Francesco Antonio Bonporti
Le notizie intorno alla vita e all'opera di Francesco Antonio Bonporti, una delle figure più enigmatiche del Settecento strumentale italiano, sono poche e discarsa consistenza. Per tutta la sua vita, Bonporti coltivò la musica come semplice dilettante, non diversamente dai suoi colleghi veneziani Albinoni e Marcello. Di origine nobile, e dunque svincolato dalla necessità di rendere omaggio alle mode correnti per poter sviluppare la propria arte e guadagnarsi con essa da vivere, Bonporti elaborò un proprio linguaggio musicale di inconfondibile originalità, ricco di elementi personali e di bizzarrie formali e costruttive, che ne fa una figura unica ed inclassificabile all'interno del panorama musicale italiano di quel periodo. Bonporti pubblicò in tutto dodici differenti raccolte di composizioni. Si tratta per lo più di opere strumentali (Sonate a Tre, composizioni per Violino e Basso Continuo, Concerti); una sola raccolta, i Motetti a Canto solo, con Violini op.III, è dedicata alla voce. I "Concertini e Serenate... op. XII" costituiscono l'ultima fatica musicale di Bonporti, e concludono in maniera esemplare, con la ricchezza di modi e di forme degna della summa riassuntiva di tutta una vita, la vicenda artistica di questo singolare compositore.
APPUNTI SULLINTERPRETAZIONE
Nel corso di parecchi anni il facsimile dei "Concertini e Serenate... Opera XII" di Bonporti è stato molte volte sui nostri leggii, per essere letto tra amici o in vari tentativi di analisi. Ci ha sempre incuriositi, infatti, l'aspetto di "novità" in quest'opera: una forma inusuale, attraente, e una scrittura che, per il modo in cui è concertata con il Basso, riesce sempre ad essere coinvolgente per gli esecutori. D'altronde, nel leggere musica del Barocco ci si limita il più delle volte a una diligente ricerca e applicazione di formule convenzionali, e per di più, in queste pagine di Bonporti, la nostra lettura era resa molto meno "dilettevole" di altre dai frequenti passaggi di ardua esecuzione, nei quali difficilmente riusciva a compiacersi quella certa nostra vanità che ama effetti appariscenti. In questo modo, composizioni tanto dense di stimoli, pur attraendoci, ci hanno tenuta lungamente nascosta la loro più segreta bellezza: era musica colta, eppure di naturalissima cantabilità; lontana dai funambolismi o dalle bizzarrie comuni ai virtuosi strumentisti, ma viva, brillante e virtuosistica, forse proprio per virtù dell'essere ideata con preziosa, sapiente semplicità. Leggendo e discutendo, per molti mesi, abbiamo continuato a riproporci questa partitura, finché non si è potuto far altro che accettare come una sfida la sua prima incisione discografica. Una simile invenzione musicale richiedeva davvero diverse letture: quella più convenzionale, a tre, che può essere anche la più espansiva, la più "teatrale" ed evocativa di immagini drammatiche (il teatro, etimologicamente, è il "luogo in cui si vede"); un'altra a due violino e violoncello, o violino e cembalo, più sensibile, emotiva, o più intimamente sentimentale; un'ultima poi al cembalo solo, ancora più interiorizzata, e serenamente, nobilmente raccolta su se stessa, in contrasto con la forza di sentimenti degli strumenti ad arco. E se consegnare alla sola tastiera di un cembalo l'esecuzione di Sonate per violino e Basso può sembrare arbitrario, uno sguardo attento alla pratica musicale del Settecento vedrà facilmente quanto fosse frequentata l'arte dell' "appropriare ad uno strumento a tastiera" musica composta per altri organici (questa è la locuzione che usa J. C. Walter nelle sue trascrizioni per Organo di Concerti italiani). Ma, in fondo, queste sono state le nostre scelte soprattutto perché i "Concertini e Serenate" di Bonporti non cessano di apparirci di natura instabile: sono composizioni quasi miniaturistiche, proposte in una scrittura fitta di articolazioni minuziose e di indicazioni estremamente accurate (vi si trovano persino alcune diteggiature per il violino, inesistenti, all'epoca, in qualsiasi edizione a stampa che non fosse un metodo o un trattato di tecnica strumentale!), eppure strutturate in sviluppi musicali o, potremmo dire, "ponti emozionali" di straordinaria spazialità, concepiti sempre fra melodie illuminate da una cantabilità semplice, solare, fortemente italiana. Tutto ciò porta a pensare al lavoro di un musicista metodico, rigoroso nella scienza della composizione, meticoloso senza esser pedante (e quanto era comune la pedanteria, fra gli ecclesiastici di quel secolo!), capace di scrivere lasciandosi trasportare da un'umanissima ispirazione poetica. Quanto alla nostra interpretazione, e alla nostra professione di esecutori di opere che ci giungono senza chiare e sicure "istruzioni per l'uso", osservo che è stato necessario innanzitutto esplorare diverse possibili soluzioni esecutive, e infine organizzare una precisa metodologia per applicarle. Nello scegliere le diverse combinazioni strumentali, ad esempio, il formulare una sorta di "metodo di sperimentazioni espressive" ci ha guidati nel riconoscere e capire i diversi possibili significati e le diverse qualità di un suono plausibilmente "antico". E il cercare nello strumento d'epoca una tecnica efficace a tale scopo, ci ha convinti che la ricchezza, potenza e flessibilità "vocale" del suono degli strumenti ad arco non sono caratteristiche esclusive della musica romantica, e così pure la ricerca di ampie capacità chiaroscurali e drammatiche, che plausibilmente erano proprie anche allo stile e "gusto" sei-settecentesco che noi crediamo più autentico. A convincerci di ciò contribuisce il maggior numero di notizie storiche in nostro possesso, ma soprattutto il fatto che un'estetica musicale barocca priva di grandi escursioni dinamiche, di Crescendo e Diminuendo, di suoni non solo vibrati e non solo fissi, di espressioni forti e contrastate, non ci sembra affatto credibile, benché quasi nulla di tutto ciò si trovi scritto o indicato nelle partiture di quei tempi. Il nostro impegno è stato dunque la riformulazione di nozioni tecniche ancora fortemente controverse, come la nostra scelta di montare gli strumenti ad arco con corde di budello molto più forti e sonore di quanto non sia nelle attuali "convenzioni" della moderna prassi filologica, o come il nostro uso dell'arco antico, che crediamo debba produrre non solo sottili sfumature nell'articolazione delle frasi, ma anche grandi sonorità sostenute senza l'aiuto del maggior peso e lunghezza dell'arco moderno; già questo può essere sufficiente per riconsegnare alla musica del Barocco varietà d'espressioni e una minor conflittualità con l'ideale acustico dei nostri giorni. Proprio la nostra volontà di recuperare un "suono autentico" ci ha portati a considerare il fatto che all'epoca di Bonporti si usassero principalmente due modelli di violino, equamente apprezzati, i quali nelle condizioni originali avevano timbri assai differenti fra loro: in uno la tavola armonica veniva scavata in modo che risultasse molto rigonfia (bombata), e nell'altro decisamente più piatta. (Un'osservazione: queste diversità si ritrovano fra gli Amati, come fra gli Stradivari, i Guarnieri, gli Steiner e altri ancora; oggi si parla molto delle varie qualità di voce di questi strumenti, sebbene essi vengano montati "alla moderna", costringendoli di conseguenza a rispondere ad ideali sonori standardizzati...). Trovandoci fortunatamente in possesso di due violini con tali diverse caratteristiche, non si è potuto resistere alla tentazione di usarli entrambi, adattando il timbro del violoncello all'uno e all'altro con diversi modelli di ponticello, per ottenere una fusione ottimale delle voci e un più gradevole confronto nei dialoghi musicali (dei nostri due violini, quello bombato è il Rugeri detto "Il Per"). La scrittura dei "Concertini e Serenate" poi, seppure ideata per un solista con degli accompagnatori e consegnata alle stampe nelle sole due parti di violino e di Basso numerato, è tuttavia quasi sempre concertante. A causa di ciò viene a mancare la consueta Linea del Basso Continuo durante le frequenti frasi solistiche del violoncello, forse previste per uno strumento a cinque corde, data l'estensione a voci particolarmente acute. Nella realizzazione delle armonie al clavicembalo, si è allora più volte deciso di eseguire una parte autonoma, che di fatto già traspariva con sufficiente chiarezza nell'analizzare il Basso per quel che invariabilmente è nel Settecento: una linea melodica e, contemporaneamente, una semplice e solida sintesi di varie possibili realizzazioni armoniche e contrappuntistiche. Nella scelta dei "tempi" delle nostre esecuzioni, oltre a cercare quelli più adatti ad ottenere la fluidità e scorrevolezza necessaria in questo genere di musica, abbiamo voluto immaginare l'unità ritmica come un "corpo" materiale, pulsante, soggetto all'inesorabile unidirezionalità dello scorrere del tempo, e per questo come "imprigionato" nello spazio in cui vive e si muove nella dinamica del racconto o dei dialoghi musicali. Una sua "anima", in tal modo, esiste nelle illimitate permutazioni dei valori dialettici ed evocativi delle frasi musicali, o nell'infinità dei possibili intrecci di emozioni e umori, che in questo genere musicale si possono esprimere nella più totale libertà e immediatezza; il clavicembalo è il miglior complice in tutto questo, e il perfetto rigore ritmico dei suoi accordi può offrire una simile suggestione ai due archi solisti. Infine, abbiamo cercato di realizzare una registrazione il più possibile naturale e realistica, in cui le proporzioni fra i tre strumenti rispondano al vero: due archi di ricca voce, la sonorità brillante, cristallina del piccolo cembalo traverso di Ferrini (originale del 1731, recentemente restaurato), una sala antica che presumibilmente sarebbe stata scelta da un contemporaneo dei nostri strumenti musicali per l'esecuzione di Sonate da Camera, e due soli microfoni, posti là dove il pubblico si sarebbe disposto, attento, ad ascoltare.
Claudio Ronco, Venezia 1989.
Immagine di sfondo: Fotografia:
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