ALEPH-MEM-NUN Concerto corale con musica di Claudio Ronco
Se a nessuno verrebbe mai in mente di pensare che la musica possa “spiegare il mondo” all'intelligenza dell'uomo, a volte non si può dire altrettanto della scienza e della filosofia, le quali tendono a spiegarci le ragioni della vita in modo troppo spesso dogmatico, finendo coll'attribuire alla musica un significato, per quanto grande o importante, estraneo però alla realtà fisica e all'evoluzione delle cose. Ma ciò non significa pertanto che la musica consista solo di emozioni astratte o di evocazioni del conosciuto. Proprio come, nelle parole di Paul Klee, «La pittura non è fatta per mostrare le cose, ma soltanto per renderle visibili» , la musica può assumersi il compito di aprire sempre nuove e diverse porte nella percezione della realtà. Se dunque questo concerto ha uno scopo, esso, piuttosto che rispondere a qualcosa, consiste nel porsi una domanda essenziale: “perché la musica?”. Il che è come chiedere: “perché l'interpretazione?”, o “perché l'ermeneutica?”. E la risposta, se esiste, dovrebbe certamente iniziare da un'altra prima, onesta risposta alla domanda: “che cos'è la realtà?”, assumendo un principio enunciato da Nietzsche quasi in modo di uno slogan: “Non vi sono fatti, ma solo interpretazioni”. Se ci concediamo una riflessione sulla base di quell'assunto, presto ci accorgeremo di come tutto ciò che possiamo raccogliere con il nostro sguardo sulla realtà, per scientifico o intuitivo esso sia, non può essere giudicato altro che un'interpretazione della realtà stessa; ma è proprio grazie a ciò che l'uomo può agire nella realtà della vita affinché l'essere “infinito” che abita la sua intelligenza non si trasformi in “essere definito”; per fare in modo, insomma, che l'esistenza possa ancora intendersi come “trascendenza”. Questa continua interrogazione delle cose del mondo e l'interpretazione che ne diamo –e che chiamiamo a volte conoscenza e altre coscienza della realtà–, fa sì che nel pensiero mistico ebraico l'uomo venga definito “ruach mellallela”, ovvero “soffio parlante”, “uomo di parole”, così da poter dire: «L'uomo dice il mondo e si dice con delle parole». La nostra capacità di “dire le cose” è infatti la vera sorgente del potere di vita e di morte da noi esercitato sul pianeta che condividiamo con molteplici altre forme di vita, prive però, appunto, di “parola”. Ora, la musica nasce dalla voce umana e dalla necessità individuale e sociale di comunicarsi –all'altro, o a se stessi–, e da sempre gioca con la parola e con il senso, frammentando, separando, riunendo; in breve, de-costruendo e ri-costruendo ininterrottamente il discorso e la parola significante. Si può ben dire, infatti, che la musica inizi da un paradosso: non può esservi costruzione di significato fuor dalla misura in cui venga operata una decostruzione dello stesso. In qualche modo, anche la “rima” nella poesia opera in tal senso, poiché al significato letterale del testo aggiunge un valore estetico, con la consonanza di suoni e ritmi, giungendo così ad essere somigliante al suo etimo e al suono antico del suo nome: rythmòs, parola greca per simetria, movimento a cadenza, e la rima, parola latina per fessura, come quella che l'aratro traccia simmetricamente nella terra, o come una breccia, attraverso la quale guardare oltre il limite posto allo sguardo. Così la musica si aggiunge alla parola, come rima che la pervade e l'attraversa in ogni direzione e ad infiniti sensi si dirige. E in tal modo io ho inteso l'atto del comporre per le voci di un coro, decostruendo il testo in complessi contrappunti, intesi a formare tessuti sonori il cui spessore lasciasse trasparire del testo e della parola solo valori sublimati, in cerca di quella trascendenza dell'essere della parola che, in una felice formula di Emmanuel Lévinas, diventa l'atto di «liberare un testo dal suo malessere di libro», ovvero dalla prigionia di un luogo chiuso e finito, dove il significato cessa di tendersi verso l'infinito significare, e si immobilizza in sterili dogmi. Per questo, il titolo di queste composizioni è la parola più nota e condivisa nelle religioni di radice ebraica: Amen. Essa rappresenta la dichiarazione di fede, comunque il concetto di fede venga inteso o insegnato, e si pronuncia con forza e determinazione, oppure con fierezza, o dolcezza, o rassegnazione, al termine di ogni preghiera, quasi a rendere una netta separazione fra tempo e spazio dello spirito e quello della carne, del mondo, della realtà fisica. Eppure ben pochi riflettono sul significato di questa parola in ebraico, sia pronunziandola per semplice consuetudine, sia conoscendone approssimative interpretazioni, quali quella più frequentemente adottata, che attribuisce all'Amen il valore di “e così sia”. La tradizione ebraica, da parte sua, assume che la parola Amén significhi “fedeltà alla tradizione”, ma invita a riflettere sulle tre lettere che la compongono: Aleph, Mem e Nun, le quali devono essere intese come due nomi in sequenza: quello dell'Aleph, ovvero la prima lettera dell'alfabeto ebraico e il numero uno, seguito dal nome della sostanza misteriosa di cui si cibò il popolo d'Israele nel deserto: la Manna, così chiamata perché coloro che la videro per la prima volta si domandarono: «Man-hu?», «Che cosa è questo?». Due lettere/consonanti ebraiche, dunque: Mem e Nun, la cui lettura vocalizzata in «Man» diventa la parola con la quale l'ebreo comunica la sua non-conoscenza di qualcosa, come distanza fra il sé e un mondo che non è dato possedere, conoscere, descrivere; in una parola: “dire”. Per chi legga e interpreti la Bibbia, manna significa dunque “nutrimento vitale inviato da Dio”, ma in ebraico essa è innanzitutto la “non-significazione”, il vuoto di senso oltre la nostra conoscenza e coscienza del reale. Ecco come, posta a seguito dell'Aleph-uno nella parola A-men , la domanda «Cos'è?» diviene professione di una fede rivolta solo all'Uno, all'ineffabile, al “senza volto”, senza immagine e forma, fuori dalle dimensioni del tempo e dello spazio: il Dio della tradizione di Abramo, Isacco e Giacobbe. E se ancora riflettiamo sulla parola “tradizione”, ricordandone l'etimo latino “traere”, trarre, cavar fuori qualcosa da qualcos'altro, presto ci renderemo conto di quanto poco sia rimasto oggi nell'uso di questa parola e del suo concetto, del suo valore originale per il quale trar fuori qualcosa dal passato, aveva significato di rinnovazione continua, di “resurrezione” perpetua delle cose fisiche quanto di quelle metafisiche. Io ho voluto comporre la musica che presento con il titolo di “Amén/Man-hu?” ponendomi di fronte al mistero della musica così come coloro che alla prima alba nel deserto videro quel dono posarsi sulla terra e chiesero “Cos'è questo?”. Poi, guidati da Mosè, lo presero e se ne cibarono, imparando a raccoglierne solo il necessario ogni giorno, poiché ogni eccesso sarebbe diventato inutile, de-composto immediatamente dopo il cessare del bisogno. Se solo il sesto giorno era possibile raccogliere e conservare il doppio della manna, ciò avveniva affinché nel settimo essa non scendesse sulla terra, e fosse pertanto concesso il riposo, consacrato a Colui che nutre e dona la vita. Straordinaria lezione di economia, questa, per un'epoca e una società umana “consacrata” al consumo. La memoria della “manna dal cielo” oggi si conserva nella nostra quotidiana, folle complessità culturale e sociale, nell'esplosione continua di parole, immagini, illusioni e certezze che troppo poco spazio e tempo lasciano al silenzio, eppure solo nel silenzio, come nel deserto dell'attesa di una “terra promessa del latte e del miele”, può accadere di ascoltare l'altro, di percepire altre realtà possibili oltre all'ovvio o al probabile, visitato dalla nostra semplice ragione. Nel mio lavoro musicale ho frammentato, separato e riunito consonanze e dissonanze, parole latine e parole ebraiche da testi liturgici la cui sacralità è oggi in un bilico fra il significato e il significante, o si è esaurita, per effetto dell'oblìo e della saturazione. Da quei frammenti di testo sono disceso, come in un abisso, alle sole lettere dell'alfabeto ebraico, potenziali energie dialettiche ancor prima di assemblarsi in parole, e da lì ancora più lontano, fino all'impronta della parola impressa nei suoni del violoncello solo, per infine riemergere nella maestosa sacralità dell'espressione corale di voci e testo, in un inno alla vita . Di tutto questo mio lavoro, l'atto per me più importante consiste nell'offrire a una comunità di voci ben educate all'armonizzarsi fra loro, un'ulteriore opportunità per “trarre” del nuovo da ciò che ci è rimasto della tradizione, affinché continui ad esistere un'arte la cui funzione sia di accompagnarsi a un'umanità in persistente cammino e ricostruzione. Claudio Ronco
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