[...] Vi prego allora di tornare all'inizio del disco, e far sì che le cinque note ribattute dai nostri strumenti, nell'incipit della prima Novelletta di Niels W. Gade, diventino il pulsare eccitato del sangue, la nostra stessa emozione nel disporci ad ascoltare colui che ora ci racconterà cinque Novellette. E osservate la sua immagine fotografica: non sembra - con quel libro appoggiato alle gambe, quello sguardo sereno e saggio - il narratore che ha appena finito di leggerci il suo racconto e ora, soddisfatto di ciò, accoglie come una benedizione il nostro sguardo riconoscente?
Fateci caso: un violino e un violoncello sono voci di donna e di uomo, e unite a un pianoforte rendono "voce" anche la corda percossa dai martelletti, o abbandonano la loro corporeità unendosi, o nascondendosi fra le risonanze di un accordo o di un arpeggio del pianista. Fatalmente, scrivere per trio con pianoforte finisce col produrre un "fatto" che avviene fra due amanti, dove - variamente distribuita negli strumenti - vi è una terza presenza che è "luogo", o anima, o visione.
Andate quindi al sesto track: l'inizio del grande Trio op.42 di N. W. Gade. Lì, il pianoforte esegue un tema che suona come un'esortazione, un "chiedere qualcosa", e introduce un percorso di forte inquietudine, la cui ragione sembra essere nel movimento dei due archi, in una sincronia che è sì strutturale -armonica, contrappuntistica- ma che pare situata su due piani, su due "realtà" differenti e incomunicanti. Se possiamo immaginare che sia simile al tragico desiderio di colui, o colei, che vuole ricongiungersi all'amante perduto - come il musicista Orfeo cerca di far tornare Euridice dalla morte -, la frase finale di quel primo movimento, che vista sulla carta appare così banale, insulsa, troppo strutturalmente "povera", non ci porterà a supporre l'autore incapace di buone invenzioni musicali, o di grandi gesti retorici, ma piuttosto ci apparirà come il momento in cui il poeta autentico, forte della verità della sua ispirazione, ci descrive la gioia del ricongiungersi di due entità separate dalla vita e dalla morte, nell'istante della conquista di quel contatto fisico negato dal destino: in quella breve battuta finale, attraverso il potere della musica, il violino e il violoncello sono come le mani degli amanti separati, che finalmente giungono a toccarsi, carezzarsi e stringersi teneramente. E quel contatto si percepisce allora come amore purissimo, pregno di verità umana.
Questo abbiamo cercato di riconsegnare al compositore Niels W. Gade, quasi fossero le nostre mani a ricongiungersi alle sue; e tutto ciò perché la musica non si conserva solo sulla carta, ma esige una scuola, un esercizio costante del pensiero per educare mani e voce a proteggerne la "decomposizione", o la degradazione in un oggetto che rischia di restare solo più un'inattuale curiosità storica.
Abbiamo cercato di rendere questo disco un contenitore amorevole per il Trio della maturità artistica di Niels W. Gade, e se questo poteva essere introdotto dalle sue Novelletten op. 29, del 1853, era poi necessario scegliere se concludere con l'unico altro suo lavoro per quest'organico - i due movimenti in Si bemolle maggiore, manoscritti e senza numero d'opera, conservati a Copenaghen - o con l'unico Trio con pianoforte scritto da Peter Arnold Heise, suo concittadino e amico. La nostra scelta, infine, è derivata dal non voler accettare l'idea che l'opera completa di un compositore debba per forza comprendere, all'atto della sua esecuzione pubblica, anche tutti i suoi appunti, schizzi, incompiuti, a meno che non vi sia prova certa che egli volesse davvero renderli udibili a un pubblico.
Heise, invece, ci proponeva un unico Trio con pianoforte, scritto a Roma nel 1863, e pubblicato nel '69 a Copenaghen, con la dedica al suo collega e amico Giovanni sgambati (1841-1914), celebre pianista, direttore e compositore allievo di Liszt. Heise e Gade avevano in comune, inoltre, gli studi musicali effettuati nella allora celebre scuola di Lipsia. Gade continuò poi la sua preparazione in Germania, e si affermò come sostituto di Mendelssohn alla direzione della Gewandhaus; infine ritornò in patria a consolidare uno stile definitivamente nazionale, iniziando a un linguaggio scandinavo autori non solo danesi; uno per tutti: il norvegese Edward Grieg.
Heise preferì lasciarsi attrarre dall'Italia, e soggiornò frequentemente a Roma tra il 1860 e il '70, favorito in questo dalla sua privilegiata condizione economica. In Italia produsse un notevole numero di composizioni cameristiche, sostenuto soprattutto dall'amicizia di Sgambati e del violoncellista Ferdinando Forino. Questi amici sono forse all'origine del virtuosismo strumentale, della vivacità e della solarità tanto evidenti in queste opere. Heise divenne poi il maggior compositore di canzoni danesi, e l'autore dell'opera lirica "Drot og Marsk" («il Re e il Maresciallo») che tutt'oggi è fra le opere più popolari nel suo paese.
L'incontro con la musica di Heise è sempre in qualche modo gioioso, vitale, accattivante; in un Romanticismo in cui l'idea dominante della "grande musica" è il tragico, l'eroico e il sublime, Heise sembra volersi proporre quasi come un compositore "sorridente", la cui leggerezza, però, non è mai superficiale o accomodante. Egli semplicemente, forse non possedendo affatto un animo tragico, non ha cercato di fingersi tale. Per questo scriveva nel 1869 un Quintetto con pianoforte "in un giulivo fa maggiore", offerto come "reazione" a quello in Fa minore che Brahms aveva composto nel 1865, e che Heise aveva giudicato "affetto da nera malinconia". Così la sua musica, senza essere mai fatua o banale, ricompensava l'ascoltatore con il gesto sereno e luminoso del suo amore per il bel canto e per la vita.
È mia convinzione che difficilmente si sarebbe potuto rendere altrimenti una significativa introduzione alla musica romantica danese eseguita da strumentisti italiani. L'interpretazione delle tre opere alle quali ci siamo dedicati ci ha così restituito una grande lezione di umanità: la verità del sentimento, cui noi abbiamo cercato di rispondere donando un "corpo" al suono di questi due maestri. Altro di loro - e molto - c'è ancora da scoprire e da indagare. Concedetemi di invitare all'ascolto di questi lavori con fantasia sempre rinnovata: se solo possono generare in voi un nuovo desiderio di musica, questo è il miglior premio per il musicista che ha dedicato loro la sua voce.
In ultimo, il pensiero che mi ha accompagnato nell'incidere questi dischi è stato il loro inevitabile "distaccarsi" da me, continuando, ad ogni richiamo del lettore elettronico, nel ripetere il mio gesto musicale "tecnologizzato": la tecnologia ha risposto ai criteri estetici con prodotti all'apparenza perfetti; e l'arte è sostituibile, ahimè, con il "bello" che appaga il desiderio di perfezione. Dimenticare tutto ciò permette una grave confusione di valori: il "perfetto" tecnologico non può sostituirsi al "perfetto" spirituale, poiché non ha corrispondenze che con se stesso, cioè con i mezzi con cui è stato generato, e non con il complesso della vita e del pensiero. Con questo in mente ci siamo preparati ad entrare due volte nel percorso di questo musiche: suonando con i nostri strumenti, e ricomponendo con i frammenti registrati del nostro suono un nuovo pensiero musicale e poetico, nel montaggio finale del disco.»
Claudio Ronco, Venezia, agosto 1995.