-LXXIV-

 

   Mi ritrovai in strada. Barcollavo sulle mie gambe dolorose, mi girava furiosamente la testa. Sentivo quel vuoto angoscioso, terribile: il mio violoncello era rimasto là... no! non potevo privarmi proprio di quello!! Cosa avrei fatto, adesso?
Stavo accucciato in terra, sul marciapiede, vicino al muro di una casa di fronte alla Moschea. Dall'autoblindo di guardia della polizia cominciarono a scrutarmi con sospetto; mi alzai mostrandomi normale più che potevo, poi presi a camminare veloce, agitatissimo, nella strada in discesa verso il Jardin des plantes.
Girai senza meta lì intorno, in tondo, sempre più in fretta, sempre più vicino a quel portone, finché cominciarono a sentirsi voci euforiche, e risate crescere ovunque, sempre più forti, sempre più eccitate, e infine cominciarono le esplosioni dei fuochi d'artificio, dei botti, e le luci, dappertutto, gli urli di felicità... ma io odiavo tutto il mondo... odiavo tutto l'universo... luogo perverso di lutto, violenza, guerra, luogo senza speranza, senza pace, senza verità... no, non m'importava più nulla del violoncello, non m'importava più di non essere più un violoncellista, non m'importava più nulla della vita o della morte!
D'un colpo capivo tutto: non c'era più alcun caos possibile! Tutto era ingoiato, inglobato nella rete ordinata e autorigenerante di cui l'uomo aveva ricoperto la terra...
Ripresi a camminare nel freddo; ora mi dava un senso di piacevole energia. Tutto il mondo sembrava impazzire: la gente scendeva in strada, rideva, correva, si abbandonava a gioiose follie. Io sorridevo a tutti, scherzavo con qualcuno, folle tra i folli. Li vedevo, li guardavo fissandoli negli occhi, tutti, uno ad uno, e sapevo che a nessuno di loro importava più nulla di un violoncello, di un violoncellista, della sua vecchia musica... o di Auschwitz, di ebrei perseguitati, di nazisti, di vecchie storie consumate, roba vecchia... basta: il Duemila tanto atteso era liberazione, leggerezza! Il vecchio mondo era finito per sempre! Tutti i suoi incubi cancellati! Basta con la depressione, i piagnistei delle vittime, le colpe e le paure oscure! C'era bisogno di dimenticare, di vivere, di rinnovarsi!
Camminai per ore: arrivai fino alla Tour Eiffel, dov'era riunita mezza Parigi in festa sovreccitata; proseguii fino all'Arco di Trionfo; ormai le gambe non le sentivo più, erano come anestetizzate: erano altri uomini, o arti autonomi che camminavano per me, e io li seguivo scivolando, leggerissimo, inebetito, drogato dai fantasmi di quella notte.
All'alba, non so come, ero arrivato alla Gare de Lyon, e mi rifugiai nell'appartamento. Feci un caffé forte; ero calmo, rilassato, stavo quasi bene, ma non riuscivo a pensare... anche la mia anima era anestetizzata, e se ne stava lì immobile, irrigidita su frammenti di pensieri, fra sensazioni, dopotutto, piuttosto gradevoli.
Mi stesi nella vasca da bagno in un'acqua molto calda; sentivo il mio corpo come qualcosa che ormai si stava spezzando, o aprendo... come se la mia pelle avesse dovuto dilatarsi fino al punto di scoppiare e liberare infine il nuovo essere in cui mi stavo già mutando...
Decisi di anticipare la mia partenza fissata per il tre gennaio; difficilmente avrei trovato posto in Wagon-Lit, ma avrei comunque tentato.
Non avevo sonno, neppure dopo il bagno. Uscii nuovamente per cercare un caffé. La gente che vagava là intorno mi terrorizzò: sembravano spettri, larve erranti in un mondo che non era più lo stesso di ieri... rientrai subito in casa, correndo, raggelato, perché fuggivo un incubo insopportabile.
Avevo l'urgenza di scrivere; accesi questo computer e cominciai subito con un titolo, senza neppure capire il perché l'avevo immaginato, senza pensare, senza scegliere...
Continuai febbrilmente, frettolosamente, pur di non smettere di scrivere, copiando un brano da un libro inglese che vidi proprio lì davanti a me, quasi fosse finito lì solo per me, per quel preciso momento in cui avrei alzato gli occhi dalla mia tastiera per guardare uno degli scaffali in quell'appartamento, carico di quintali, tonnellate di carta piena di parole e di inchiostro nero... fuoco bianco su fuoco nero, cavalli di fuoco, carri di fuoco... fuoco che arde e non brucia...

 

Dentro a uno spazio e a un tempo.
    
Ovvero: Il Violoncello errante.

«"Item, as man errs but God never does, and as everything moves by the design and decision of God, turning to the right, if that be His will, or to the left, if that be His desire, it follows from this that man cannot really be at fault but that the fault must ultimately lie with God; also, if the original cause of all man's sins lay not in God, why then, would He have sent His only begotten son to take those sins upon himself?"»
(Stefan Heym, The Wandering Jew, 1981, Picador edition, London 1985, pag.289.)

 

Il mattino del nuovo millennio è desolato, gli sguardi si incrociano come fantasmi. Forse è solo il mio udito malato, ma tutto, qui intorno, è orrore di stridii, fischi penetranti e dolorosi,

 

 

«"So that, by this token," Ahasverus replies, "the stubborn and hard-hearted Jews whom you have always condemned cannot be adjudged guilty for having shouted, Crucify him! and, His blood be on us and on our children; nay, they were destined to act that wickedly and it was predetermined by God that they should do all those evil and sinful things for the purpose of seeing his divine will fulfilled? And ergo and by this same token you wish to say that the damnation which has fallen to my lot should have come upon God as I acted only accordin to His will, and that, consequently, He was punished in my person, and that I, Ahasverus, am carrying His guilt?"»
(Ibid.)

 

Poi crollai addormentato.
Alle sei di sera mi svegliai in uno stato di profonda depressione; reagii preparando velocemente la valigia e correndo alla stazione. Mangiai delle cose nella confusione di un bar, mi gettai in mezzo alla folla intorno ai treni, e non so come trovai un posto letto sul treno per Milano. Fu una notte di sofferenze atroci, con due giovani ubriachi nel mio compartimento che continuavano a ridere e schermirsi; era impossibile tentar di dormire: l'aria secca mi faceva bruciare labbra e gola; ancora non riuscivo a controllare i miei pensieri. Il mattino dopo, da Milano, su un treno quasi vuoto, tornavo verso casa; all'una precisa ero nel mio salotto.
Là, sul muro davanti al mio letto, c'erano ancora i segni della mia allucinazione: sul leggio le Sonate di Alfredo Piatti; sul pianoforte gli studi di Popper, aperti sul numero diciassette: uno più sette... otto.