Il pacifismo cosmopolitico di Norberto Bobbio

 

 

di Nicoletta di Cicco Pucci, Viviana Donarelli, Silvia Fortunati, Federica Lorenzoni

 

 

Ognuno di noi ha verso la natura un debito e deve essere preparato a saldarlo.

L’uomo civile evita accuratamente di parlare dell' eventualità della morte, ma questo è solo un atteggiamento convenzionale e temporaneo cui si contrappone il totale collasso in cui  cade quando essa colpisce una delle persone care. Si seppelliscono con lei tutte le speranze e le gioie; è come se la vita si impoverisse. Allora si cerca inevitabilmente un sostituto a ciò cui si deve rinunciare e solo nella finzione, nella letteratura e nel teatro si può trovare quella pluralità di vite di cui si ha bisogno. Ci si identifica con un personaggio e si vivono con lui numerose esperienze, anche la morte, ma si riesce a sopravvivergli, pronti a ricominciare tutto da capo con un altro personaggio .

L’uomo moderno vive il suo rapporto con la morte nello stesso modo dell’uomo primitivo. La morte altrui non ha mai presentato difficoltà, si ammazzava come se fosse una cosa ovvia e naturale. La storia primordiale è piena di assassinii. Tutta l’umanità è  pervasa da un oscuro senso di colpa che si è consolidato nell’idea di un peccato originale che, Freud, nel libro “totem e tabù”, ha spiegato come manifestazione di un delitto di sangue di cui fu colpevole l’umanità primitiva.

All’uomo primitivo era impossibile rappresentare se stesso morto, ma allo stesso tempo non poteva tenere lontana da sé l’idea della morte. Trovò un compromesso: riconobbe anche per sé quella possibilità  togliendole però quel tradizionale significato di annullamento che appariva naturale in caso di morte di un nemico. Di fronte al cadavere di una persona amata, però, non poteva continuare a comportarsi con la stessa indifferenza, così iniziò ad immaginare spiriti, la distinzione tra anima e corpo, finchè teorizzò l’idea di una vita ulteriore dopo la morte.

Allo stesso modo il nostro inconscio (parte più profonda della nostra psiche fatta di moti pulsionali), spiega Freud, non crede alla propria morte, proprio come l’uomo primitivo e si comporta come se fosse immortale. La consapevolezza della morte non corrisponde a nulla di pulsionale,  per il nostro inconscio non esiste, in esso tutte le opposizioni si conciliano e non c’è posto per nulla di negativo. Questi atteggiamenti opposti verso la morte, quello per cui è riconosciuta come annullamento della vita e quello che la rinnega come irreale, si scontrano in un solo caso, la perdita di una persona amata. I cari sono per noi un intimo possesso, spiega Freud, un elemento del nostro io, ma in parte anche estranei o addirittura nemici. Il conflitto contenuto in questa ambivalenza non dà più origine alla dottrina dell’anima, come è stato per l’uomo primitivo, bensì alla nevrosi.

Nel 1896 Freud ha assistito alla morte del padre che ha definito come “la perdita più straziante della vita di un uomo”. La crisi che ne seguì, però, non fu sofferenza pura; i suoi sogni gli rivelarono quei conflitti interiori, quell’inevitabile ostilità del figli contro il padre, pure amato, che ha spiegato con il complesso di Edipo, che sta alla base del sentimento di colpa proprio di ogni uomo. Ha sperimentato su di sé quel ritorno del rimosso, quell’ambivalenza affettiva che ebbero enorme importanza nel suo pensiero. Elemento fondante è la crisi edipica che si supera solo con l’interiorizzazione di un censore esterno fornito dal super-ego. Se la crisi non viene superata con l’emancipazione affettiva dai genitori, il complesso riaffiora e genera sensi di colpa, incapacità di instaurare relazioni amorose e gravi nevrosi.

Questa teoria delle pulsioni libidiche, su cui aveva precedentemente costruito la teoria delle nevrosi, fu rivista in seguito allo scoppio della prima guerra mondiale.

La guerra lascia riapparire l’uomo primitivo che altrimenti resterebbe in ognuno di noi solo a livello inconscio. Ci costringe ad essere eroi che non credono nella possibilità della propria morte e ci invita a sopportare con serenità anche la perdita di persone care.

Ma la guerra come si giustifica?

Per capirlo bisogna risalire agli inizi primordiali del mondo. Freud fa scaturire tutto dalla contrapposizione fra diritto e violenza. I conflitti di interesse fra gli uomini erano decisi mediante l’uso puro della violenza, infatti inizialmente era la maggiore forza muscolare che decideva a chi doveva appartenere una determinata cosa, mentre in seguito fu introdotto l’uso di strumenti di vario genere e vinceva chi aveva le armi migliori. In ogni caso lo scopo era lo stesso: una delle due parti doveva essere costretta a desistere dalle proprie rivendicazioni. L’unica conclusione possibile era la sua uccisione mentre con il passare del tempo si pensò che il nemico poteva essere impiegato in mansioni servili utili e si diede   così inizio alle schiavitù. Lo stato originario era dunque costituito dal predominio del più forte, dalla violenza bruta che venne in seguito sostituita dall’unione di molti; alla violenza del singolo subentrò così la potenza/violenza di coloro che decidevano di unirsi per formare una comunità. Il diritto non era più potenza  del singolo( legge del più forte), ma di una comunità che doveva essere una unione stabile, durevole, organizzata, regolata da statuti ed organi propri.

All’interno della comunità però rimanevano elementi di forza ineguale e il diritto divenne espressione dei rapporti di forza che inevitabilmente ne scaturivano.

La storia dell’umanità mostra una serie ininterrotta di conflitti d’interesse che il più delle volte sfociavano in vere e proprie guerre. L’unica soluzione possibile per arginare questo fenomeno sembrava la creazione di una autorità centrale a cui deferire la risoluzione di tutti i conflitti (la Società delle Nazioni fu creata con questo scopo, ma fin dall’inizio non disponeva di forza propria e  nacque già esautorata dei suoi poteri in quanto vennero a mancare i suoi più grandi promotori, gli USA).

Il problema più grande che Freud si pone nel “Disagio della civiltà” è la comprensione dei moti che portano l’uomo a commettere tanto facilmente grandi crimini. Presume che ognuno di noi sia mosso da due pulsioni, quella sessuale-erotica e quella aggressiva-distruttiva. La prima, Eros, è orientata dal principio del piacere e si ribella a costrizione esterne esprimendosi nell’amore e nella creatività, mentre la seconda, Thanatos, spinge ad “uccidere”. All’interno di ogni essere vivente quindi c’è una “velata” pulsione di morte che diventa effettiva e veramente distruttiva quando, con vari aiuti, si rivolge all’esterno, verso oggetti. Per soggiogare questa pulsione bisogna ricorrere alla sua naturale antagonista, l’Eros. Tutto ciò che fa sorgere legami emotivi tra gli uomini deve agire contro la guerra; la condizione ideale sarebbe naturalmente una comunità umana che avesse assoggettato la sua vita pulsionale alla dittatura della ragione.

Nel testo del 1929 “Disagio della civiltà” Freud analizza l’essenza della civiltà dal punto di vista dell’uomo e della sua felicità. La civiltà è costruita su una serie di limitazione alla libertà dell’individuo, obbliga l’uomo ad inibire molte sue pulsioni, a rinunciare alla soddisfazione delle esigenze profonde o a deviarle in atti che però non ne completano il soddisfacimento. La civiltà quindi ha un carattere repressivo in quanto per sopravvivere ha bisogno di neutralizzare la natura individualistica delle pulsioni umane e dell’energia degli uomini che deve riuscire ad investire in prestazioni sociali. Frued considera l’uomo hobbesianamente malvagio e la società come un freno ai suoi naturali istinti sociali. Non condanna la civiltà tout court, come molti hanno pensato, ma le pressioni inutili ed eccessive che esercita sulla natura umana generando angoscia, sofferenza e nevrosi. Per alleviare queste sofferenze propone una maggiore consapevolezza demistificatrice di ideali e di valori perché questi, pur necessari per dominare l’istinto di morte, non peggiorino la già tragica situazione umana. Per molti la prima guerra mondiale ha infranto anche l’ultima illusione e ha portato con sé inevitabilmente grande delusione in quanto fu la più rovinosa e sanguinosa per i perfezionamenti portati alle armi e più crudele e spietata di ogni guerra del passato. Freud sostiene però che l’avvilimento e la scorata delusione per il comportamento incivile dei suoi contemporanei erano in realtà ingiustificati, in quanto si fondavano su una illusione a cui tutti si erano abbandonati ciecamente, cioè che quella era la società con il più grande grado di civiltà. Quella guerra in realtà ha infranto tutte le barriere riconosciute in tempo di pace e quelle che costituivano lo jus gentium, non riconosceva la distinzione tra popolazione combattente e neutrale, violava il diritto di proprietà e rompeva tutti i legami di comunità fra i popoli. La delusione quindi era alimentata dalla scarsa moralità all’esterno di quegli stati che all’interno si ergevano a custodi delle norme morali e dalla brutalità riscontrata nel comportamento dei singoli che, in quanto membri della più progredita civiltà umana, non sarebbero dovuti essere capaci di ciò. In realtà gli uomini, spiega Freud, non sono per natura inclini al bene, ma le loro naturali tendenze al male subiscono una lunga e graduale evoluzione venendo inibiti e deviati verso il bene. Questo percorso è favorito dall’azione congiunta di due fattori, uno interno e l’altro esterno. Il primo consiste nell’influsso che esercita l’erotismo, cioè il bisogno umano d’amore inteso nel senso più ampio del termine (quando componenti erotiche si uniscono alle pulsioni egoistiche queste ultime si trasformano in pulsioni sociali). Il secondo è la coercizione educativa che rappresenta il potere dell’ambiente incivilito. La civiltà si è costituita mediante la rinuncia al soddisfacimento pulsionale ed esige da ogni individuo una rinuncia equivalente. La coercizione esterna quindi, esercitata sugli uomini dall’educazione e dall’ambiente, contribuisce ad attuare la trasformazione della vita pulsionale verso il bene e a convertire il naturale egoismo umano in altruismo. Quando nell’individuo, però,  si determina un comportamento ritenuto “buono” da tutti, non si è in presenza di un vero ingentilimento della sua vita pulsionale poiché le pulsioni inibite permangono e restano pronte ad approfittare di ogni occasione per soddisfarsi.

Alla fine del suo discorso in risposta ad Einstein, Freud non dà una spiegazione tangibile del perché ancora accadano guerre e soprattutto del perché tutti noi ci riteniamo pacifisti. Egli sostiene che la ragione principale per cui ci si indigna contro la guerra è che non si può non farlo. Si è pacifisti perché si deve esserlo per ragioni organiche in quanto è facile giustificare questo atteggiamento con argomenti.

Da tempi immemorabili l’umanità è soggetta al processo dell’incivilimento, da altri chiamato civilizzazione e si deve ad esso il meglio di ciò che siamo diventati e buona parte di ciò di cui soffriamo. Le modificazioni psichiche che accompagnano l’incivilimento sono evidenti e consistono in uno spostamento progressivo delle mete pulsionali e in una restrizione di moti pulsionali.

“La guerra contraddice nel modo più stridente tutto l’atteggiamento psichico che ci è imposto dal processo civile, cosicché dobbiamo ribellarci ad essa: semplicemente non la sopportiamo più; non è soltanto un rifiuto intellettuale e affettivo, nei pacifisti è un’intolleranza costituzionale”.

Alla fine si chiede quanto si dovrà aspettare perché tutti diventino pacifisti e conclude dicendo che tutto ciò che promuove l’evoluzione civile lavora anche contro la guerra, ma non fornisce nessuna risposta soddisfacente alle domande di Einstein, né una vera tipizzazione della guerra. 

 

Il pacifismo cosmopolitico di Norberto Bobbio.

A questa mancanza suppliscono vari autori, tra questi Norberto Bobbio analizza la decadenza della teoria della guerra giusta e la fa coincidere con la nascita del positivismo giuridico e con l’avvento dello storicismo.

Il filosofo torinese ritiene che la guerra può essere giustificata solo in due casi: come male apparente (male che nasconde un bene) e come male necessario (male da cui deriva un bene).

Queste due giustificazioni corrispondono ad altrettanti modelli filosofici: il provvidenzialismo e il finalismo.

Queste due concezioni filosofiche si assomigliano molto in quanto ogni evento può essere compreso solo se viene inserito in un contesto più ampio. Queste due correnti filosofiche, infatti, definiscono il male necessario come mezzo per raggiungere un fine e quindi pienamente giustificato, considerando la guerra come progresso morale, civile e tecnico.

Secondo Bobbio esistono quattro modi per considerare il rapporto tra guerra e diritto:

1.     GUERRA COME ANTITESI DEL DIRITTO

2.     GUERRA COME MEZZO PER REALIZZARE IL DIRITTO

3.     GUERRA COME OGGETTO DEL DIRITTO

4.     GUERRA COME FONTE DEL DIRITTO

Il diritto in questi quattro concetti viene concepito in modo diverso, assumendo vari significati. Nel primo il diritto è inteso come ordinamento giuridico; nel secondo è una giusta pretesa da far valere contro i ribelli; nel terzo come una regola di condotta, mentre nel quarto è inteso come giustizia.

La guerra, quindi, viene indicata in quattro modi diversi: antitesi, mezzo, oggetto, fonte.

La prima nasce dal fine comune che è presente in ogni ordinamento giuridico,  la pace: infatti all’interno di ogni ordinamento possono essere perseguiti altri fini come la libertà o la giustizia, fini che non potrebbero essere neanche pensati se non ci si trovasse in un periodo di pace.

Se si considera, invece, la guerra come violenza organizzata e il diritto come insieme di regole per regolare conflitti, ci si riferisce alla guerra mezzo.

Se un gruppo di uomini avanza delle pretese nei confronti di un altro gruppo di uomini e queste pretese sono giuste, la guerra diviene un mezzo per creare diritto. In questo caso la guerra si legittima solo se è una guerra di difesa,  di riparazione di un torto, o se è una guerra punitiva come risposta ad un torto altrui.

La guerra fonte dà vita ad un nuovo diritto, considerato come regola di condotta e “distributore” del potere.

Bobbio, inoltre, inserisce la guerra in un contesto più ampio, quello del diritto internazionale, considerandola un potere residuo o un potere straordinario. Nel primo caso è un potere meramente facoltativo, nel secondo è un potere che il diritto vigente non può controllare.

Il concetto di guerra moderna induce Bobbio a introdurre quello di pacifismo attivo che contrasta con tutte le teorie precedenti sui conflitti armati.

Il pacifismo attivo si muove in tre direzioni diverse agendo o sui mezzi (pacifismo strumentale), o sulle istituzioni (pacifismo istituzionale), o sugli uomini( pacifismo finalistico).

Il rimedio per eliminare la guerra secondo la teoria del pacifismo giuridico è la creazione di un super stato, mentre per la teoria del pacifismo sociale la soluzione va ricercata nel passaggio da una forma di capitalismo ad una di socialismo.

Riguardo all’uso della violenza invece il filosofo torinese ritiene che questa trovi sempre una giustificazione in quanto finalizzata alla conservazione del potere. A questo proposito egli individua due giustificazioni alla violenza , come valutazione positiva della stabilità ( violenza istituzionale come rimedio a quella rivoluzionaria) e come valutazione positiva del mutamento( come rimedio alla violenza istituzionale da parte di forze rivoluzionarie).

In entrambe le prospettive la violenza è considerata come mezzo atto a raggiungere un fine; ciò che cambia è solo il fine.

Riguardo poi all’eticità della violenza secondo Bobbio non basta che sia giusta, ma è necessario che sia esercitata da coloro che hanno il potere di farlo.

Ci si trova  di fronte al problema della legittimazione che si riferisce alle norme del diritto internazionale che stabiliscono una serie di limiti alle operazioni belliche (dichiarazione di guerra,  trattamento dei prigionieri).

L’unica soluzione possibile è quella che vede la creazione di nuove istituzioni e di nuovi strumenti d’azione che permettono di risolvere i conflitti senza ricorrere alla violenza, rendendola o troppo costosa o addirittura controproducente.

Il pacifismo giuridico di Bobbio viene definito come “ il rimedio in quanto istituzione del superstato o Stato mondiale”.

Ciò che rende inevitabile l’uso della forza sul piano internazionale è la mancanza di un’autorità superiore ai singoli Stati che sia in grado di decidere chi ha ragione e chi ha torto e di imporre la propria decisione con forza.

In questo modo Bobbio si rifà al modello della domestic analogy, constatando che ci sono oggi delle guerre che i poteri e la giurisdizione dei singoli Stati non sono più in grado di gestire, egli si dichiara favorevole all’istituzione di un Tribunale Penale Internazionale Permanente, presso le Nazioni Unite, competente a giudicare tutti i responsabili di crimini contro l’umanità e i crimini di guerra sulla base di un Codice Penale Internazionale.

Bobbio si distacca, quindi, sia dal pacifismo strumentale, che propone un intervento sui mezzi, sia dal pacifismo etico, pedagogico o terapeutico, che punta sull’educazione civile e sulla mitezza degli uomini.

Egli, inoltre, prende le distanze anche dal pacifismo assoluto della nonviolenza, affermando nelle pagine di “una guerra giusta” i nonviolenti vivono nella storia tanto da sapere che il seme dei violenti, dei persecutori, dei dominatori, degli oppressori è sempre fecondo, insomma sono pacifisti coi piedi per terra.

La nonviolenza per ottenere il suo scopo richiede sia l’uso dell’intelligenza, come capacità di adeguare i mezzi ai fini, sia la fermezza, il coraggio e la determinazione.

I nonviolenti sono combattenti che non usano strumenti mortali, le loro strategie di opposizione sono o passive ( disobbedienza civile e resistenza passiva ) o attive (sabotaggio, assedio economico ).

Si giunge, quindi, alla conclusione che la nonviolenza serve a rendere l’avversario inoffensivo più che ad offenderlo (es. trasformazione pacifica dei paesi dell’Est).

Abbracciando la teoria kelseniana che concepiva l’ordinamento giuridico nella forma gerarchica dello Stufenbau e ritenendo che la Grundnorm rappresentasse una chiusura di comodo che fa riferimento indiretto alla teoria della Stato di diritto, egli specifica che sul piano internazionale il diritto è legato al valore della pace, hobbesianamente, è lo strumento per introdurre rapporti pacifici tra gli uomini e tra gli Stati; la pace è dunque il bene fondamentale che solo il diritto può garantire.

Dal punto di vista giuridico egli ha sostenuto che la Guerra del Golfo è stata un caso esemplare di guerra “giusta” nel senso di “conforme alla legge”.

Le Nazioni Unite avevano il dovere di reagire ricorrendo all’uso legittimo della forza militare essendosi verificata un’aggressione contro uno Stato sovrano e quindi una violazione del diritto internazionale.

L’autorizzazione data dal Consiglio di Sicurezza può essere considerata una tappa della tappa resa possibile dall’attenuazione del contrasto tra le grandi potenze che aveva fino a quel momento paralizzato l’esercizio di quella primordiale forma di potere comune.

Saddam Hussein fu un tipico signore della guerra, nei molti mesi passati tra la prima risoluzione dell’ONU e l’inizio della guerra, non mostrò mai di essere disposto ad accettare l’inizio di un dialogo costruttivo, né tanto meno a ritirarsi dal Kuwait, né a considerare nessuna delle proposte del Segretario delle Nazioni Unite. Con l’aiuto di Dio egli era sicuro di vincere la guerra.

Nonostante tutto ciò Bobbio esprime le sue perplessità sull’efficacia della guerra e sulla sua opportunità e inevitabilità.

Egli nel capitolo conclusivo del volume “il futuro della democrazia” considera le due dicotomie che dominano nella teoria generale della politica, quella democrazia-autarchia, che si risolve nella dicotomia autonomia-eteronomia; e quella pace-guerra, che si risolve nella dicotomia nomia-anomia.

Riprendendo le dottrine contrattualistiche individua che il passaggio dallo stato di natura allo stato civile si concretizza in un accordo, in un patto di non-aggressione che consiste nel reciproco impegno dei contraenti ad escludere l’uso della guerra dai loro rapporti.

Rinviene la soluzione dei conflitti nell’intervento di un Terzo (mediatore ) che Hobbes e Locke individuano nell’arbitro, cui le parti delegano la decisione impegnandosi a sottoporvisi, e nel giudice, autorizzato a intervenire per risolvere il conflitto da un’istanza superiore.

Per usare una terminologia freudiana, nel momento in cui compare il Giudice lo Stato agnostico (in cui i soggetti risolvono i conflitti mediante negoziati che sfociano in compromessi) si trasforma in stato pacifico, corrispondente al pactum subiectionis.

Il patto democratico è quello in cui il potere sovrano non si estende sopra tutte le libertà e i poteri che gli individui o gruppi hanno in natura, devono essere rispettati quelle libertà e quei poteri considerati come diritti naturali e quindi non sopprimibili né restringibili; e inoltre devono essere stabilite regole per le decisioni collettive, vincolanti per tutti, tali che esse siano prese con la massima partecipazione e il massimo consenso dei contraenti stessi.

Si può osservare tenendo presenti queste considerazioni che oggi nei rapporti internazionali il tradizionale sistema dell’equilibrio tra più potenze o gruppi di potenze, e quello avviato dal processo di democratizzazione, continuano a convivere l’uno a fianco all’altro.

Il nuovo sistema non è riuscito ad eliminare completamente il vecchio proprio perché non è giunto alla costituzione di un forte potere comune.

In questo sistema internazionale l’unico modo per risolvere i conflitti è ancora quello del ricorso all’uso della violenza reciproca, o meglio ancora della minaccia dell’uso della violenza.

Dall’analisi di Bobbio emerge chiaramente che durante il periodo della guerra fredda e dell’equilibrio del terrore, la minaccia della guerra nucleare ( guerra moderna ), che metteva a repentaglio la stessa sopravvivenza della specie umana, aveva fatto sì che la teoria della guerra giusta subisse un gravissimo colpo, quello che si prospettava non era la vittoria di chi aveva ragione, ma di dar ragione a chi avesse vinto, facendo sì in questo modo che la distinzione tra guerra di difesa e guerra di offesa risultasse molto incerta.

Alla luce di quanto si può ricavare dai suoi scritti, la guerra nucleare si pone al di fuori di ogni criterio di legittimazione, essa appare incontrollabile dal diritto e quindi torna ad essere l’antitesi del diritto e non più un mezzo per attuarlo (teoria della guerra giusta ) o un oggetto di regolamentazione giuridica nel diritto di guerra.

In conclusione, si può dire di trovarsi in un circolo vizioso nel senso che gli Stati potranno diventare tutti democratici solo in una società internazionale compiutamente democratizzata. Ma una società internazionale compiutamente democratizzata presuppone che tutti gli Stati che la compongono siano democratici, quindi l’adempimento di un processo trova come ostacolo l’inadempimento dell’altro processo.

Proiettandosi in una prospettiva futura possiamo sperare che il processo di democratizzazione, che si è avviato grazie all’aumento degli Stati a regime democratico, continuando riesca a realizzarsi compiutamente.

 

 

La guerra del Kossovo.

Molti degli argomenti finora trattati sono stati oggetto di un acceso dibattito tra numerosi intellettuali, i quali hanno espresso la loro opinione riguardo la guerra del Kossovo in AA.VV, L’ultima crociata? Ragioni e torti di una guerra giusta, I libri di reset, 1999. Prima di presentare i diversi punti di vista emersi in questa raccolta, è bene chiedersi per quale motivo la guerra del Kossovo sia stata al centro di un così articolato dibattito negli ultimi tempi.

La risposta va ricercata nelle cause che hanno portato la NATO nei Balcani, una causa nuova e senza precedenti: la tutela dei diritti umani.

Una delle opinioni più illustri, riportata da Giancarlo Bosetti, direttore della collana I libri di reset, è sicuramente quella di Bobbio. Egli vede in questa guerra tutti gli elementi tipici di “ Una guerra santa contro gli infedeli”, una guerra “fuori dalle vecchie regole, eppure obbligata”. Bobbio ritiene che l’obbligatorietà di questa guerra dipenda dalla necessità di essere filo-americani, di appoggiare cioè incondizionatamente in questo conflitto gli Stati Uniti. L’America rappresenta, secondo Bobbio, la potenza egemone del momento; e se è vero che una democrazia, anche difettosa,  è migliore di qualsiasi dispotismo, non possiamo che prendere atto di questa supremazia ed appoggiarla con ogni mezzo. Bobbio riprende questa teoria da Hegel, il quale riteneva che ogni periodo storico sarà sempre caratterizzato dall’egemonia di uno stato dominante.

 

Un’altra interessante teoria è quella di Antonio Cassese, già presidente del tribunale internazionale dell’Aja per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia ed attualmente presidente di una cattedra di prima istanza del tribunale. Egli ritiene che questa guerra, non sia stata legittimamente intrapresa, in quanto la carta delle Nazioni Unite non prevede l’adozione di misure implicanti l’uso della forza nel caso di violazione dei diritti umani. Cassese ritiene tuttavia che il diritto dovrebbe essere aggiornato: rendendo così legittimo ciò che ancora non può essere ritenuto tale. Più precisamente Cassese sostiene che l’uso della forza potrebbe essere legittimato nel caso in cui sussistano cinque condizioni:

1-  lo Stato contro cui si usa la forza ha violato in modo gravissimo, massiccio e ripetuto i diritti umani fondamentali;

2-  il Consiglio di sicurezza ha ripetutamente invitato quello stato a porre termine ai massacri;

3-  è stata tentata ogni possibile soluzione diplomatica e pacifica;

4-  l’uso della forza è sostenuto da un gruppo di stati e non da una singola potenza e la maggioranza degli stati dell’ONU non è contraria a tale uso;

5-  il ricorso alla guerra non ha alternative rispetto alla prosecuzione dei massacri da parte dello stato responsabile.

Zolo è decisamente avverso alle posizioni di Cassese in quanto ritiene che “In tema di teoria delle fonti del diritto internazionale il principio formulato da Cassese sia ex-crimine oritur ius”. Secondo lui questa guerra rappresenta la più grande lesione del diritto internazionale vigente, contro la quale il consiglio di sicurezza avrebbe il dovere di intervenire a norma degli articoli 2, 39, 42 della carta delle Nazioni Unite. Se infatti, sostiene Zolo, la funzione più importante del diritto internazionale è quella di evitare la guerra, l’attuazione di tali misure coercitive non fa altro che indebolirlo irrimediabilmente.

Un altro spunto molto interessante ci è poi offerto da Ulrich Beck, il quale ritiene che “Ciò che rende gli attachi NATO alla Jugoslavia così paradossalmente (il)legittimi può portare facilmente all’attestazione di un nuovo tipo di guerra nell’epoca globale. Secondo Beck stiamo attraversando l’era della guerra post-nazionale, vale a dire una guerra non più combattuta in nome dell’interesse nazionale, ma intrapresa in seguito al venir meno “delle classiche differenze fra guerra e pace, interno ed esterno, attacco e difesa, diritto e arbitrio…”.

Secondo la logica della guerra post-nazionale il conflitto diventa il proseguimento della morale con altri mezzi. Non è esagerato, afferma Beck, parlare di crociate democratiche in cui l’occidente combatterà in futuro anche per poter rinnovare la propria auto-legittimazione.

Jurgen Habermas sostiene che questa guerra assume connotazioni diverse a seconda dell’ambito in cui la si affronti; nell’ambito del diritto internazionale classico questa guerra non è altro che un’ingerenza negli affari interni di uno stato sovrano. Nell’ambito invece dei diritti umani l’intervento deve essere interpretato come una missione pacificatrice, armata, ma autorizzata. Il problema della tutela dei diritti fondamentali potrebbe essere risolto attraverso la trasformazione del diritto internazionale in un diritto di cittadinanza universale. L’appartenenza diretta ad una società (a condizione che ogni singolo Stato rinunci alla propria sovranità) di cittadini del mondo difenderebbe il cittadino di uno stato anche contro l’arbitrio del proprio governo. La conseguenza più importante di una tale trasformazione  è la nascita di un diritto che travalichi la sovranità degli stati e che quindi sancisca la responsabilità personale dei singoli funzionari per crimini commessi in pace o in guerra. La guerra del Kossovo tocca, secondo Habermas, una questione fondamentale: la moralizzazione della politica. La costituzione di uno stato di cittadinanza universale comporterebbe infatti che “le violazioni contro i diritti umani non verrebbero più giudicate e condannate soltanto da un punto di vista morale ma verrebbero perseguite come azioni criminose commesse all’interno di qualsiasi ordine costituito.

Interessanti spunti vengono infine offerti da Edgar Morin. Egli è convinto che la NATO, intraprendendo questa guerra, sia caduta in una trappola. Morin giustifica la sua opinione andando alle origini della vicenda, quando cioè Milosevic nel 1989 soppresse l’autonomia del Kossovo. Egli incolpa i leader politici occidentali di quel periodo di non aver colto l’occasione di cercare un dialogo, una via d’uscita, con Ibraim Rugova, allora un interlocutore moderato, responsabile e che, cosa più importante, pensava all’autonomia Kossovara e non ancora all’indipendenza.

In conseguenza di questa “politica dello struzzo”, di questa politica del giorno per giorno, dice Morin, l’occidente si è trovato a dover fare i conti con un movimento non più autonomista ma indipendentista, con tutte le conseguenze destabilizzanti per l’intera area balcanica. Questa minaccia di destabilizzazione ha provocato un’immensa paura nei paesi europei che hanno tentato di porre rimedio alla situazione attraverso la confusa iniziativa diplomatica che ha portato alla conferenza di Rambouillet. La conferenza si basava sulla convinzione che bastasse una semplice pressione per raggiungere un risultato. Ma quando questa pressione non ha realizzato gli obbiettivi previsti, si è provato con la minaccia militare…

Morin conclude dicendo che in politica non bastano le buone intenzioni, perché queste possono portare mali peggiori di quelli provocati da cattive intenzioni.

 

Bibliografia

Freud S., Perché la guerra?, in Id., Il disagio della civiltà, Boringhieri, Torino, 1997, pp. 280-299.
Freud S., Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, in Id., Il disagio della civiltà, Boringhieri, Torino, 1997, pp. 33-62.

Zolo D., I Signori della pace. Una critica al globalismo, Carocci, Roma, 1998, pp. 71-106.
Bobbio N., Democrazia e sistema internazionale, in Id., Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino, 1995, pp. 195-220.
Bobbio N., Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino, Bologna, 1997, pp. 29-163.
Bobbio N., Una guerra giusta?, Marsilio, Venezia, 1991, pp. 9-32.
AA.VV., L'ultima crociata? Ragioni e torti di una guerra giusta, I libri di Reset, 1999, pp. 5-123.

 

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