Venezia:
acqua - musica - paesaggi sonori.
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Il
Mare, per il navigante, è simile al mistero di una partitura
musicale osservata con lo sguardo del musicista: essa deve essere
scoperta, interpretata, attualizzata. E così, lungo la
storia dell'uomo, di tutti gli uomini della terra, si è
navigato il mare o l'immensità di senso dei suoni armonici
nell'identico modo, là dove l'acqua è la metafora
della musica stessa, linguaggio fluido e capace di adattamento
alla forma in cui penetra, e per questo, potenzialmente, linguaggio
universale.
Il
dominio sulla superficie delle acque, così come quello
della composizione musicale, è fatto di intelligenza
e di tecnica, rivolte all'osservazione della natura. Da Venezia,
isola circondata dalle acque, da una sofferta, difficile separazione,
inizia la civiltà che dall'arte di costruire palafitte
e barche, lavorare i legni e fabbricare cordami, giunge all'invenzione
del violino; dall'arte del trattare e trasformare il legno per
indurirlo e farlo resistere alla corrosione dell'acqua, sviluppa
l'industria del libro a stampa e della diffusione dei saperi;
dalla cultura del mare e del viaggio l'universalità,
la curiosità di uomini galleggianti sul mistero degli
oceani; dalle ineffabili suggestioni degli abissi al pensiero
della musica e del divino.
Claudio
Ronco, Venezia, maggio 2000.
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Appunti.
"...Quando
gli ebrei che commerciavano in Venezia si accorsero che era
troppo costoso dover uscire ogni sera da una città dalle
mura di acqua, ebbero quell'isola -casa e prigione al tempo
stesso- che si chiamò il Ghetto; era il 29 marzo
del 1516. Qualche anno dopo, nel 1523, fecero stampare su carta
un maggior numero di multipli della loro conoscenza: il Talmud,
ovvero lo "studio", la "tradizione orale",
data come indissolubile compendio alla Torah: il Libro.
Quando venne preso in considerazione l'uso della carta anziché
della pergamena, e della stampa a impressione anziché
della penna tagliata ad arte, si pose per la prima volta il
problema di "scolpire" le lettere dell'alfabeto intagliandole
nel legno, e di dividere testi che già da tempo avevano
cessato di fluire da rotoli come fiumi o ruscelli, in pagine
e volumi più simili ai solidi edifici delle grandi città.
Sulle pagine di quella prima edizione, il testo talmudico e
i vari commentari erano disposti in maniera molto originale:
su ogni pagina gli scritti si incrociavano, intersecavano, quasi
sovrapponevano in mappature da geografo, fra diverse dimensioni,
caratteri, direzioni di scrittura. Apparivano all'occhio complesse
e piacevoli carte cifrate, simili a espansioni inarrestabili
di un centro graficamente concepito, eppure invisibile, inafferrabile,
ineffabile. I Rabbini che se ne occuparono chiamavano le lettere
dell'alfabeto i "cavalli di fuoco", le parole
"carri di fuoco", e il testo era "fuoco
nero su fuoco bianco". Non si poteva far altro che
camminare, attraversare, navigare indefinitamente, o infinitamente,
nella materia di quel testo: così, in quel modo, uno
scritto si liberava del suo "peso" di libro, e la
leggerezza acquisita era quella della fiamma, non dell'aria,
"quella dell'uccello -per dirla con Paul Valery-,
e non della piuma". E il violinista? Non dava forse
"fuoco" alle sue note, per trascinare il pubblico
nell'emozione, per "convincerlo" dell'esistenza di
quel mondo separato, invisibile eppure vivo, che è la
musica? E la partitura su cui suona, non è forse un luogo
di continua ricerca di significati e valori?
Ad altro occhio attento, quelle pagine di Talmud veneziano potevano
sembrare diverse mappe di Venezie possibili, in alternanze di
percorsi d'acqua e di terra, coordinati o definiti dalla natura
delle correnti, e non da strategie o ideazioni umane. Là,
ogni regola o legge era cosa da scoprire, e non da inventare,
così come in musica era solo la natura della voce umana
o del violino o del flauto a comporre le strutture di una metodologia
e di una tecnica per il linguaggio e l'espressione musicale.
La divisione del testo talmudico nei primi ottanta volumi stampati
a Venezia nel Cinquecento non cambiò più: tutt'ora
si ristampa in quella forma, e in quella forma lo si studia,
proprio per liberarlo da quella o da qualsiasi altra forma:
il Talmud è un libro in cammino, in movimento continuo,
per un'umanità in cammino. Non è diversa da questa
vicenda quella della partitura musicale, dove al problema di
comporre un foglio con segni musicali intagliati nel legno,
imitando il gesto veloce e chiaro della penna, si univa quello
della complessità di indicazioni interpretative a margine
del testo.
Si stampava solo per divulgare? Certamente non solo per quello:
il risultato era una più attenta osservazione della tecnica
del linguaggio, e dunque anche la conservazione di una cultura
elevata dal continuo compenetrarsi di diverse idee e intuizioni,
intorno a un oggetto comune: una tradizione osservata e conservata,
eppure in incessante movimento e trasformazione.
Camminare osservando, osservando conservare, conservando ricongiungere,
nei vuoti delle dilatazioni della materia in continua espansione,
le energie del divino: questo compito si svolge in infiniti
diversi modi, sicché, nell'ebraismo, il Talmud insegna
che il Messia non è in qualche luogo o tempo più
o meno vicino o lontano da noi, ma è presente in ogni
essere umano, in ogni luogo e in ogni tempo; per l'ebraismo
il Messia è diviso, separato: l'energia dell'espansione
primordiale che tende a disperderne i frammenti è quella
che lo studio e l'amore convertono all'unione e al "ritorno":
il "Tikkun", la ristrutturazione. Per questo,
in ebraico, un libro non si "legge", ma si "apre"
- come nel necessario gesto corporeo prima di leggere
-, e il suo contenuto si "apre" nel mondo, si "dona"
al mondo. Non è forse così anche con la musica?
Negli ampi movimenti dell'arco che scorre sulle corde del violino,
o nella gestualità del cantante, tutto è donarsi,
aprirsi al mondo, vivere nel respiro appassionato fra l'artista
e il suo pubblico.
E il gesto intimo del disegnare la lettera o la nota musicale
seminando inchiostro sul campo fertile della pergamena, si ripete
e si espande nel mondo con la lettera intagliata e inchiostrata
che si imprime sulla superficie soffice della carta, nell'arte
accorta e rigorosa del tipografo. Nell'espandersi della voce
impostata ad arte di un cantante o del violino di un virtuoso
si ripercorre l'incessante viaggio interiore che scopre e svela
gli equilibri più segreti della natura del mondo e dell'idea
del divino, né più né meno quanto colui
che stende le vele della sua nave muove se stesso nell'osservanza
accorta di una perfetta armonia fra i suoi strumenti di navigazione
e la natura dei venti e delle correnti.
Arte dopo arte, ogni téchne si dispone a "servire"
qualcosa: l'ebreo è servo del Libro? Il violinista è
servo del violino e della sua musica? Il navigante è
servo della sua nave sull'oceano? Credo che questa servitù,
questa umile condizione di "servi", sia necessaria
all'esistenza, poiché altrimenti lo strumento dell'arte
non può giungere a una liberazione, né far scivolare
fuori da se stesso una verità universale, muoverla nel
cielo e nella terra, darla alla vita, sempre.
In fondo, a Venezia ci si muove più che altro scivolando
sull'acqua, che di quando in quando traspare, e trasparendo
ci fa meditare sul mondo di sotto e su quello di sopra, e nessuna
arte, sia essa nobile o popolare, può veramente abitare
solo uno di quei luoghi."
(Claudio
Ronco, 1999)
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