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Il pacifismo cosmopolitico di Norberto Bobbio
Ognuno
di noi ha verso la natura un debito e deve essere preparato a saldarlo. L’uomo civile evita accuratamente di parlare dell' eventualità della morte, ma questo è solo un atteggiamento convenzionale e temporaneo cui si contrappone il totale collasso in cui cade quando essa colpisce una delle persone care. Si seppelliscono con lei tutte le speranze e le gioie; è come se la vita si impoverisse. Allora si cerca inevitabilmente un sostituto a ciò cui si deve rinunciare e solo nella finzione, nella letteratura e nel teatro si può trovare quella pluralità di vite di cui si ha bisogno. Ci si identifica con un personaggio e si vivono con lui numerose esperienze, anche la morte, ma si riesce a sopravvivergli, pronti a ricominciare tutto da capo con un altro personaggio . L’uomo moderno vive il suo rapporto con la morte nello stesso modo dell’uomo primitivo. La morte altrui non ha mai presentato difficoltà, si ammazzava come se fosse una cosa ovvia e naturale. La storia primordiale è piena di assassinii. Tutta l’umanità è pervasa da un oscuro senso di colpa che si è consolidato nell’idea di un peccato originale che, Freud, nel libro “totem e tabù”, ha spiegato come manifestazione di un delitto di sangue di cui fu colpevole l’umanità primitiva. All’uomo
primitivo era impossibile rappresentare se stesso morto, ma allo stesso tempo
non poteva tenere lontana da sé l’idea della morte. Trovò un compromesso:
riconobbe anche per sé quella possibilità
togliendole però quel tradizionale significato di annullamento che
appariva naturale in caso di morte di un nemico. Di fronte al cadavere di una
persona amata, però, non poteva continuare a comportarsi con la stessa
indifferenza, così iniziò ad immaginare spiriti, la distinzione tra anima e
corpo, finchè teorizzò l’idea di una vita ulteriore dopo la morte. Allo
stesso modo il nostro inconscio (parte più profonda della nostra psiche fatta
di moti pulsionali), spiega Freud, non crede alla propria morte, proprio come
l’uomo primitivo e si comporta come se fosse immortale. La consapevolezza
della morte non corrisponde a nulla di pulsionale,
per il nostro inconscio non esiste, in esso tutte le opposizioni si
conciliano e non c’è posto per nulla di negativo. Questi atteggiamenti
opposti verso la morte, quello per cui è riconosciuta come annullamento della
vita e quello che la rinnega come irreale, si scontrano in un solo caso, la
perdita di una persona amata. I cari sono per noi un intimo possesso, spiega
Freud, un elemento del nostro io, ma in parte anche estranei o addirittura
nemici. Il conflitto contenuto in questa ambivalenza non dà più origine alla
dottrina dell’anima, come è stato per l’uomo primitivo, bensì alla
nevrosi. Nel
1896 Freud ha assistito alla morte del padre che ha definito come “la perdita
più straziante della vita di un uomo”. La crisi che ne seguì, però, non fu
sofferenza pura; i suoi sogni gli rivelarono quei conflitti interiori,
quell’inevitabile ostilità del figli contro il padre, pure amato, che ha
spiegato con il complesso di Edipo, che sta alla base del sentimento di colpa
proprio di ogni uomo. Ha sperimentato su di sé quel ritorno del rimosso,
quell’ambivalenza affettiva che ebbero enorme importanza nel suo pensiero.
Elemento fondante è la crisi edipica che si supera solo con
l’interiorizzazione di un censore esterno fornito dal super-ego. Se la crisi
non viene superata con l’emancipazione affettiva dai genitori, il complesso
riaffiora e genera sensi di colpa, incapacità di instaurare relazioni amorose e
gravi nevrosi. Questa
teoria delle pulsioni libidiche, su cui aveva precedentemente costruito la
teoria delle nevrosi, fu rivista in seguito allo scoppio della prima guerra
mondiale. La
guerra lascia riapparire l’uomo primitivo che altrimenti resterebbe in ognuno
di noi solo a livello inconscio. Ci costringe ad essere eroi che non credono
nella possibilità della propria morte e ci invita a sopportare con serenità
anche la perdita di persone care. Ma
la guerra come si giustifica? Per
capirlo bisogna risalire agli inizi primordiali del mondo. Freud fa scaturire
tutto dalla contrapposizione fra diritto e violenza. I conflitti di interesse
fra gli uomini erano decisi mediante l’uso puro della violenza, infatti
inizialmente era la maggiore forza muscolare che decideva a chi doveva
appartenere una determinata cosa, mentre in seguito fu introdotto l’uso di
strumenti di vario genere e vinceva chi aveva le armi migliori. In ogni caso lo
scopo era lo stesso: una delle due parti doveva essere costretta a desistere
dalle proprie rivendicazioni. L’unica conclusione possibile era la sua
uccisione mentre con il passare del tempo si pensò che il nemico poteva essere
impiegato in mansioni servili utili e si diede
così inizio alle schiavitù. Lo stato originario era dunque costituito
dal predominio del più forte, dalla violenza bruta che venne in seguito
sostituita dall’unione di molti; alla violenza del singolo subentrò così la
potenza/violenza di coloro che decidevano di unirsi per formare una comunità.
Il diritto non era più potenza del
singolo( legge del più forte), ma di una comunità che doveva essere una unione
stabile, durevole, organizzata, regolata da statuti ed organi propri. All’interno
della comunità però rimanevano elementi di forza ineguale e il diritto divenne
espressione dei rapporti di forza che inevitabilmente ne scaturivano. La
storia dell’umanità mostra una serie ininterrotta di conflitti d’interesse
che il più delle volte sfociavano in vere e proprie guerre. L’unica soluzione
possibile per arginare questo fenomeno sembrava la creazione di una autorità
centrale a cui deferire la risoluzione di tutti i conflitti (la Società delle
Nazioni fu creata con questo scopo, ma fin dall’inizio non disponeva di forza
propria e nacque già esautorata
dei suoi poteri in quanto vennero a mancare i suoi più grandi promotori, gli
USA). Il
problema più grande che Freud si pone nel “Disagio della civiltà” è la
comprensione dei moti che portano l’uomo a commettere tanto facilmente grandi
crimini. Presume che ognuno di noi sia mosso da due pulsioni, quella
sessuale-erotica e quella aggressiva-distruttiva. La prima, Eros, è
orientata dal principio del piacere e si ribella a costrizione esterne
esprimendosi nell’amore e nella creatività, mentre la seconda, Thanatos,
spinge ad “uccidere”. All’interno di ogni essere vivente quindi c’è una
“velata” pulsione di morte che diventa effettiva e veramente distruttiva
quando, con vari aiuti, si rivolge all’esterno, verso oggetti. Per soggiogare
questa pulsione bisogna ricorrere alla sua naturale antagonista, l’Eros. Tutto
ciò che fa sorgere legami emotivi tra gli uomini deve agire contro la guerra;
la condizione ideale sarebbe naturalmente una comunità umana che avesse
assoggettato la sua vita pulsionale alla dittatura della ragione. Nel
testo del 1929 “Disagio della civiltà” Freud analizza l’essenza della
civiltà dal punto di vista dell’uomo e della sua felicità. La civiltà è
costruita su una serie di limitazione alla libertà dell’individuo, obbliga
l’uomo ad inibire molte sue pulsioni, a rinunciare alla soddisfazione delle
esigenze profonde o a deviarle in atti che però non ne completano il
soddisfacimento. La civiltà quindi ha un carattere repressivo in quanto per
sopravvivere ha bisogno di neutralizzare la natura individualistica delle
pulsioni umane e dell’energia degli uomini che deve riuscire ad investire in
prestazioni sociali. Frued considera l’uomo hobbesianamente malvagio e la
società come un freno ai suoi naturali istinti sociali. Non condanna la civiltà
tout court, come molti hanno pensato, ma le pressioni inutili ed eccessive che
esercita sulla natura umana generando angoscia, sofferenza e nevrosi. Per
alleviare queste sofferenze propone una maggiore consapevolezza demistificatrice
di ideali e di valori perché questi, pur necessari per dominare l’istinto di
morte, non peggiorino la già tragica situazione umana. Per molti la prima
guerra mondiale ha infranto anche l’ultima illusione e ha portato con sé
inevitabilmente grande delusione in quanto fu la più rovinosa e sanguinosa per
i perfezionamenti portati alle armi e più crudele e spietata di ogni guerra del
passato. Freud sostiene però che l’avvilimento e la scorata delusione per il
comportamento incivile dei suoi contemporanei erano in realtà ingiustificati,
in quanto si fondavano su una illusione a cui tutti si erano abbandonati
ciecamente, cioè che quella era la società con il più grande grado di civiltà.
Quella guerra in realtà ha infranto tutte le barriere riconosciute in tempo di
pace e quelle che costituivano lo jus gentium, non riconosceva la
distinzione tra popolazione combattente e neutrale, violava il diritto di
proprietà e rompeva tutti i legami di comunità fra i popoli. La delusione
quindi era alimentata dalla scarsa moralità all’esterno di quegli stati che
all’interno si ergevano a custodi delle norme morali e dalla brutalità
riscontrata nel comportamento dei singoli che, in quanto membri della più
progredita civiltà umana, non sarebbero dovuti essere capaci di ciò. In realtà
gli uomini, spiega Freud, non sono per natura inclini al bene, ma le loro
naturali tendenze al male subiscono una lunga e graduale evoluzione venendo
inibiti e deviati verso il bene. Questo percorso è favorito dall’azione
congiunta di due fattori, uno interno e l’altro esterno. Il primo consiste
nell’influsso che esercita l’erotismo, cioè il bisogno umano d’amore
inteso nel senso più ampio del termine (quando componenti erotiche si uniscono
alle pulsioni egoistiche queste ultime si trasformano in pulsioni sociali). Il
secondo è la coercizione educativa che rappresenta il potere dell’ambiente
incivilito. La civiltà si è costituita mediante la rinuncia al soddisfacimento
pulsionale ed esige da ogni individuo una rinuncia equivalente. La coercizione
esterna quindi, esercitata sugli uomini dall’educazione e dall’ambiente,
contribuisce ad attuare la trasformazione della vita pulsionale verso il bene e
a convertire il naturale egoismo umano in altruismo. Quando nell’individuo,
però, si determina un
comportamento ritenuto “buono” da tutti, non si è in presenza di un vero
ingentilimento della sua vita pulsionale poiché le pulsioni inibite permangono
e restano pronte ad approfittare di ogni occasione per soddisfarsi. Alla
fine del suo discorso in risposta ad Einstein, Freud non dà una spiegazione
tangibile del perché ancora accadano guerre e soprattutto del perché tutti noi
ci riteniamo pacifisti. Egli sostiene che la ragione principale per cui ci si
indigna contro la guerra è che non si può non farlo. Si è pacifisti perché
si deve esserlo per ragioni organiche in quanto è facile giustificare questo
atteggiamento con argomenti. Da
tempi immemorabili l’umanità è soggetta al processo dell’incivilimento, da
altri chiamato civilizzazione e si deve ad esso il meglio di ciò che siamo
diventati e buona parte di ciò di cui soffriamo. Le modificazioni psichiche che
accompagnano l’incivilimento sono evidenti e consistono in uno spostamento
progressivo delle mete pulsionali e in una restrizione di moti pulsionali. “La
guerra contraddice nel modo più stridente tutto l’atteggiamento psichico che
ci è imposto dal processo civile, cosicché dobbiamo ribellarci ad essa:
semplicemente non la sopportiamo più; non è soltanto un rifiuto intellettuale
e affettivo, nei pacifisti è un’intolleranza costituzionale”. Alla
fine si chiede quanto si dovrà aspettare perché tutti diventino pacifisti e
conclude dicendo che tutto ciò che promuove l’evoluzione civile lavora anche
contro la guerra, ma non fornisce nessuna risposta soddisfacente alle domande di
Einstein, né una vera tipizzazione della guerra.
Il
pacifismo cosmopolitico di Norberto Bobbio. A
questa mancanza suppliscono vari autori, tra questi Norberto Bobbio analizza la
decadenza della teoria della guerra giusta e la fa coincidere con la nascita del
positivismo giuridico e con l’avvento dello storicismo. Il
filosofo torinese ritiene che la guerra può essere giustificata solo in due
casi: come male apparente (male che nasconde un bene) e come male necessario
(male da cui deriva un bene). Queste
due giustificazioni corrispondono ad altrettanti modelli filosofici: il
provvidenzialismo e il finalismo. Queste
due concezioni filosofiche si assomigliano molto in quanto ogni evento può
essere compreso solo se viene inserito in un contesto più ampio. Queste due
correnti filosofiche, infatti, definiscono il male necessario come mezzo per
raggiungere un fine e quindi pienamente giustificato, considerando la guerra
come progresso morale, civile e tecnico. Secondo
Bobbio esistono quattro modi per considerare il rapporto tra guerra e diritto: 1.
GUERRA COME ANTITESI DEL DIRITTO 2.
GUERRA COME MEZZO PER REALIZZARE IL DIRITTO 3.
GUERRA COME OGGETTO DEL DIRITTO 4.
GUERRA COME FONTE DEL DIRITTO Il
diritto in questi quattro concetti viene concepito in modo diverso, assumendo
vari significati. Nel primo il diritto è inteso come ordinamento giuridico; nel
secondo è una giusta pretesa da far valere contro i ribelli; nel terzo come una
regola di condotta, mentre nel quarto è inteso come giustizia. La
guerra, quindi, viene indicata in quattro modi diversi: antitesi, mezzo,
oggetto, fonte. La
prima nasce dal fine comune che è presente in ogni ordinamento giuridico, la pace: infatti all’interno di ogni ordinamento possono
essere perseguiti altri fini come la libertà o la giustizia, fini che non
potrebbero essere neanche pensati se non ci si trovasse in un periodo di pace. Se
si considera, invece, la guerra come violenza organizzata e il diritto come
insieme di regole per regolare conflitti, ci si riferisce alla guerra mezzo. Se
un gruppo di uomini avanza delle pretese nei confronti di un altro gruppo di
uomini e queste pretese sono giuste, la guerra diviene un mezzo per creare
diritto. In questo caso la guerra si legittima solo se è una guerra di difesa,
di riparazione di un torto, o se è una guerra punitiva come risposta ad
un torto altrui. La
guerra fonte dà vita ad un nuovo diritto, considerato come regola di condotta e
“distributore” del potere. Bobbio,
inoltre, inserisce la guerra in un contesto più ampio, quello del diritto
internazionale, considerandola un potere residuo o un potere straordinario. Nel
primo caso è un potere meramente facoltativo, nel secondo è un potere che il
diritto vigente non può controllare. Il
concetto di guerra moderna induce Bobbio a introdurre quello di pacifismo attivo
che contrasta con tutte le teorie precedenti sui conflitti armati. Il pacifismo attivo si muove in tre direzioni diverse agendo o sui mezzi (pacifismo strumentale), o sulle istituzioni (pacifismo istituzionale), o sugli uomini( pacifismo finalistico). Il
rimedio per eliminare la guerra secondo la teoria del pacifismo giuridico è la
creazione di un super stato, mentre per la teoria del pacifismo sociale la
soluzione va ricercata nel passaggio da una forma di capitalismo ad una di
socialismo. Riguardo all’uso della violenza invece il filosofo torinese ritiene che questa trovi sempre una giustificazione in quanto finalizzata alla conservazione del potere. A questo proposito egli individua due giustificazioni alla violenza , come valutazione positiva della stabilità ( violenza istituzionale come rimedio a quella rivoluzionaria) e come valutazione positiva del mutamento( come rimedio alla violenza istituzionale da parte di forze rivoluzionarie). In entrambe le prospettive la violenza è considerata come mezzo atto a raggiungere un fine; ciò che cambia è solo il fine. Riguardo
poi all’eticità della violenza secondo Bobbio non basta che sia giusta, ma è
necessario che sia esercitata da coloro che hanno il potere di farlo. Ci
si trova di fronte al problema
della legittimazione che si riferisce alle norme del diritto internazionale che
stabiliscono una serie di limiti alle operazioni belliche (dichiarazione di
guerra, trattamento dei
prigionieri). L’unica soluzione possibile è quella che vede la creazione di nuove istituzioni e di nuovi strumenti d’azione che permettono di risolvere i conflitti senza ricorrere alla violenza, rendendola o troppo costosa o addirittura controproducente. Il
pacifismo giuridico di Bobbio viene definito come “ il rimedio in quanto
istituzione del superstato o Stato mondiale”. Ciò
che rende inevitabile l’uso della forza sul piano internazionale è la
mancanza di un’autorità superiore ai singoli Stati che sia in grado di
decidere chi ha ragione e chi ha torto e di imporre la propria decisione con
forza. In
questo modo Bobbio si rifà al modello della domestic analogy,
constatando che ci sono oggi delle guerre che i poteri e la giurisdizione dei
singoli Stati non sono più in grado di gestire, egli si dichiara favorevole
all’istituzione di un Tribunale Penale Internazionale Permanente, presso le
Nazioni Unite, competente a giudicare tutti i responsabili di crimini contro
l’umanità e i crimini di guerra sulla base di un Codice Penale
Internazionale. Bobbio
si distacca, quindi, sia dal pacifismo strumentale, che propone un intervento
sui mezzi, sia dal pacifismo etico, pedagogico o terapeutico, che punta
sull’educazione civile e sulla mitezza degli uomini. Egli,
inoltre, prende le distanze anche dal pacifismo assoluto della nonviolenza,
affermando nelle pagine di “una guerra giusta” i nonviolenti vivono nella
storia tanto da sapere che il seme dei violenti, dei persecutori, dei
dominatori, degli oppressori è sempre fecondo, insomma sono pacifisti coi piedi
per terra. La
nonviolenza per ottenere il suo scopo richiede sia l’uso dell’intelligenza,
come capacità di adeguare i mezzi ai fini, sia la fermezza, il coraggio e la
determinazione. I
nonviolenti sono combattenti che non usano strumenti mortali, le loro strategie
di opposizione sono o passive ( disobbedienza civile e resistenza passiva ) o
attive (sabotaggio, assedio economico ). Si
giunge, quindi, alla conclusione che la nonviolenza serve a rendere
l’avversario inoffensivo più che ad offenderlo (es. trasformazione pacifica
dei paesi dell’Est). Abbracciando
la teoria kelseniana che concepiva l’ordinamento giuridico nella forma
gerarchica dello Stufenbau e ritenendo che la Grundnorm
rappresentasse una chiusura di comodo che fa riferimento indiretto alla teoria
della Stato di diritto, egli specifica che sul piano internazionale il diritto
è legato al valore della pace, hobbesianamente, è lo strumento per introdurre
rapporti pacifici tra gli uomini e tra gli Stati; la pace è dunque il bene
fondamentale che solo il diritto può garantire. Dal
punto di vista giuridico egli ha sostenuto che la Guerra del Golfo è stata un
caso esemplare di guerra “giusta” nel senso di “conforme alla legge”. Le
Nazioni Unite avevano il dovere di reagire ricorrendo all’uso legittimo della
forza militare essendosi verificata un’aggressione contro uno Stato sovrano e
quindi una violazione del diritto internazionale. L’autorizzazione
data dal Consiglio di Sicurezza può essere considerata una tappa della tappa
resa possibile dall’attenuazione del contrasto tra le grandi potenze che aveva
fino a quel momento paralizzato l’esercizio di quella primordiale forma di
potere comune. Saddam
Hussein fu un tipico signore della guerra, nei molti mesi passati tra la prima
risoluzione dell’ONU e l’inizio della guerra, non mostrò mai di essere
disposto ad accettare l’inizio di un dialogo costruttivo, né tanto meno a
ritirarsi dal Kuwait, né a considerare nessuna delle proposte del Segretario
delle Nazioni Unite. Con l’aiuto di Dio
egli era sicuro di vincere la guerra. Nonostante
tutto ciò Bobbio esprime le sue perplessità sull’efficacia della guerra e
sulla sua opportunità e inevitabilità. Egli
nel capitolo conclusivo del volume “il futuro della democrazia” considera le
due dicotomie che dominano nella teoria generale della politica, quella
democrazia-autarchia, che si risolve nella dicotomia autonomia-eteronomia; e
quella pace-guerra, che si risolve nella dicotomia nomia-anomia. Riprendendo
le dottrine contrattualistiche individua che il passaggio dallo stato di natura
allo stato civile si concretizza in un accordo, in un patto di non-aggressione
che consiste nel reciproco impegno dei contraenti ad escludere l’uso della
guerra dai loro rapporti. Rinviene
la soluzione dei conflitti nell’intervento di un Terzo
(mediatore ) che Hobbes e Locke individuano nell’arbitro, cui le parti
delegano la decisione impegnandosi a sottoporvisi, e nel giudice, autorizzato a
intervenire per risolvere il conflitto da un’istanza superiore. Per
usare una terminologia freudiana, nel momento in cui compare il Giudice lo Stato
agnostico (in cui i soggetti risolvono i conflitti mediante negoziati che
sfociano in compromessi) si trasforma in stato pacifico, corrispondente al pactum
subiectionis. Il
patto democratico è quello in cui il potere sovrano non si estende sopra tutte
le libertà e i poteri che gli individui o gruppi hanno in natura, devono essere
rispettati quelle libertà e quei poteri considerati come diritti naturali e
quindi non sopprimibili né restringibili; e inoltre devono essere stabilite
regole per le decisioni collettive, vincolanti per tutti, tali che esse siano
prese con la massima partecipazione e il massimo consenso dei contraenti stessi. Si
può osservare tenendo presenti queste considerazioni che oggi nei rapporti
internazionali il tradizionale sistema dell’equilibrio tra più potenze o
gruppi di potenze, e quello avviato dal processo di democratizzazione,
continuano a convivere l’uno a fianco all’altro. Il
nuovo sistema non è riuscito ad eliminare completamente il vecchio proprio
perché non è giunto alla costituzione di un forte potere comune. In
questo sistema internazionale l’unico modo per risolvere i conflitti è ancora
quello del ricorso all’uso della violenza reciproca, o meglio ancora della
minaccia dell’uso della violenza. Dall’analisi
di Bobbio emerge chiaramente che durante il periodo della guerra fredda e
dell’equilibrio del terrore, la minaccia della guerra nucleare ( guerra
moderna ), che metteva a repentaglio la stessa sopravvivenza della specie umana,
aveva fatto sì che la teoria della guerra giusta subisse un gravissimo colpo,
quello che si prospettava non era la vittoria di chi aveva ragione, ma di dar
ragione a chi avesse vinto, facendo sì in questo modo che la distinzione tra
guerra di difesa e guerra di offesa risultasse molto incerta. Alla
luce di quanto si può ricavare dai suoi scritti, la guerra nucleare si pone al
di fuori di ogni criterio di legittimazione, essa appare incontrollabile dal
diritto e quindi torna ad essere l’antitesi del diritto e non più un mezzo
per attuarlo (teoria della guerra giusta ) o un oggetto di regolamentazione
giuridica nel diritto di guerra. In
conclusione, si può dire di trovarsi in un circolo vizioso nel senso che gli
Stati potranno diventare tutti democratici solo in una società internazionale
compiutamente democratizzata. Ma una società internazionale compiutamente
democratizzata presuppone che tutti gli Stati che la compongono siano
democratici, quindi l’adempimento di un processo trova come ostacolo
l’inadempimento dell’altro processo. Proiettandosi
in una prospettiva futura possiamo sperare che il processo di democratizzazione,
che si è avviato grazie all’aumento degli Stati a regime democratico,
continuando riesca a realizzarsi compiutamente.
La
guerra del Kossovo. Molti
degli argomenti finora trattati sono stati oggetto di un acceso dibattito tra
numerosi intellettuali, i quali hanno espresso la loro opinione riguardo la
guerra del Kossovo in AA.VV, L’ultima crociata? Ragioni e torti di una guerra giusta, I libri di
reset, 1999. Prima di presentare i
diversi punti di vista emersi in questa raccolta, è bene chiedersi per quale
motivo la guerra del Kossovo sia stata al centro di un così articolato
dibattito negli ultimi tempi. La
risposta va ricercata nelle cause che hanno portato la NATO nei Balcani, una
causa nuova e senza precedenti: la tutela dei diritti umani. Una
delle opinioni più illustri, riportata da Giancarlo Bosetti, direttore della
collana I libri di reset, è
sicuramente quella di Bobbio. Egli vede in questa guerra tutti gli elementi
tipici di “ Una guerra santa contro gli infedeli”, una guerra “fuori dalle
vecchie regole, eppure obbligata”. Bobbio ritiene che l’obbligatorietà di
questa guerra dipenda dalla necessità di essere filo-americani, di appoggiare
cioè incondizionatamente in questo conflitto gli Stati Uniti. L’America
rappresenta, secondo Bobbio, la potenza egemone del momento; e se è vero che
una democrazia, anche difettosa, è
migliore di qualsiasi dispotismo, non possiamo che prendere atto di questa
supremazia ed appoggiarla con ogni mezzo. Bobbio riprende questa teoria da Hegel,
il quale riteneva che ogni periodo storico sarà sempre caratterizzato
dall’egemonia di uno stato dominante. Un’altra
interessante teoria è quella di Antonio Cassese, già presidente del tribunale
internazionale dell’Aja per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia ed
attualmente presidente di una cattedra di prima istanza del tribunale. Egli
ritiene che questa guerra, non sia stata legittimamente intrapresa, in quanto la
carta delle Nazioni Unite non prevede l’adozione di misure implicanti l’uso
della forza nel caso di violazione dei diritti umani. Cassese ritiene tuttavia
che il diritto dovrebbe essere aggiornato: rendendo così legittimo ciò che
ancora non può essere ritenuto tale. Più precisamente Cassese sostiene che
l’uso della forza potrebbe essere legittimato nel caso in cui sussistano
cinque condizioni: 1-
lo Stato contro cui si usa la forza ha violato in modo gravissimo,
massiccio e ripetuto i diritti umani fondamentali; 2-
il Consiglio di sicurezza ha ripetutamente invitato quello stato a porre
termine ai massacri; 3-
è stata tentata ogni possibile soluzione diplomatica e pacifica; 4-
l’uso della forza è sostenuto da un gruppo di stati e non da una
singola potenza e la maggioranza degli stati dell’ONU non è contraria a tale
uso; 5-
il ricorso alla guerra non ha alternative rispetto alla prosecuzione dei
massacri da parte dello stato responsabile. Zolo
è decisamente avverso alle posizioni di Cassese in quanto ritiene che “In
tema di teoria delle fonti del diritto internazionale il principio formulato da
Cassese sia ex-crimine oritur ius”. Secondo
lui questa guerra rappresenta la più grande lesione del diritto internazionale
vigente, contro la quale il consiglio di sicurezza avrebbe il dovere di
intervenire a norma degli articoli 2, 39, 42 della carta delle Nazioni Unite. Se
infatti, sostiene Zolo, la funzione più importante del diritto internazionale
è quella di evitare la guerra, l’attuazione di tali misure coercitive non fa
altro che indebolirlo irrimediabilmente. Un
altro spunto molto interessante ci è poi offerto da Ulrich Beck, il quale
ritiene che “Ciò che rende gli attachi NATO alla Jugoslavia così
paradossalmente (il)legittimi può portare facilmente all’attestazione di un
nuovo tipo di guerra nell’epoca globale. Secondo Beck stiamo attraversando
l’era della guerra post-nazionale, vale a dire una guerra non più combattuta
in nome dell’interesse nazionale, ma intrapresa in seguito al venir meno
“delle classiche differenze fra guerra e pace, interno ed esterno, attacco e
difesa, diritto e arbitrio…”. Secondo
la logica della guerra post-nazionale il conflitto diventa il proseguimento
della morale con altri mezzi. Non è esagerato, afferma Beck, parlare di
crociate democratiche in cui l’occidente combatterà in futuro anche per poter
rinnovare la propria auto-legittimazione. Jurgen
Habermas sostiene che questa guerra assume connotazioni diverse a seconda
dell’ambito in cui la si affronti; nell’ambito del diritto internazionale
classico questa guerra non è altro che un’ingerenza negli affari interni di
uno stato sovrano. Nell’ambito invece dei diritti umani l’intervento deve
essere interpretato come una missione pacificatrice, armata, ma autorizzata. Il
problema della tutela dei diritti fondamentali potrebbe essere risolto
attraverso la trasformazione del diritto internazionale in un diritto di
cittadinanza universale. L’appartenenza diretta ad una società Interessanti
spunti vengono infine offerti da Edgar Morin. Egli è convinto che la NATO,
intraprendendo questa guerra, sia caduta in una trappola. Morin giustifica la
sua opinione andando alle origini della vicenda, quando cioè Milosevic nel 1989
soppresse l’autonomia del Kossovo. Egli incolpa i leader politici occidentali
di quel periodo di non aver colto l’occasione di cercare un dialogo, una via
d’uscita, con Ibraim Rugova, allora un interlocutore moderato, responsabile e
che, cosa più importante, pensava all’autonomia Kossovara e non ancora
all’indipendenza. In
conseguenza di questa “politica dello struzzo”, di questa politica del
giorno per giorno, dice Morin, l’occidente si è trovato a dover fare i conti
con un movimento non più autonomista ma indipendentista, con tutte le
conseguenze destabilizzanti per l’intera area balcanica. Questa minaccia di
destabilizzazione ha provocato un’immensa paura nei paesi europei che hanno
tentato di porre rimedio alla situazione attraverso la confusa iniziativa
diplomatica che ha portato alla conferenza di Rambouillet. La conferenza si
basava sulla convinzione che bastasse una semplice pressione per raggiungere un
risultato. Ma quando questa pressione non ha realizzato gli obbiettivi previsti,
si è provato con la minaccia militare… Morin conclude dicendo che in politica non bastano le buone intenzioni, perché queste possono portare mali peggiori di quelli provocati da cattive intenzioni. BibliografiaFreud
S., Perché
la guerra?, in Id., Il
disagio della civiltà, Boringhieri, Torino, 1997, pp. 280-299. |