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Introduzione |
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La
sovranità: nascita e sviluppo (Cascioli Alessandra) |
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Carl
Schmitt e la sovranità rivendicata (Granieri Elena) |
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La
sovranità nel mondo moderno (Stacciari Barbara) |
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Osho
Rajneesh (Secco Viviana Lucia) |
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Crisi
della sovranità e globalizzazione (Orsini Marco) |
Introduzione
Il
concetto di sovranità indica il potere supremo di comando che è caratteristico
dello stato. Nei rapporti internazionali indica l’indipendenza giuridica di
uno stato rispetto ad ogni altro stato (od organismo). Si afferma in
contrapposizione alla concezione e all’organizzazione politica medievale,
basata sulla frantumazione del potere di comando ai diversi livelli della
gerarchia feudale e della struttura dei ceti e degli ordini, nonché della sua
subordinazione all’autorità superiore della Chiesa. Il concetto di sovranità
assolve al compito di fornire la legittimazione giuridica del monopolio della
forza che lo Stato moderno, realizzando la concentrazione e l’unificazione del
potere, detiene su una popolazione e un
territorio. Con Jean Bodin, Hobbes, Locke, Montesquieu e Rousseau l’idea di
sovranità è il concetto chiave dell’elaborazione teorica che accompagna il
processo di formazione dello stato moderno fino a trovare il suo sbocco politico
istituzionale nella Rivoluzione francese: “Il principio di ogni sovranità
risiede essenzialmente nella nazione: nessun corpo, nessun individuo può
esercitare un’autorità che non ne emani espressamente” (Dichiarazione dei
diritti del 1789, art. III).
Questo lavoro,
dopo aver preso in considerazione la storia della nascita e dell’evoluzione
del concetto di sovranità vuole incentrarsi sul tema della crisi della sovranità
(il perché, le modalità, il
legame con lo stato nazione) soprattutto guardando al fenomeno della
globalizzazione.
Il
concetto politico-giuridico di sovranità indica il potere di comando che serve
a differenziare le società politiche da altre associazioni umane dove non vi è
questo potere.
La
sovranità è strettamente collegata al concetto di potere politico che gli da giuridicità trasformandolo
da potere di fatto a potere di diritto e si configura in modi diversi a seconda
delle varie forme di organizzazione del potere ma c’è una cosa in comune cioè
quella di avere un’autorità suprema esplicabile poi in modi differenti.
Il
termine sovranità appare verso la fine del 500 connesso con il concetto di
stato in senso moderno per differenziarsi dall’organizzazione medievale del
potere basata da un lato sui ceti e sugli stati dall’altro sulle due grandi
coordinate universalistiche il PAPATO e l’IMPERO.
Il termine sovrano era già presente ma indicava semplicemente la
posizione di preminenza in un sistema gerarchico. Il potere del re discendeva
direttamente da Dio, esercitava quindi il potere esclusivamente per volontà
divina, senza il consenso dei sudditi. Tuttavia il concetto di sovranità
indicava un ordinamento politico privo di specificazioni nazionali e di limiti
territoriali, ma che si riconduceva alla sede ultima del potere i re la cui
autorità sovrasta ogni altra autorità temporale.
Un’altra
caratteristica importante che servirà poi a differenziare la società medievale
dallo stato moderno è la dipendenza del potere temporale da quello spirituale,
facile da vedere attraverso l’incoronazione con la quale l’imperatore
riceveva dal Papa la legittimazione al potere universale. L’aspetto
interessante era quello delle leggi, il sovrano non faceva le leggi ma si
limitava ad applicarle in base a regole consuetudinarie già esistenti nel paese
e vi sottostava anche lui.
Con
la crisi del Papato e dell’Impero si avverte anche l’esigenza di affermare
un nuovo concetto di sovranità tendente all’unificazione del potere per
realizzare in una sola istanza il monopolio della forza. Questo concetto si
unifica con quello di stato che a differenza di prima prende una connotazione più
concreta: è territoriale cioè esplica questa forza su un determinato
territorio e sopra una determinata
popolazione, è sovrano in quanto indipendente da ogni potere soprattutto
religioso.
Questa
sovranità è individuata nella persona del sovrano che ha l’unico compito di
garantire la pace tra i sudditi del suo regno e quello di riunirli per
fronteggiare una guerra; la sovranità quindi all’inizio veniva vista sotto
due aspetti, uno interno e uno esterno. Dal punto di vista interno il sovrano
tende ad una spoliticizzazione della società, cioè tende ad eliminare i poteri
feudali e i privilegi dei ceti e dei corpi intermedi che si ponevano come
mediatori politici tra gli individui e lo stato ponendo così fine alle lotte
civili a favore della pace. Dal punto di vista esterno invece si mette in
risalto il carattere originario e l’indipendenza dello stato nazionale
rispetto alle altre autorità, il sovrano decide la guerra ma a differenza del
passato, in cui gli stati avevano come giudici superiori il Papa o
l’imperatore ora regolano i loro rapporti con la guerra e il re. Nello stesso
tempo quest’ultimo si trova in posizione paritaria con gli altri sovrani ma
non mancano anche forme di collaborazione pattizia, che contribuiscono alla
nascita di un ordine internazionale dove si riconoscono le rispettive sovranità
territoriali e non ci si intromette negli affari interni degli altri stati.
Ne
deriva da ciò che il sovrano è esclusivo, onnicompetente e solo lui può
intervenire su ogni questione, egli anche supra
legem cioè è esso stesso che fa la legge e non è da essa vincolato, ma la
cosa più importante è che essa è creata in base ad una razionalità tecnica,
in base allo scopo.
Sul
piano teorico-politico, molti pensatori hanno elaborato dottrine cercando di
individuare l’essenza della sovranità; queste, anche se diverse, hanno
contribuito ad approfondire tale nozione. Le correnti di pensiero si possono
distinguere in tre filoni, a
seconda dell’organo a cui viene riconosciuta la sovranità, se allo stato nel
suo complesso o se in alcuni dei suoi massimi organi o autorità come il re o il
parlamento. Su questa base
le teorie si dividono ulteriormente in quelle che sostengono la sovranità
assoluta e quelle che la ritengono
limitata e arbitraria.
I
teorici della sovranità assoluta vanno individuati in Bodin e Hobbes, ma è
Bodin il primo ad elaborare una teoria della sovranità come potere assoluto e
indivisibile. Bodin definisce la sovranità come la somma delle potestà
pubbliche supreme dello stato, concentrate
nelle mani del re che riunisce tutte le funzioni burocratiche
-amministrative dello stato in contrapposizione al pluralismo dei poteri
feudali.
Come
è già stato accennato prima, si assiste ad una concezione nuova del diritto,
mentre la visione tradizionale presupponeva che l’ordine giuridico si fondasse
sulle consuetudini e quindi preesistente, per Bodin il diritto coincide con la
legge del sovrano ed è un atto di volontà. Successivamente questo modo di
intendere la sovranità come potere illimitato e indivisibile viene portato a
compimento da Thomas Hobbes il quale, nelle sue opere principali DE CIVE e il
LEVIATANO, mostra che il sovrano è assoluto, tiene uniti i sudditi ed ha il
compito di garantire la pace interna e la sicurezza verso i nemici esterni. I
sudditi devono assoggettarsi a lui e nel momento in cui costituiscono il pactum
subjectionis instaurano il potere, che non può essere più revocato, anche
se usato ingiustamente, perchè,
come ritiene Hobbes è meno grave che se il sovrano non ci fosse . Il sovrano
non è soltanto detentore del potere temporale, ma anche di quello spirituale,
poichè non devono esistere poteri divisi in quanto
l’individuo deve sapere a chi ubbidire. Un altro aspetto
dell’assolutismo hobbesiano è il concetto di libertà; l’individuo è
libero solo in ciò che lo stato ha omesso di regolare con le sue leggi, ovvero
le convinzioni intime dell’individuo che non hanno ripiego esterno.
C’è
però una differenza nel pensiero di questi due autori
nell’individuare l’essenza della sovranità; ognuno la individua in
poteri differenti: il primo (Bodin ) la colloca nel potere di fare e abrogare le
leggi ovvero attraverso il potere legislativo, il secondo (Hobbes) la vede nel
momento esecutivo, cioè nella capacità di imporre determinati comportamenti
che si esplica nella coercizione fisica .
I
teorici della sovranità limitata invece, vanno individuati in autori quali John
Locke che non riconosce più la sovranità nel sovrano, ma piuttosto in un
organo dello stato: il parlamento come potere supremo,
non assoluto, ma limitato, non solo dal controllo del popolo, ma anche in
un certo senso vincolato dal contratto che ha dato vita allo stato come garante
dei diritti naturali degli uomini.
L’aspetto
interessante è che a differenza di altri teorici, viene riconosciuto al popolo
un diritto di resistenza ovvero, la possibilità di agire contro quel potere che
non opera per il bene dei sudditi.
Anche
Constant rientra in questo filone insieme ai
teorici dello stato federale nordamericano che difendono l’idea di una
sovranità limitata e divisa in molti centri di potere per evitare che un unico
individuo si metta d’autorità. Questa tendenza è legata quindi alla
concezione della separazione dei poteri e dipende dall’esigenza di porre si
limiti al potere e di evitare che si trasformi in arbitrio. Dalla necessità di
tutelare i diritti degli individui si deduce che la legittimazione del potere non è più divina ma deriva dal basso, ovvero è il popolo
la fonte della legittimazione del potere. Cessa così l’irreversibilità del
potere, che nonostante risieda nelle autorità di più alto grado, è revocato
da organi inferiori. Il concetto che vede nel popolo la fonte e la
giustificazione della potestà trova
fondamento anche in Rousseau che nel suo “CONTRAT SOCIAL” introduce il
concetto di volontà generale come espressione diretta della sovranità del
corpo sociale; le leggi sono l’emanazione diretta della volontà generale e il
popolo è il vero sovrano. Una linea in comune con gli autori assolutistici si
trova nel ritenere che il potere sovrano è illimitato, incondizionato e
inalienabile, la differenza è che
secondo Rousseau la sovranità esprime una razionalità sostanziale, o meglio,
la moralità, in quanto i cittadini agiscono nell’interesse generale e non in
quello particolare ne tanto meno per scopi utilitaristici.
Per
Rousseau è importante il concetto di libertà dell’individuo, in quanto il
fatto che l’individuo obbedisca
alla legge, che è
un imperativo della sua razionalità, fa sì che l’individuo non trovi
limitazioni alla sua libertà espressiva .
Sulla
linea della sovranità arbitraria si collocano pochi teorici, poichè essi
tendono a far coincidere il concetto di sovranità con quello di potere
arbitrario e dispotico, come il capriccio del più forte, di colui o coloro che
agiscono senza alcun mandato per imporre la propria soggettiva verità.
Già
con la tradizione liberale e anche
con la chiusura del secondo conflitto mondiale, acquistano sempre più vigore le
teorie della sovranità limitata; c’è
la nascita dello stato costituzionale, ovvero quello stato in cui la
costituzione ha come finalità primaria quella di subordinare il potere a regole
formali e sostanziali. Da ciò deriva una incompatibilità con il concetto di
sovranità assoluta, in quanto esso esprime un potere libero da regole
giuridiche. Anche Kelsen parla di
sovranità, con toni però piuttosto polemici, concependola come una concezione
antidemocratica e antimperialistica dello stato.
Kelsen
ha una concezione monistica del diritto, per lui esiste un solo ordinamento
giuridico che include entro un’unica gerarchia normativa il diritto interno e
quello internazionale. Il primato del diritto internazionale, che include tutti
gli altri ordinamenti, è incompatibile con l’idea della sovranità degli
stati nazionali. Kelsen adotta l’idea della “sovranità rimossa”, secondo
cui l’unico ordinamento universale è quello internazionale, che conferisce
validità a quelli interni è per questo che egli rifiuta l’idea che gli stati
debbano riconoscere le norme internazionali.
L’ordinamento
internazionale raccoglie tutta la comunità di individui, si rifà alla sfera
dell’etica, fondamento del pacifismo internazionale, che si oppone alla logica
di potenza delle concezioni individualistico-statali.
Carl
Schmitt si contrappone a Kelsen e ritiene che sovrano è colui che decide dello
stato di eccezione, ovvero quello stato che di distacca dalla regola e dalla
normalità, sospendendo l’ordinamento giuridico al fine di mantenere l’unità
e la coesione politica. Il vero sovrano per Schmitt è colui che detiene il
monopolio della decisione dello stato d’emergenza, lo si può vedere solo in
casi eccezionali. La sovranità quindi non si esplica in condizioni normali, non
appartiene quindi al potere costituito, ma al potere costituente, ovvero quello
che è in grado di creare un nuovo ordinamento. I poteri costituenti sono due :
la dittatura sovrana e la sovranità popolare.
Con la dittatura sovrana si tende a rimuovere la costituzione per imporne
un’altra ritenuta più giusta. Questo potere non agisce in base ad un mandato
ben preciso, ma trae la sua legittimazione non nel consenso, ma
nell’ideologia. Con la sovranità popolare è il popolo che pone in essere una
nuova costituzione e un nuovo
stato; crea una sintesi tra potere e diritto tra azione e consenso.
Analisi
dei testi: Matteucci N. , Lo Stato Moderno, Il Mulino, Bologna, 1993,
pp.81-99; Zolo D., I Signori della pace. Una critica del globalismo
giuridico, Carocci, 1998 pp.
107-118.
L’elaborazione
di una teoria della sovranità trova tuttavia degli oppositori; ad avversarla
sono infatti da un lato il costituzionalismo e dall’altro il pluralismo. Il
costituzionalismo contrasta il concetto di sovranità cioè vuole evitare ogni
concentrazione e unificazione del potere, e tende quindi ad un equilibrio
bilanciato di organi.
La
vittoria del costituzionalismo arriva con le costituzioni scritte, trova i mezzi
adeguati per limitare il potere arbitrario e per difendere i cittadini contro
questo potere.
L’altro
avversario, il pluralismo, ci mostra come non possa esistere uno stato che abbia il monopolio delle decisioni, perchè ogni
individuo di fatto vive in associazioni e gruppi capaci di imporre le proprie
scelte. Proprio la pluralità di gruppi, impedisce che ci sia una sola autorità
onnicompetente; se da un lato si esalta la teoria pluralista perchè ha comunque
contribuito a difendere i corpi intermedi, come elementi di mediazione politica
fra l’individuo e lo stato, dall’altro si ritiene che lo stato perda la sua
unità necessaria nei conflitti interni.
Proprio
in base a queste teorie, ma anche sul piano pratico con la crisi dello stato
moderno, ormai incapace di essere un unico e autonomo centro di potere, il
concetto di sovranità è entrato in crisi. La società sempre più pluralistica
e il nuovo carattere delle relazioni internazionali, dove sono più strette le
interdipendenze fra i diversi stati, hanno fatto si che lo stato si sia svuotato
dei suoi poteri. Soprattutto la collaborazione sempre più stretta fra stati, ma
soprattutto la nascita di comunità sovranazionali, limitano fortemente la
sovranità degli stati membri. Ci sono anche nuovi spazi, i moderni mezzi di
comunicazione di massa che hanno consentito la formazione di un’opinione
pubblica mondiale tale da esercitare pressione sugli stati; anche i sindacati
hanno acquistato sempre più poteri pubblici e insieme agli enti autonomi
locali.
Si
parla di globalizzazione a livello
mondiale di tutti i settori, dalla politica all’economia, alle comunicazioni,
e questo apre il problema della sopravvivenza degli stati e della loro sovranità.
Tutto ciò perchè le relazioni stesse tra gli stati sono cambiate e si tende a
costituire degli organismi che disciplinano la tutela della pace e la possibilità
per i cittadini di ottenere il rispetto dei loro diritti attraverso autorità
sovranazionali. E’ il diritto internazionale che domina, e interferisce nelle
normative statali, privando in parte gli stati della loro sovranità; resta però
evidente che gli stati rimangono comunque sovrani nel loro territorio e
sulla loro popolazione. Il processo di globalizzazione precedentemente
teorizzato e oggi in fase di attuazione, è uno strumento per la tutela della pace internazionale;
esso sottrae le questioni all’arbitrio degli stati, ma crea però il dubbio
se la concentrazione dei poteri in queste autorità sovranazionali non
conducano alla nascita di un altro Leviatano.
Analisi
dei testi: C. Schmitt "Il nomos della terra", pp. 19-37 e
72-77; Zolo "I Signori della pace" pp. 121-122
Schmitt
rivendica la sovranità nazionale, in antitesi a Kelsen; e la lega alla terra,
che è madre del diritto.
Il
suolo reca su di sé solchi naturali, ma non solo,
su di esso, infatti, l'uomo lascia tracce e segna confini, sul mare
invece non esiste questa possibilità, in esso
i diritti dei pescatori e di chi combatte guerre s'incontrano.
Prima
dello sviluppo degli "imperi marittimi" non c'era diritto di proprietà
per le acque, ognuno era libero di muoversi e fare prede poi, con le
"occupazioni del mare" chi turbava l'ordine divenne criminale.
Così
cambiò il rapporto terra-mare, ma all'origine di tutto rimane l'occupazione del
suolo, da cui discendono tutti gli altri diritti, a cominciare dalla divisione
tra proprietà pubblica e privata e dalle delimitazioni verso l'esterno.
Schmitt
definisce l'occupazione territoriale il "radical title": il
fondamento dell'ordine.
Egli
cita Vico ed i suoi quattro elementi primordiali: suddivisione del suolo,
religione, matrimonio e diritto d'asilo; si rifà anche a Locke e Kant che
parlano di giurisdizione sulla terra e di superproprietà del suolo.
Nel
mondo preglobale non esisteva un ordinamento spaziale definito poiché non c'era
la consapevolezza della misura del pianeta, che era ancora concepito in modo
mitico, si parlava ancora delle "colonne d'Ercole".
Esistevano,
però, relazioni con i popoli esterni, non c'era una chiusura totale, si
stipulavano trattati ed accordi, il
diritto romano distingueva tra nemico e criminale, ma non esisteva un vero e
proprio diritto internazionale.
Nel
'500 cambiarono le cose, le scoperte geografiche portarono alla misurazione del
globo e resero i popoli consapevoli dell'esistenza di territori con padroni e
confini; cambiò anche il rapporto con il mare che divenne luogo di conquista.
Non
si deve pensare, però, che ogni conquista sovverta un ordinamento esistente e
fondi un nuovo nomos, essa può avvenire all'interno di un ordinamento
internazionale con il riconoscimento generale, può essere, cioè, effettuata in
un territorio libero, ma anche in uno che non lo è ottenendo ugualmente
l'approvazione altrui.
Questa
preminenza data alla terra e soprattutto alla sua occupazione, spiega perché
Schmitt neghi la superiorità di un ordinamento sovranazionale e perché
rivendica la sovranità nazionale.
Critica,
inoltre, i giuristi che analizzano solo il potere costituito, tralasciando
quello costituente, o pre-statale, che lui considera preminente ed alla base
dello Stato .
Importante
è, quindi, il dittatore che, in una situazione d'emergenza, prende in mano la
situazione e riporta l'ordine andando a costituire un nuovo diritto.
La
crisi è sempre dietro l'angolo e per cui una "civitas maxima" è
irrealizzabile, perché enormi sono le differenze tra i popoli, perciò è
impossibile negare la sovranità e quindi lo Stato, che resta l'unico in grado
di governare.
Il
lavoro di Luigi Ferrajoli "La sovranità nel mondo moderno" si
struttura in due parti: una critica e una propositiva.
La
prima tenta di dimostrare come la dottrina della sovranità, e il concetto di
stato nazionale ad essa legato, siano in gran parte costruiti sulla base di tre
principali aporie presenti a livello filosofico, storico e giuridico.
Andando in ordine vediamo che la critica iniziale è indirizzata al significato filosofico dell'idea di sovranità, vale a dire la sovranità come diritto naturale. Per sostenere la sua tesi l'Autore, parte dall'analisi dell'opera di un teologo spagnolo del XVI secolo: Francisco de Vitoria. Le dissertazioni di questo studioso – il cui oggetto principale era costituito, per l’appunto, dal diritto naturale – avevano, secondo Ferrajoli, una manifesta origine pratica ovvero fornire un fondamento giuridico alla conquista del Nuovo Mondo da parte degli spagnoli.
Più specificatamente, le riflessioni di Vitoria si muovono
intorno a tre concetti fondamentali: il riconoscimento di un ordine mondiale
costituito da una società naturale di stati sovrani soggetti all'esterno ad un
medesimo diritto delle genti; la teorizzazione di una serie di diritti naturali
dei popoli e degli stati; e, in fine, la riformulazione della dottrina cristiana
della guerra giusta vista come sanzione giuridica delle offese subite. L'Autore
mette in risalto come all'interno di ognuna di queste teorie, che sono alla base
dell'intera dottrina internazionalistica moderna, sia presente un incongruenza
di fondo. Per l’esattezza, vediamo che "l'idea dell'uguaglianza degli
Stati quali soggetti parimenti sovrani è in contrasto con quella della loro
soggezione al diritto ed insieme è smentita dalle loro concrete disuguaglianze
e dal ruolo dominate delle grandi potenze"[1].
L'asimmetria è poi ancora più evidente per quello che riguarda i c.d. diritti
naturali degli Stati, dallo ius communicationis allo ius occupationis,
in quanto la loro base astratta di uguaglianza viene manifestamente contraddetta
nella realtà, dove, al contrario, questi diritti sono divenuti strumenti di
conquista e colonizzazione da parte degli stati più forti.
Infine, il ragionamento secondo cui la guerra sia legittima in
quanto attuazione del diritto sembra sottovalutare eccessivamente la violenza
illimitata e incontrollabile, indiscutibilmente in contrasto con il diritto, che
"tale mezzo" è in grado di generare.
IL
secondo ambito di analisi riguarda l'evoluzione del concetto di sovranità quale
potestas assoluta superiorem
non recognoscens con particolare riguardo al cammino verso l'assolutismo
degli Stati nazionali nel corso del XVII secolo con la loro piena indipendenza
dai vincoli ideologici e religiosi della Chiesa e dell'Impero.
La
sovranità, in tale contesto, si perfeziona e si distingue in due vicende prima
parallele, e successivamente divergenti. La prima riguarda l’applicazione
della sovranità all'interno dello Stato, con la sua graduale limitazione e
dissoluzione in concomitanza alla formazione dei sistemi di garanzia delle
costituzioni; l'altra vicenda è, invece, relativa alla sovranità statale
nell'ambito della comunità internazionale, e al suo impiego progressivamente
indiscriminato e giunto all’apice nella prima metà del 900 con le due guerre
mondiali. In particolare, Ferrajoli, richiamandosi ad autori di filosofia della
politica quali Grozio, Hobbes e Locke, mette in evidenza il contrasto presente
nella concezione di Stato quale strumento di ordine e controllo all'interno,
dove si organizza in un potere centralizzato, autorizzato a limitare la libertà
degli individui per reprimere lo "stato di natura" nocivo alla società,
ma allo stesso tempo all'esterno, nei rapporti con gli altri componenti della
comunità internazionale dotati anch'essi di sovranità, manifesta la propria
libertà d'azione riproducendo tra Stati quella condizione del bellum
omnium negata e superata tra gli individui.
Da
ultimo, il terzo argomento trattato concerne "la consistenza e la
legittimità concettuale dell'idea di sovranità dal punto di vista della teoria
del diritto"[2].
Secondo l'Autore esiste un'antinomia irriducibile tra sovranità e diritto, sia sul piano statale che internazionale. Per sostenere tale tesi si riprende l'esempio dello stato di diritto sopravvenuto negli ordinamenti avanzati attraverso le Costituzioni che rappresentano la soggezione alla legge di qualunque potere, il primo vero limite della sovranità interna nei rapporti tra Stato e cittadini. L'Autore sostiene l'esistenza di Costituzioni anche nel diritto internazionale, in particolare sia la Carta Onu del 1945 sia la Dichiarazione Universale dei Diritti del 1948 configurano l'imperativo giuridico a cui tutti gli Stati devono sottostare.
Ferrajoli
conclude la parte critica della propria analisi affermando che la rilevazione di
tutte queste aporie non mira a invalidare il concetto di sovranità, quanto a
dimostrare la profonda crisi sofferta dal titolare di tale sovranità, lo Stato
nazionale unitario e indipendente, di cui vanno ripensate l'identità, la
collocazione e il ruolo, per rifondare concretamente il diritto internazionale
sui popoli e non più sugli Stati.
IL
mezzo fondamentale proposto dall'Autore per raggiungere un tale obiettivo è la
creazione di un costituzionalismo mondiale capace di garantire l'osservanza
delle regole e dei principi già presenti nella Carta dell'Onu e nella
Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, che fino ad oggi sono stati
minati nella loro effettività proprio dalla mancanza di garanzie giuridiche.
I
passi necessari per colmare questa lacuna normativa sono numerosi e impegnativi.
Innanzi tutto è indispensabile che gli Stati rivedano il ruolo delle Nazioni
Unite all'interno della comunità internazionale, potenziandolo e riconoscendone
l'autorità. Per fare questo, secondo Ferrajoli, si deve iniziare dalla riforma
dell'attuale Corte Internazionale di Giustizia dell'Aja (CIG), attraverso
quattro decisive innovazioni: l'estensione della sua competenza ai giudizi di
responsabilità in materia di guerre, minacce alla pace, violazione dei diritti
fondamentali; l'affermazione del carattere obbligatorio della sua giurisdizione,
oggi subordinata al consenso degli Stati; il riconoscimento della legittimazione
ad agire di fronte alla Corte anche da parte delle singole persone, titolari dei
diritti fondamentali; l'introduzione della responsabilità personale dei
governanti per i crimini di diritto internazionale.
Il
punto successivo deve essere l'adesione incondizionata degli Stati al divieto
effettivo delle guerre ritenute dannose per l'umanità, e poiché oggi lo sono
tutte in considerazione dell’elevata capacità distruttiva raggiunta dai mezzi
bellici, l'Autore suggerisce l'adozione di garanzie di tipo preventivo quali:
l'istituzione di una forza armata di polizia internazionale, come previsto dal
Capo VII della Carta Onu; l'attribuzione alla CIG della competenza a risolvere e
disinnescare i conflitti; la sottoscrizione degli Stati a convenzioni e
risoluzioni dirette al disarmo, mettendo al bando le armi come "beni
illeciti" (come la droga), vietandone la produzione, la detenzione e il
commercio.
Infine
Ferrajoli conclude con la richiesta dell'effettivo riconoscimento a tutti gli
uomini in quanto tali, e non come cittadini di uno Stato, di quei diritti
"naturali" che legittimarono le conquiste delle grandi potenze nei
confronti del resto del mondo, e che ora devono continuare a valere all'insegna
della reciprocità affinché si possa fuggire dalla "fallacia" del
principio di effettività che appiattisce il diritto sul fatto. Inoltre, vanno
riconosciuti i comportamenti degli Stati in contrasto con il diritto non come
smentite di quest'ultimo, ma come violazioni del diritto stesso.
Analisi
dei testi: Osho Rajneesh, La grande sfida, Bompiani, Milano, 1990.
Bhagwan Shree Rajneesh è nato in India l’11 dicembre 1931 e ha lasciato il corpo il 19 gennaio 1990, è un maestro di Vita e di Realtà illuminato contemporaneo.
Il 7 gennaio 1989 Bhagwan Shree annuncia
pubblicamente la sua volontà di abbandonare il nome “Bhagwan Shree” in
quanto per troppe persone esso significa “Dio”. Il 27 febbraio 1989 i suoi
sannyasin decisero all’unanimità di chiamarlo “Osho”.
Osho,
in seguito, ha spiegato che questo nome deriva dal termine coniato dal filosofo
inglese William James “Oceanico” (pronunciato “osheanic” in inglese), e
da lui usato per indicare l’esperienza del “dissolversi nell’oceano”
propria alle varie forme dell’esperienza religiosa.
Successivamente
Osho scoprì che questo nome fu usato per la prima volta in Giappone; nella
profonda simbologia che solo un ideogramma riesce a trasmettere, la “O” ha
il significato di “profondo rispetto, amore e riconoscenza”. “Sho”,
invece, ha il senso di una “espansione multidimensionale della
consapevolezza” e del “riversarsi dell’esistenza in ogni direzione”.
Approssimativamente, dunque, in quella lingua, “Osho” indica “Il Benedetto
su cui l’esistenza riversa una pioggia armoniosa di fiori”.
Intorno
a Osho si sono sviluppate due sequenze di fatti: da un lato, il suo ergersi
contro le istituzioni, di qualsiasi specie fossero, esponendole nella loro
ipocrisia, nel loro ruolo di freno dell’evoluzione all’essere, sollevò
contro di lui l’ostilità di tutti gli amanti dello status quo; dall’altro,
egli divenne l’amico sincero di quanti vivevano nel “sistema” come
estranei.
Osho afferma che ci stiamo avvicinando sempre più a un vicolo cieco, ma questa consapevolezza ci permette di operare una svolta, per non portarci a un suicidio globale.
Osho
è preoccupato perché l’intellighenzia del mondo, gli scienziati, i
filosofi, ogni essere umano intelligente dovrebbero impedire che gli interessi
istituzionali distruggano questo pianeta.
Lo
stesso rapporto delle Nazioni Unite, redatto dalla Commissione mondiale per
l’ambiente e lo sviluppo, intitolato “Il futuro di noi tutti”, invita a
fare qualcosa adesso.
Secondo
Osho quel rapporto non è sincero, perché non ci indica chi ha creato i
problemi, quindi bisogna rompere con il passato.
Perché
rottura col passato? Perché non siamo stati noi a creare questi problemi, ma li
dobbiamo trovare nelle radici del passato.
Cosa
troveremo se tagliamo le loro radici? Avremo il dispiacere di trovarci di fronte
i politici, le organizzazioni religiose, le nazioni.
Dobbiamo
pertanto, creare un futuro denso di creatività e di godere dei doni che la
natura ci ha riservato.
Interdipendenza,
perché l’uomo non può vivere senza gli alberi, gli oceani, gli
animali e viceversa.
Ma noi, cosa stiamo facendo, stiamo distruggendo
quello che in milioni di anni avevamo creato.
Il
Nepal non avendo altre risorse, è stato costretto per poter sopravvivere a
vendere le vette eterne dell’Himalaya e le sue foreste; la mancanza di questi
alberi ha permesso ai fiumi di inondare il Bangladesh , perché l’abbondante
acqua non trovando una barriera naturale non riesce a confluire normalmente
nell’oceano.
L’ossigeno
diminuisce e aumenta l’anidride
carbonica con la conseguenza nota a tutti dell’aumento della temperatura.
Aumenta
la popolazione, aumenta il fabbisogno di acqua, ed il rapporto delle Nazioni
Unite ci informa che ogni anno sei milioni di ettari di terreno agricolo e da
pascolo si inaridiscono, centinaia di specie vegetali e animali si estinguono
ogni anno, mentre milioni di persone vengono avvelenate dai pesticidi e i gas
che producono le nostre fabbriche provocano il fenomeno nell’atmosfera dei
buchi dell’ozono, da cui si introducono raggi mortali.
I
nostri governi fanno poco o quasi niente per risolvere questi problemi, ma ogni
anno spendono miliardi di dollari per gli armamenti e non per nutrire
e vaccinare le popolazioni più povere.
Bisognerebbe
far scomparire le nazioni in un solo governo mondiale.
Lo
spiega il fatto che mentre in Etiopia molte persone muoiono ogni giorno, in
Europa vengono buttati nell’oceano miliardi di dollari di derrate alimentari.
Secondo
Osho per salvare l’umanità che secondo lui è una soltanto, bisogna creare
una sola economia , trasformare
l’uomo in un essere più comprensivo e più rivolto verso i suoi
simili.
Quindi,
per evitare un suicidio globale, dobbiamo pensare e creare un solo governo
mondiale.
Stiamo
traboccando di armi nucleari che potrebbero distruggere settanta pianeti.
Ma
i politici non vogliono cambiare le cose, perché se lo facessero perderebbero
il loro potere e dovrebbero mostrare
il loro vero volto di persone impotenti e inferiori.
Osho
vorrebbe invece, un governo mondiale a cui tutte le nazioni dovrebbero
consegnare le armi e gli eserciti, costituito da membri facenti parte delle
attuali nazioni e che dovrebbero scegliere un presidente all’esterno e
soprattutto non un politico.
Con
il termine meritocrazia Osho
intende il mutamento che per forza di cose deve avvenire se non vogliamo che il
mondo intero svanisca in una guerra mondiale.
Innanzitutto
bisogna cambiare la struttura della società e soprattutto istruire l’umanità,
perché per poter governare bisogna conoscere e per conoscere bisogna imparare,
specializzarsi per poter affrontare e risolvere i problemi.
Secondo
Osho non è sufficiente avere raggiunto la maggiore età per avere diritto al
voto, bisogna conquistarlo con la propria intelligenza, e dimostrare di
meritarlo.
Pertanto,
quando il potere verrà trasferito dalle masse alle persone intelligenti, a
persone che sanno ciò che fanno, potremo creare qualcosa di meraviglioso.
Osho
Rajneesh è sicuramente uno dei “grandi” più amato e odiato di tutti i
tempi: senz’altro tra i più mistificati, equivocati, vilipesi e
strumentalizzati.
Ciò peraltro, accade stranamente quasi sempre a chi ha il coraggio di giocare in prima persona per “educare alla libertà”, per trasmettere un messaggio che vuole essere semplicemente ma assolutamente di felicità: di VIVERE AL MEGLIO!
Analisi dei testi:
I tre attributi principali dello stato nazione sono sempre stati dalla sua
nascita la moneta, il fisco, (l’esercito).
Il ruolo dello
stato riguardo alla moneta (e quindi le politiche monetarie) ha subito un
profondo mutamento. Non soltanto in Europa dove gli 11 del gruppo dell’Euro
hanno ceduto la propria sovranità monetaria ad un istituto autonomo e
sovranazionale (BCE) ma anche nel resto del mondo (Stati Uniti e Giappone in
testa) dove i banchieri centrali si ritrovano in mano degli strumenti di
correzione dell’economia spuntati, che poco o nulla possono in una economia
sempre più interdipendente con dei mercati finanziari che scavalcano qualsiasi
confine nazionale ridisegnando la mappa di un mondo sempre più piccolo.
La
globalizzazione poi, accelerata da Internet, sta mettendo in seria difficoltà
il sistema fiscale di tutto il mondo. Da una parte l’aumento dei commerci
favorito dalla diminuzione delle barriere tariffarie, dall’altra internet che
sintetizza la mancanza di frontiere e l’irrilevanza di essere in un
particolare luogo fisico, mettono le ali alla globalizzazione che potrebbe
danneggiare i sistemi fiscali tanto da portare i governi a non poter far fronte
alle legittime domande dei cittadini di servizi pubblici. Un esempio: la BMW,
uno dei più importanti gruppi automobilistici tedeschi, con i profitti più
alti in Europa, che ancora nel 1988 aveva versato nelle casse del fisco tedesco
ben 545 milioni di marchi, quattro anni appena più tardi, nel 1992 ne ha pagati
solo 31 [...], e nell'anno successivo, nonostante un aumento dei profitti
realizzati a livello internazionale e per quanto i dividendi rimanessero
invariabili, ha chiesto e ottenuto un rimborso fiscale di 32 milioni di marchi.
Il tutto è stato reso possibile, ha dichiarato il direttore finanziario della
BMW, contabilizzando i profitti nei numerosi paradisi fiscali in cui un qualche
terminale della transnazionale è collocato e affrontando le spese nei paesi in
cui le tasse sono più alte, ossia nel territorio nazionale. Risulta evidente
quindi come i processi di globalizzazione economica abbiano mutato la funzione
del territorio nazionale, trasformandolo da sede delle operazioni economiche a
fattore valorizzante di queste.
Oltre tutto sorge
il problema che per restare dietro alla globalizzazione e ad internet, i governi
dovranno riformare i sistemi fiscali in maniere che li renderanno più
impopolari che mai.
La sovranità,
intesa come supremo ed indivisibile potere d'individuare e realizzare gli
interessi generali di una determinata collettività, resta ancora ben salda a
livello nazionale?
Possiamo dire che
la globalizzazione ha portato ad una radicale trasformazione dello spazio e
della sua percezione sociale, avvenuta grazie alla doppia rivoluzione
tecnologica nel campo delle telecomunicazioni e dei trasporti. Questa
trasformazione si manifesta in una lenta ma inesorabile erosione della sovranità
degli stati nazionali. L'erosione è avvenuta seguendo due percorsi, l'uno
conseguenza dell'altro, ed entrambi strettamente collegati con i processi
economici. Da una parte lo stato nazionale è stato oltrepassato da soggetti che
secondo la tradizionale teoria costituzionale avrebbero dovuto essere in uno
stato di subordinazione al potere statale. Si pensi solo al fenomeno delle
imprese multinazionali, che grazie alla loro organizzazione e alla loro
disponibilità di capitali, si sono poste prima come "stati negli
stati" e poi come centri di potere che, dal punto di vista dei reali
rapporti di forza, riescono a sovrastare gli stati. Il secondo percorso di
erosione della sovranità si configura come reazione al primo percorso. Non
essendo in grado i vecchi centri di potere collocati a livello nazionale di
governare i flussi economici che attraversano il loro territorio, cercano di
rimodularsi in scala allargata. In questo modo lo stato nazionale cede
costantemente quote di sovranità ad organizzazioni di carattere sovranazionale.
(ad esempio la cessione più massiccia sta avvenendo a favore delle istituzioni
comunitarie).
Se il primo
percorso erosivo è inquadrabile soprattutto dal punto di vista economico e
politico, il secondo, ovvero la dinamica in cui la globalizzazione dell'economia
si esplicita, va vista sotto un profilo giuridico.
L'evoluzione
delle istituzioni europee ha visto infatti, oltre ad un ampliamento geografico,
anche un ampliamento delle competenze della Comunità. Questo ampliamento è
avvenuto in modo esplicito con le modifiche dei trattati istitutivi, ma anche in
modo surrettizio. Come era prevedibile, l'interpretazione delle competenze
assegnate in materia economica hanno coinvolto una serie di materie che sulla
carta sembrerebbero drasticamente escluse dall'ambito di azione della Comunità
Europea. Con il pretesto di creare il mercato unico si è cercato di armonizzare
il regime della responsabilità dei produttori, dei contratti del consumatore,
del diritto societario e di altre numerose discipline, andando a rivoluzionare
grosse fette dei sistemi di diritto civile, diritto commerciale, diritto del
lavoro dei singoli stati.
A poco, in quanto
tardivi e tecnicamente insufficienti, sono serviti i rimedi giuridici tendenti a
ristabilire una drastica separazione tra le competenze europee e quelle
nazionali, e a circoscrivere in qualche modo le prime, in omaggio al valore
irrinunciabile, dal punto di vista simbolico, della sovranità nazionale. Solo
per fare un esempio, il principio di sussidiarietà, sancito all'art.3 B del
Trattato di Maastricht, è stato posto per porre un argine all'attività
normativa comunitaria nelle materie di competenza concorrente. Nella pratica però
il sindacato giurisprudenziale sul rispetto di questo principio si è reso molto
difficile per l'alto tasso di politicità che lo contraddistingue. Il principio
di sussidiarietà si è risolto quindi in un obbligo di motivazione degli atti
comunitari e nell'imposizione alla Commissione della redazione di un rapporto
annuale sul rispetto di tale principio, adempimenti che evidentemente non
garantiscono, almeno dal punto di vista giuridico, l'effettività di questo
principio.
Una volta apprezzate la misura e la qualità delle quote di sovranità cedute dagli stati membri alle istituzioni europee, non è irragionevole dubitare del fatto che le istituzioni europee siano titolari di “delegated, enumerated and limited powers”. Si potrebbe dire che, con la firma dei trattati, vista l'evoluzione delle istituzioni europee, gli stati membri abbiano voluto costringersi ad accettare il primato del diritto comunitario. Ecco perché ci si può chiedere dove risieda la sovranità, se questa abbia una sola sede o sia presente in più centri di potere. Punto di tensione, e talvolta di rottura, per la ricerca di una soluzione a queste domande fondamentali è il ruolo delle costituzioni degli stati membri. Questo perché la sovranità, intesa come plenitudo potestatis, si manifesta nell'esercizio del potere costituente. Inoltre, praticamente tutte le Costituzioni degli stati membri appartengono ad una generazione di costituzioni nei confronti della quale, con diverse sfumature, le disposizioni dei Trattati europei e le norme emanate in loro applicazione si trovano in velata polemica. La pervasività delle Carte costituzionali che in misura diversa avevano elevato al rango di diritti fondamentali determinati diritti sociali, viene a subire sempre più ampie limitazioni. Ed è proprio la trasversalità del settore economico nel quale più di ogni altro si riflette il fenomeno della globalizzazione e la cui disciplina è in larga parte riservata alle sedi comunitarie, a porsi come punto di tensione tra la gerarchia di valori tradizionali degli stati membri e quella spiccatamente liberista delle istituzioni europee.
Eppure la
crescente pressione di normative e di giurisdizioni sovranazionali che limitano
la sovranità degli stati nazionali, erosione della sovranità giuridica
interna, può essere vista non come un male perché rende più concreta la
capacità dei cittadini di ottenere il rispetto dei propri diritti attraverso il
ricorso ad autorità giudiziarie dotate di una sovranità sovranazionale.
[1] Luigi Ferrajoli, La sovranità nel mondo moderno, Laterza, Bari-Roma, p.19