Ester e Salomone  

 

«L'udito è un senso, per cui l'anima riceve il suono, e ne rimane affetta»
(
Pietro Mengoli, Speculationi di musica, Bologna 1670, pag.15.)

 

«Vedi quelle quattro colonne di pietra d'Istria sotto la facciata della Sinagoga italiana? Nei primi trent'anni nel Seicento lì si alzava un palco in legno, e attori, cantanti e suonatori facevano il teatro "delli Hebrei di Venexia".
A quel tempo c'era un Rabbino famoso, qui in Ghetto, e il suo nome era Yehudah mi Modena: Leone da Modena. Era un uomo tormentato dal demone del gioco, da un'intelligenza troppo libera e vivace, e scriveva i testi per quel palcoscenico; niente è sopravvissuto, tutte le sue composizioni cancellate nei tempi della disgrazia e dell'orrore. Solo qualche nome, come quello del libretto per musica intitolato "Ester", unico lacerto di memoria scampata alla peste che finì nel 1630, con il mondo intero annichilito ai suoi piedi.
Guarda in queste mura, fra questi mattoni rossi e corrosi: vedi? Nella malta povera, cattiva, ormai disgregata, polverizzata, questa sabbia cade, e si sparge negli interstizi e nei buchi di queste antiche murature; toccala con le tue dita: è il deserto dell'attesa, sono le vaste distese, i solenni silenzi sotto cieli di stelle che nessuno potrà mai contare.
Ascoltami raccontare una storia, come fossimo di nuovo nel teatro del ghetto di Venezia.
In quegli anni del Seicento, su quel palcoscenico fra le quattro colonne, tra i suonatori, tutti ebrei, di un'orchestra dal nome disincantato di "Accademia degl'Impediti", c'era un violinista famoso, e sulla scena cantava una delle sue sorelle: il celebre Soprano dalla voce che pareva un miracolo di bellezza; i loro nomi erano Schlomo vi Estér me Adumìm, Salomone ed Ester de' Rossi.

Avevano iniziato le loro carriere a Mantova, nella colonia ebraica protetta dai Gonzaga, per poi seguire un mirabile musicista dalle innovative, straordinarie idee: il grande musico Claudio Monteverdi.
Con la sua orchestra e i suoi cantanti, Monteverdi viaggiò moltissimo, e Salomone ed Ester lo seguirono ovunque; era concessa una certa libertà agli ebrei che facevano i musici, e spesso gli veniva persino ordinato di tener nascosto il segno obbligatorio di riconoscimento.
Ester incantava l'uditorio, in ogni luogo, con ogni personaggio; ma quando cantò il ruolo di Europa, allora il suo successo fu tale che ebbe il suo nuovo nome: Madama Europa, rapita da Giove trasformato in toro natante.
Europa girò l'Europa, distillando armonie con la sua voce di cristallo eletto, di argento puro, di materia sublime, di diamantina perfezione. E Monteverdi scriveva per lei, strumento divino, regina della liberazione dalla schiavitù in Babilonia. Ester, si dice nel Talmud, fu allattata dal latte di suo padre, ed Ester allattava, col latte di Claudio, un pubblico sempre più vicino al terrore, in quegli anni che s'avvicinavano alla grande epidemia di peste.
Monteverdi aveva scritto un'opera straordinaria: l'Arianna. La voce di Ester l'interpretava, e abbandonata da Tèseo sull'isola di Naxos, rispondeva chiedendo la morte per se stessa, in quel lungo, struggente Recitativo, che di quell'Opera è l'unico frammento rimasto, l'unica traccia che ci è rimasta del capolavoro perduto di Monteverdi: "Lasciatemi morire. E chi volete voi, che mi conforte, in così dura sorte? In così gran martire?".
Così cantava Ester, e il pubblico piangeva lacrime calde di commozione e di pena riflessa; e in quel mentre Salomone ne studiava la sostanza, per infonderne l'essenza nel suo violino, errante fra lingue diverse e diversi pensieri, nel segreto pudico della sua identità, e nell'estroso irrompere sulla scena col suo mirabile virtuosismo, primo fra i violinisti, capace di muovere al pianto e al riso con la voce del legno: l'albero, che vivo nella selva era muto, e che in morte e trasfigurazione cantava dell'arte umana, della sua scienza, della sua gloria.
Salomone componeva in note armoniche e sensuali il Cantico dei Cantici, Shir ha-Shirìm, e offriva al violino una nuova tecnica, una ricerca infinita di poetiche nuove. Ester addolciva gli orecchi di Dio, per far sì che ascoltasse le pene degli uomini, ripagando così il Creatore e l'Artefice per il dono della sua voce.


Monteverdi, infine, giunse a Venezia, e qui fu incaricato "Maestro di Cappella in San Marco". Salomone ed Ester si ritrovarono in questo luogo, imprigionati fra queste mura del ghetto: gli occhi delle case chiusi all'esterno, come un gigantesco imbuto che raccogliendo la pioggia per i suoi tre pozzi pareva disciogliere verso il basso ogni essere, ogni anima, ogni pensiero che vi entrasse. Solo le Sinagoghe s'innalzavano al cielo!
Qua, vedi, sopra questi piani rialzati dal terreno che già allora erano botteghe aperte sul campo circolare; queste erano le case dell'assemblea, il luogo della preghiera: la Beth ha Chnesset con gli armadi del Santo, coi rotoli preziosissimi e viventi della Legge e del Nome ineffabile, spinti verso l'esterno delle mura in cieche sporgenze simili a piccole stanze sospese nel vuoto. In queste Sinagoghe si cantavano gli Inni e i Salmi, si recitavano le benedizioni e le preghiere, e Salomone ed Ester de' Rossi, musicanti hebrei, qui erano solo un uomo e una donna del popolo eletto.

Venne la peste, in tutto il suo orrore. La gente moriva ovunque, senza speranza. L'intelligenza si confrontava con l'incompiutezza dei saperi, e con la disperazione dell'anima. Ognuno pregava a suo modo, nel suo stile; ognuno chiedeva pietà a Dio.

Il celebre "Vespro della Beata Vergine" fu scritto da Monteverdi proprio in quegli anni di terrore, intorno all'anno ventinovesimo di quel secolo ridondante di sensualità e desiderio. Nel giorno di Maria, madre del Dio dei cristiani, Claudio dirigeva la sua orchestra e il suo coro, per innalzare la preghiera alla donna ebrea, umile moglie dell'uomo e di Dio, grembo infiammato di luce in espansione.
E chi, se non Ester, era là a darle voce? Chi, se non Salomone, era in quel luogo a contornarla dell'edificio armonico del Tempio?

Era sabato: il giorno della Madonna; e nelle case del Ghetto i fuochi si curavano con l'attenzione di non farli spegnere per non dover contravvenire alla Legge di Dio, o mangiare sconsolati nel freddo dell'errore. Nelle Sinagoghe si svolgeva la sequenza rituale, scorreva il ciclo delle letture nell'incanto magico della lingua antica che arrestava il tempo, lo fermava in una sospensione sublime, paradossale: la voce visibile di Dio, ancora, come nel deserto, a far tremare il popolo di fronte alla montagna fumante e allo strepito dello Shofàr.
Ecco: quel tempo fermato, catturato nelle parole delle letture, negli spazi vuoti fra le lettere, sollevarsi oltre i tetti altissimi e spaventosi di quell'imbuto, e raggiungere la voce di Ester, donarle il Sabato che le era negato dai potenti; raggiungere la voce soprana del violino di Salomone, guidarlo alla sua sposa, alla festa del Settimo Giorno.
Voce e violino di carne e di sangue, per riposare nel giardino di Dio, mentre i suoni si spargevano come cenere sulle teste dei penitenti, in quell'immensa chiesa dorata e dedicata all'Evangelista Marco, fra le mille rifrazioni delle sue cupole bizantine, fra le infinite linee intersecanti delle sue innumerevoli immagini, in mosaici composti nei secoli, da mani pazienti.


Morirono di peste, tutti: in quel tragico mille seicento ventinove. Rimane, forse, solo una testimonianza di tutti questi fatti: di quel Lamento d'Arianna, ultima traccia scampata alla sparizione dell'Opera, esiste ancora la melodia che, attraversando la paura della morte, l'invocazione alla pietà di Dio e al perdono, trasformata la sua lingua e le sue parole, resta però intatta nell'armonia e nel suono, diventando il "Pianto della Madonna ai piedi della Santa Croce, sopra il Lamento d'Arianna", con le sacre parole dolenti:

«Iammoriar mi Filli...
Quisnam poterit mater consolari in hoc fero dolore, in hoc tam duro tormento...Iammoriar mi Filli! Mi Jesu, o Jesu mi sponse, sponse mi dilecte, mi mea spes, mea vita, me deferis heu vulnus cordis mei...
»

Estér era divenuta Europa, e poi Arianna a piangere Tèseo, e ora diventava la rappresentazione più vera del dolore della Madre per il Figlio... Miriàm, madre ebrea, madre dolcissima, che stringeva se stessa in quel sangue disceso prima nel suo ventre e poi da quella terribile croce... Ma era ancora Arianna che saliva a Dio: «Si disse, che intanto pianse, e che vedutala Bacco, n'ebbe tanta pietade, e tanto zelo, che dal funesto scoglio, seco la trasse, in su le vie del Cielo...»

Estér tornava allora ad essere ebrea, ed eletta, proprio nella necessità di quel vero, autentico recitare il "Pianto della Madonna" scritto con dolore dal suo celebre e amato Maestro, nelle infinite risonanze dell'antica basilica dalle luci orientali, nell'ebbrezza dell'oro e dei marmi più preziosi... fu un Sabato, quello, oltre la divisione del tempo e del senso... un Sabato proiettato nell'assoluto, dove il Messia, il Re dei Re, sedeva in trono tra i solenni canti della pace universale.

 

 

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Claudio Ronco

(Da "Il violoncello errante, © C.Ronco 1999)