle cause reali per le quali si è fatto  ricorso alla guerra, nei confronti dell’ opinione pubblica.

Le Nazioni Unite in quanto organizzazione internazionale, e il Consiglio di Sicurezza in particolare, in quanto “principale organo responsabile per il mantenimento della pace”, hanno risolto questo problema?

A nostro modo di vedere no; le NU non sono assolutamente un organo superiore e neutrale agli Stati, ma sono in definitiva gli Stati stessi ordinati secondo una gerarchia, in base a quanto si è forti economicamente e politicamente: vedi a riguardo l’organizzazione del FMI per quanto riguarda  la struttura, il meccanismo di votazione ponderato e la clausola di condizionalità insita negli aiuti concessi ai Paesi in via di sviluppo, che rappresenta la volontà di controllare la politica economica e non solo, di questi Paesi; vedi inoltre, il rifiuto, sempre da parte degli Stati più forti, di adottare in seno alla Conferenza di San Francisco, la qualificazione in senso economico del termine “forza” presente all’art. 2 par.4 della Carta; (vedi) gli insuccessi che hanno avuto i tentativi successivi: la Dichiarazione sulle relazioni amichevoli, nella quale la coercizione economica è presa in considerazione solamente nell’ambito del principio del “non intervento” e non in quello del divieto dell’ uso della forza; l’art. 3 della risoluzione sulla definizione di non aggressione, nell’elencare gli atti che possono costituire aggressione, non menziona la coercizione economica; infine alcuni Stati, come gli Stati Uniti, hanno sottolineato come non sia possibile equiparare la coercizione economica all’uso della forza armata.

-            Autotutela collettiva: è ammissibile e legittimo che, Stati terzi ad una controversia, si schierino a favore dell’una o dell’altra parte in conflitto, in nome della tutela e della salvaguardia di diritti ritenuti fondamentali dalla comunità internazionale?

La Carta delle NU prevede “il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva… nel caso abbia luogo un attacco armato e fintantoché il C.d.S non sia intervenuto”: quindi prevede tale diritto in caso di aggressione, situazione ritenuta vietata non solo dalla Carta (art.2, par.4), ma dall’intera comunità internazionale.

Sappiamo inoltre, come precedentemente affermato, che la Carta non può essere in nessun modo considerata una “costituzione mondiale” e dunque, dietro la sua obbligatorietà, ci sono sempre i comportamenti degli Stati (vedi sentenza Nicaragua – Stati Uniti, 1986). Ma, a parte la Carta, nell’ambito del diritto consuetudinario, esistono norme che prevedono c.d obblighi erga omnes?

Secondo la Commissione di diritto internazionale esisterebbero particolari illeciti, definibili come “crimini internazionali” (art. 19 del Progetto di articoli sulla responsabilità degli Stati), di fronte ai quali gli Stati non direttamente lesi, potrebbero intervenire.

A nostro parere, è molto rischioso ammettere che alcuni Stati, magari coperti dal “velo” dell’Organizzazione, si ergano a “paladini della giustizia mondiale”; nutriamo forti dubbi al riguardo, in quanto è la stessa prassi che ci dimostra che gli interventi “umanitari” guidati da questi paesi, non sono mai stati esenti da forti interessi economici, strategici, ecc. Non potrebbe invece essere un modo per poter “mettere mano”, dunque controllare, influenzare e assoggettare, paesi molto lontani non solo geograficamente ma anche culturalmente? È accettabile, da questo punto di vista, la c.d globalizzazione?

-            È legittimo chiedersi se anche lo scopo per il quale l’O.N.U. è nata (il mantenimento della pace), sia stato fortemente voluto e strumentalizzato da quei paesi che hanno sostanzialmente voce all’interno dell’organizzazione (i membri permanenti del C.d.S.)?

Questa domanda ci sembra lecita alla luce di quanto è stato, fino ad oggi fatto da questi paesi: con la costituzione da una parte, di organizzazioni volte al mantenimento della pace (O.N.U) e dall’altra di quelle atte allo sviluppo del maggiore commercio possibile (F.M.I., O.M.C.), hanno creato, a nostro parere, un sistema, per così dire, “invincibile”, di cui i maggiori dirigenti e i primi fruitori, sono loro stessi (con le loro economie e strutture).

In questa analisi della realtà internazionale, tenendo in debita considerazione lo stretto rapporto d’inversa proporzionalità che esiste tra guerra e sviluppo commerciale, non è trascurabile il progresso raggiunto nel settore della tecnologia militare, tesa a ridurre il più possibile gli svantaggi che crisi politiche (si badi, non più definite guerre), possono arrecare al commercio mondiale e poter così continuare ad espandere lo scambio di merci a livello mondiale.

Tenendo presente ciò, rendendoci conto anche dei limiti che tale teoria può incontrare, riteniamo tuttavia opportuno  che certe “questioni internazionali” debbano essere  analizzate attraverso un filtro, per così dire, realista, nella ricerca costante e tenace di spiegazioni dei fenomeni, quanto più possibili aderenti alla realtà.

-            Responsabilità individuale: sulla base dei testi a nostra disposizione, in particolare “Peace through law”, ci è sembrato necessario muovere delle critiche alle conclusioni a cui giunge l’autore in questione (Zolo): in particolar modo, quando rileva uno « stridente contrasto tra la richiesta kelseniana che anche gli individui siano considerati soggetti dell’ordinamento internazionale e l’idea che la guerra possa essere una “giusta” sanzione di diritto internazionale nei confronti di Stati (e dei loro cittadini) che abbiano usato la forza illecitamente. Se intesa come sanzione giuridica »prosegue Zolo, « la guerra è in sostanza l’esecuzione di una pena capitale collettiva sulla base di una presunzione di responsabilità penale di tutti gli individui che abbiano operato entro le organizzazioni militari dello Stato che si intende punire, dai capi di Stato Maggiore all’ultimo soldato semplice ».

Analizzando attentamente l’opera di Kelsen, ci sembra non solo che questo “stridente” contrasto non esista, ma anzi, che Kelsen stesso abbia avuto la premura di risolverlo anticipatamente. Infatti, circa l’applicabilità della responsabilità della responsabilità individuale, egli distingue a seconda che si tratti di uno Stato a regime dittatoriale o meno: prevede per il primo l’applicazione di tale principio, mentre per il secondo lascia inalterata la teoria della guerra giusta. Questa distinzione gli è possibile grazie alla facile constatazione che: « (nei) regimi dittatoriali (sicché) il numero di persone che ha il potere giuridico di condurre il proprio paese è molto piccolo. In Germania è probabilmente solo il Führer; in Italia, il Duce e il Re, in Giappone il Primo Ministro e l’Imperatore. Se l’asserzione attribuita a Luigi XIV: « l’Etat c’est moi » è applicabile in qualsiasi dittatura, la punizione del dittatore equivale quasi alla punizione dello Stato.”

Così posta la questione, non sembra che lo “stridente contrasto” sia attribuibile a Kelsen, ma piuttosto ricada su Zolo, il quale pur arrivando a corrette conclusioni circa gli effettivi difetti presenti nella comunità internazionale, confonde i termini della questione arrivando a sconvolgerli, parlando indistintamente di guerra giusta e responsabilità individuale a prescindere dal regime dello Stato autore dell’eventuale illecito.

Non ci sembra inoltre da condividere l’opinione, sempre di Zolo, per cui con un semplice passaggio analogico si potrebbe scadere dalla teoria della guerra giusta a quella del “terrorismo giusto”: a tal proposito, Zolo ha premura di ricordare al lettore che, negli anni in cui Kelsen scriveva “Peace through law”, gli Alleati, in nome di una guerra giusta, si stavano rendendo autori di veri e propri “bombardamenti terroristici” su città tedesche come Dresda, Amburgo, Berlino e con bombe atomiche su Nagasaki e Hiroshima, non ricordando un elemento centrale del pensiero di Kelsen, che è  quello di sottoporre alla giurisdizione per crimini di guerra sia vinti che vincitori (questa è proprio la critica che egli muove al Tribunale di Norimberga per la procedura seguita).

A nostro modo di vedere, anche se è più che probabile che in un particolare momento storico come quello di un dopoguerra, sia molto forte il desiderio di punire gli autori della guerra piuttosto che applicare rigorosamente sia ai vinti che ai vincitori l’universale principio di giustizia, ciò non autorizza, autori come Zolo, a muovere critiche nei confronti di eventuali lacune teoriche che poi,a ben guardare, sono già state colmate dall’autore stesso.

-            Verso una pace universale? Considerazioni finali e riassuntive: seguendo le linee del pacifismo kelseniano, si può affermare che ancora oggi un efficace mezzo per evitare il ripresentarsi di conflitti sia quello di una progressiva giuridicizzazione delle relazioni internazionali: alla luce dei sanguinosi conflitti (si pensi a quello che avviene nel continente africano, nella penisola balcanica, ecc.), si potrebbe addirittura affermare che la natura della guerra sia rimasta sostanzialmente invariata dal periodo post-napoleonico e che anzi, le sue durezze, siano state incrementate dal mostruoso connubio tra tecnologia e rivalità etniche mai sopite.

Constatando dunque che nemmeno l’O.N.U. è riuscita, se non eccezionalmente, ad impedire i conflitti, non si può certo negare l’importanza dell’esistenza di un foro universale in cui perlomeno possa emergere un giudizio politico sulle cause dei conflitti, anzi, questa sembra essere l’unica strada praticabile per la soluzione preventiva dei conflitti; l’alternativa sarebbe o quella di considerare immodificabile la situazione e di riservarsi di dare il proprio giudizio su ogni singolo caso concreto, in base al proprio sistema di valori e di interessi o quella di abbracciare un pacifismo intransigente che mal si concilia con la possibilità di raggiungere in concreto risultati sicuramente più circoscritti, ma non per questo meno nobili.

 Cinquant’anni fa Kelsen auspicava:

a)      l’effettività di sanzioni contro membri, di un’organizzazione per la pace, colpevoli di aggressioni (vedi caso Nicaragua-StatiUniti);

b)      la messa a disposizione, tramite accordi con l’organizzazione, di contingenti militari da parte degli Stati membri per la creazione di una efficiente ed imparziale “Forza di polizia internazionale” (vedi la non applicazione dell’art. 43, par.3, della Carta O.N.U).

Non è allora legittimo pensare che, in presenza di un’effettiva volontà, cinquant’anni possano essere un sufficiente periodo di tempo per realizzare tali previsioni?

Se sì,dobbiamo allora credere che quello che in realtà manchi, sia “un’effettiva volontà”?

 


 

... Arrivando a Kant

  

“Ora, poiché con la comunanza (più o meno stretta) tra i popoli della Terra, che alla fine ha dappertutto prevalso, si è arrivati a tal punto che la violazione di un diritto commessa in una parte del mondo viene sentita in tutte le altre parti, allora l’idea di un diritto cosmopolitico non appare più come un tipo di rappresentazione chimerica ed esaltata del diritto, ma come un necessario completamento del codice non scritto sia del diritto politico sia del diritto internazionale verso il diritto pubblico dell’umanità, e quindi verso la pace perpetua, e solo a questa condizione possiamo lusingarci di essere in costante cammino verso di essa.”

“Per la pace perpetua”

Immanuel Kant(1795)

 

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Bibliografia

Zolo D., I Signori della pace.Una critica al globalismo, Carocci, 1998, pp. 21-48.

Kelsen H., Il problema della sovranità e la teoria del diritto internazionale, Milano, 1989, pp. 17-26 (§ 3), pp. 57-61 (§ 9), pp. 299-327 (§§46-48), pp. 355-393 (§§52-54).

Kelsen H., La pace attraverso il diritto, Torino, 1990, pp.41-153.

Kant I., Per la pace perpetua, Milano, 1997.

Ronzitti N., Diritto internazionale dei conflitti armati, Torino, 1998.

Bosetti G., Per una nuova definizione della parola “guerra”,a cura di C. Pinzani, in “Reset”, maggio-giugno 1999, n. 54, pp.18-21.

                   


[1] Il tentativo di Kelsen, di provare a far coincidere la realtà internazionale dunque l’ umanità con “l’ idea etica suprema”, trovale sue origini  nel filosofo illuminista Kant , il quale costruì un intero “progetto filosofico” volto spiegare le ragioni e i modi attraverso i quali poter raggiungere quest’idea di pace perpetua.

Anch’egli infatti era convinto che la dimensione internazionale “s’ imponesse” agli stati e agli individui in maniera del tutto naturale e che, inoltre , costituisse la sola strada percorribile per scongiurare definitivamente la guerra.

Anche per Kant era dunque necessario realizzare il più presto possibile questo progetto da intendere come un vero e proprio “dovere immediato” che si impone a tutti gli uomini in ragione della propria forza morale, e il mezzo per raggiungerlo è la costituzione di una federazione di pace tra i popoli, che ponga fine in maniera assoluta a tutte le guerre, ma che nello stesso momento, garantisca il rispetto della libertà di ciascuno stato.

[2] Kelsen ritiene che questa sia una distinzione addotta da chi vuole indebolire lo strumento della giurisdizione obbligatoria,e scrive a riguardo che”ogni conflitto tra stati, così come tra persone private ,ha un carattere economico o politico;ma questo non impedisce di trattare le controversie come controversie giuridiche”

[3]Nel suo progetto di una “Lega Permanente per il Mantenimento della Pace”, PLMP, un’ “unità amministrativa” avrebbe diretto l’azione degli Stati membri  per l’esecuzione delle decisioni della Corte,adottando risoluzioni con voto preso a  maggioranza.