Il pianoforte di Kabul

una novella musicale

 

Ero giovane, avevo abbandonato i miei studi musicali; la noia era il mio tormento e la mia malattia, ma nessuna musica me ne liberava, nessuna melodia riusciva più ad incantarmi. Avevo paura della mia indifferenza. Intrapresi un lungo viaggio via terra, verso oriente, e approdai a Kabul; a quel tempo l’Afganistan era un mondo antico, quasi intatto. Lì, in una locanda, sentii suonare dei musicisti di tradizione ed ebbi il desiderio di procurarmi uno dei loro strumenti a corde, quello che chiamano Rebab. Mi dissero allora di cercare un certo artigiano nella città vecchia.
Al mio arrivo la bottega era vuota e silenziosa: polvere, segatura e legni semi-lavorati ovunque; cercai inutilmente di chiamare qualcuno. Spostai allora una tenda, per guardare oltre una porta sul retro.
Là c’era una stanza piuttosto grande, accogliente, nell’ombra di un ricco giardino interno; l’arredavano due poltrone di stile inglese, molti tappeti e cuscini rivestiti di bei tessuti e, contro il muro, un oggetto stranamente fuori luogo: un pianoforte verticale.
Non un comune pianoforte a muro: questo era costruito con legno d’alberi tropicali e interamente intarsiato d’arabeschi, realizzati in finta madreperla. Il coperchio della tastiera era abbassato, e io non potevo resistere alla curiosità: aperto quanto bastava a far passare una mano, lasciai cadere le dita in un accordo di note. Ma il suono che cominciò a risonare nell’aria, a riempire quella stanza… come posso definirlo? Era quanto di più inatteso, straniante, stupefacente mi fosse mai capitato di ascoltare.
Ascoltavo il timbro di un pianoforte, certo, ma talmente lontano da ciò che ci si aspetta, da quel che si ha l’abitudine di sentire; fin dal primo vibrare di corde e legno era già una musica perfetta, conclusa, rifinita ad arte, come può accadere solo nei sogni…

Iniziai a suonare, o meglio, a far uscire dalla memoria delle mie dita tutto quel che vi era rimasto a sedimentare dopo tanti anni di studio e poi di oblìo: cose di Bach e di Mozart, scelte di brani piuttosto semplici… io non sono mai stato un buon pianista; lo so bene e resto nei miei limiti. E a un punto, mentre suono, mi accorgo di non essere solo: un uomo è in piedi dietro di me, in assoluto silenzio, al fondo del salotto (vedevo bene i suoi occhi: grandi, spalancati, eppure pieni di tenerezza).
Abbandono in tutta fretta il pianoforte e provo a scusarmi. Ma quell’uomo balbetta qualcosa agitato, scuote le mani, poi le unisce e le alza sopra la fronte, poi si calma, sorride, mi fissa negli occhi e inizia a parlarmi con perfetto accento britannico: « Please, Sir… non fermarti, continua a suonare…».
Rimane lì, immobile, le mani tese in quel gesto di preghiera, e mi implora con lo sguardo. No, non mi mette in imbarazzo; è un ometto simpatico, tondeggiante, dalla carnagione scura e vestito di una tunica grigio-azzurra, all’islamica. Gli sorrido anch’io e torno a sedere, provando a continuare il brano interrotto, ma mi è impossibile: non c’è più musica né nelle mie dita, né nella mia testa.
Mi rialzo, mi scuso di nuovo, ma lui mi afferra forte le mani e dice: «Sir, please, te lo chiedo umilmente… torna da me domani… vieni a suonare ancora per noi! »
A tutt’oggi non so darmene ragione, ma accettai subito quell’invito.

Il giorno seguente tornai nella sua casa, dove non era solo ad attendermi: c’era con lui un ragazzo alto, magrissimo, dai lunghi capelli neri ondulati che incorniciavano un bellissimo ovale (suo figlio, pensavo scrutandolo, perché aveva gli stessi occhi pieni di tenerezza del mio bonario ospite).
Ed ecco che mi corrono incontro dalla porta della bottega, fra gesti eccitati di saluto e di gioia; mi accompagnano attraverso stanze riordinate e ripulite come per una grande festa, e poi, con una certa, improvvisa solennità, mi accolgono nella stanza del pianoforte, dove su un tavolino basso d’ottone sono disposti in bell’ordine un servizio da tè, dolci, zuccherini, frutta secca e un grande vaso di fiori. Mi guardo intorno: l’ambiente è impreziosito da nuovi cuscini sopra e intorno alle poltrone inglesi, nuove tende bianchissime alle finestre, profumi d’incenso indiano nell’aria. Attendono che io vada al pianoforte e suoni per loro un po’ di musica, quindi raggiungo subito la tastiera ed eseguo nuovamente qualcosa di una Sonata di Mozart, più o meno ricordandola a frammenti, o improvvisandola, per quanto mi concede la mia cattiva memoria di quel brano. Ma ora, in quella stanza, ho l’impressione che sia musica che non significa più nulla per me… O peggio: quelle che sto suonando sono note che mi parlano e feriscono, e che ritornano dolorosamente al mondo da cui sono fuggito con il mio viaggio; luoghi che ho voluto abbandonare, cose che non ho alcun desiderio di rivivere.

Eppure il mio ospite è entusiasta di me: mi ringrazia inchinandosi, stringendomi le mani, scuotendo la testa. E poi mi offre altri dolci col tè, zuccherini, il fresco di un ventaglio di seta ricamata. La luce filtra dolce dalle tende e dal fogliame del suo bel giardino; c’è ora una calma serena, un sorriso rilassato. Quell’uomo fissa lungamente i miei occhi, cerca qualcosa nel mio sguardo, e infine mi chiede: «Please, Sir, potresti aver la grazia di giudicare mio figlio? Anche lui, come te, ha consacrato le dita delle sue mani alla musica del pianoforte.»
Accetto con fare imbarazzato – mi vergogno sempre della mia mediocrità come pianista. Il ragazzo china lo sguardo, ma attende un mio cenno. Lo invito sorridendogli e tendendogli le mani; lui ringrazia timidamente, con un goffo inchino, poi va a sedersi alla tastiera, aggiusta l’altezza dello sgabello, si stira i tendini delle dita, chiude gli occhi, e dopo qualche istante di silenzio inizia a suonare.

Qui finisce il potere delle parole. Posso descrivere la mia emozione di quel momento, le lacrime che sembravano colarmi dal cuore, il tremore che mi scuoteva nell’anima… ma il miracolo non può essere detto o spiegato dal racconto: mi raggiungeva una musica mai ascoltata prima, purissima, ineffabile. E al tempo stesso conosciuta, famigliare… Era come se in qualche tempo remotissimo mi fosse stata impiantata, nota dopo nota, nella memoria più intima. Eppure era la stessa Sonata di Mozart che avevo appena suonato, anche se, di certo, non proveniva dallo stesso universo.

Provate ad immaginare lo svanire della memoria di cos’è uno strumento a corde, la musica di Bach, e di Mozart, e tutto il resto. Non per qualche anno o decennio, ma per secoli, millenni, scavalcando nascite e morti di intere civiltà, fino al momento in cui qualcuno, per caso, ritrova un pianoforte, un metodo per restaurarlo e un altro per imparare a suonarlo. E infine la partitura di una Sonata di Mozart.
Non esiste più uomo o donna sulla terra che abbia ricordi di queste cose, e tuttavia quell’uomo, testardamente, inizia a riprodurre una dopo l’altra ogni precisa sequenza di suoni segnata nella partitura, nota dopo nota, e ogni nota ritrova un senso, un luogo appropriato, un destino, e si ricongiunge, inaspettatamente, a un significato di cui s’era perduta la memoria: una visione, o un viaggio, o anche un solo gesto, dentro al frammento di un mondo che è esistito, anche se nulla ci è più noto del suo esser stato.
Per un bizzarro miracolo noi siamo là, in quell’avvenire. E quella musica, quella sequenza di note che noi crediamo di conoscere perfettamente – poiché, in questa strana e paradossale avventura, è cosa che ancora ci appartiene –, quel linguaggio di suoni che ci ha narrato e ripetuto mille volte la sua storia, in quel preciso momento non è più parte di ciò che conosciamo: essa appartiene a un’altra realtà, a un altro mondo. E dunque a un altro futuro.

Sì, certo, a guardarle scritte sul loro pentagramma, le note sono evidentemente le stesse: possiamo riconoscerle benissimo, tutte quante, e persino pronunziare con scrupolosa precisione il nome del compositore e il numero d’opera. Ma ora, di fronte a noi, quella musica risuona per la prima volta nel mondo, e racconta storie ancora mai ascoltate. E noi comprendiamo, finalmente, come l’arte miracolosa, l’ispirazione divina che aveva guidato la mano e la penna del compositore, non era affatto cosa di questo mondo, oggetto d’arte generato dall’esperienza di un popolo e della sua storia; noi ci accorgiamo (mentre questa consapevolezza ci penetra nel profondo), che quella musica non è semplicemente il prodotto di questo o quell’altro individuo, mera rappresentazione dei pensieri e dei sentimenti di un essere chiuso nelle stanze del suo destino! In questo inatteso futuro, ora tutto è chiaro: quella è musica che non ha bisogno della nostra esperienza per poter significare qualcosa. Essa è, e basta: luogo universale dell’incontro, giardino meraviglioso e sublime dove ognuno trova, e riconosce, il suo premio.

E a quel punto, mentre i miei occhi cercavano di fuggire dal mondo, dalla mia mente e da tutto, il buon uomo afgano mi fece sedere e cominciò a raccontarmi la sua storia.
Iniziava nell’India degli ultimi anni della dominazione inglese, poco prima del ‘45, quando gli ufficiali britannici decisero di assumere servitori afgani, temendo una rivolta del popolo indiano che chiedeva ad alta voce l’indipendenza.



Quand’era ancora quasi un bambino, i suoi genitori lo destinarono al servizio di un colonnello inglese che viveva nei quartieri militari di Nuova Delhi. I suoi compiti erano i lavori di pulizia e di fatica nella casa, ma per la moglie e le due figlie del colonnello quel piccolo servitore era solo un fanciullo con occhi pieni di tenerezza, e lo trattavano con tutta la tenerezza che era concessa dalle regole e divisioni sociali.
Ogni sera, la famiglia si riuniva nell’elegante sala di musica, attorno al pianoforte a coda; erano soprattutto le donne di casa a suonare e far musica, alternandosi nel canto o nell’accompagnamento, ma a volte anche il colonnello, che era buon pianista dilettante, si sedeva a dar concerto o a suonare a quattro mani con sua moglie.
Ma quella pace non era destinata a durare; venne il giorno terribile, quando i ribelli indù occuparono con la forza il centro della città vecchia; il colonnello restò asserragliato con i suoi soldati, molto lontano dal quartiere britannico. Al suo ritorno l’orrore: tutti, nella sua casa, erano stati massacrati; tutti, senza pietà, persino i servitori. Tutti, meno il giovane servo afgano: era sfuggito alla morte nascondendosi nel piccolo armadio della sala del pianoforte, quello in cui usava rintanarsi per ore e ore ad ascoltare le lunghe serate musicali, con la segreta complicità della sua padrona.

Il colonnello non riuscì a sopportare il dolore; cadde prima in uno stato di profonda depressione, e poi in una follia che lo costrinse ad anni di ospedali psichiatrici, dove il solo amico che gli restò al fianco fu il suo afgano, che nessuno poteva allontanare dal suo signore e padrone.

Venne poi il giorno in cui il colonnello ritrovò la salute; apprese della devozione del suo afgano, e in premio volle offrirgli di seguirlo in una nuova vita.
Vendette la casa e tutto ciò che rappresentava per lui un ricordo insopportabile –soprattutto il pianoforte, carico più d’ogni altro oggetto di memorie troppo dolorose –, e infine fece preparare un atto d’adozione, affinché il suo servitore divenisse legalmente suo erede. Andarono quindi a vivere nella città di Amritzar, non lontana dalla frontiera pakistana, sulla via verso Kabul. Là il colonnello intraprese un’attività commerciale che poco a poco gli fece ritrovare una buona qualità di vita, un benessere da condividere col nuovo figlio. Tuttavia, sin dal giorno ormai lontano della sua partenza per l’India, quell’umile servo non aveva avuto altro sogno che ritornare al suo paese e ai suoi famigliari, con i soldi messi da parte lavorando per gli inglesi aprire una bottega d’artigiano, e trovarsi una buona moglie per riempire la sua casa rallegrandola con le voci e i volti di molti figli, a Dio piacendo.
Il colonnello capiva bene quel desiderio, ed era ben cosciente del gran vuoto che opprimeva il cuore del suo figlio adottivo. Ma trovare il coraggio per lasciarlo partire, e poi continuare, e finire, la sua vita in solitudine, lontano dall’unico essere cui ancora lo legava un affetto e una speranza… no, di questo non era capace.

Un giorno, sotto la guida e gli ordini del colonnello, alcuni artigiani di Chandigar iniziarono a fabbricare un pianoforte verticale, rifinendolo e decorandolo secondo il loro gusto. Quando, completato il lavoro, finalmente fu consegnato e arrivò nella loro casa, l’ormai anziano ufficiale chiamò suo figlio adottivo, e di fronte a quello strumento, portato con solennità al centro del loro salone, disse queste parole: «Tu, nella mia dimora, hai amato e desiderato così tanto la nostra musica, da rischiare mille volte la frusta per aver abbandonato il tuo lavoro, pur di poterti nascondere ad ascoltare i nostri intimi concerti… Lo sapevamo tutti, ma era un dolce segreto per noi, commossi dal potere della musica in un mondo di violenza e di ingiustizia. E ricordo bene la tristezza nei tuoi occhi, quando mi separai da quel pianoforte sul quale era incancellabile la memoria viva della mia felicità perduta. Dunque ecco il mio dono: io t’insegnerò la musica, e tu, finalmente, potrai suonare su questo nuovo strumento, che è stato fabbricato qui, sotto i miei ordini, solo per te. »

Il giovane era confuso… Si trattava indubbiamente di un magnifico regalo, e così commovente! Ma tanti anni di umili lavori e di fatiche gli avevano ormai indurito le mani: le guardava, le stendeva, le torceva, e vedeva bene che non c’era più alcuna sensibilità, e ancor meno agilità nelle sue dita… nessuna … non era neppure più capace di tenere una penna tra le dita, quando, la sera, il suo padrone gli insegnava a scrivere…
Il colonnello prese allora una decisione bizzarra: «Tu imparerai a suonare il pianoforte senza toccarlo,  – disse – tu potrai disporre delle mie dita e farle muovere a tuo piacere sulla tastiera del pianoforte. E così imparerai a fare con le dita di chiunque possa usarle con destrezza, finché quelle eseguiranno le note della nostra musica per te, per me, per chi ci sostituirà nel tempo a venire!»

Così passarono molti anni, tra giornate di intenso lavoro e lunghe serate musicali. Finché, un mattino, il colonnello non si alzò più.
Ereditata ogni cosa di quella dimora, l’ormai libero servo afgano vendette tutto. Tutto, meno il suo pianoforte. Tornato a Kabul, vide che la città non era cambiata di molto; i suoi genitori erano scomparsi, ma lui poté acquistarsi una bella casa, aprire una piccola bottega per fabbricare rebab, tar o liuti a manico lungo, perché quello era il lavoro di suo padre, e infine trovare e prendersi in sposa una buona moglie.
Seguirono anni sereni di benessere, ma non giunsero figli a completare la loro felicità. Fu allora che decise di adottare un bambino, e così un piccolo orfanello indiano andò a vivere nella sua casa-bottega di Kabul. Ben presto a quel fanciullo venne destinato il dono e la lezione del colonnello: di stagione in stagione, anno dopo anno, la memoria del fedele servo, ormai anziano, poco a poco ritrovava tutta la musica che tanto aveva amata nella grande casa di Nuova Delhi; aprendo lo scrigno della sua mente con la grazia solenne d’un sacerdote che ne estrae sacri oggetti e reliquie, deponeva la musica, nota dopo nota, nelle dita di quel ragazzo. Così si formò e crebbe quel miracoloso pianista, in un luogo in cui non esisteva un conservatorio, né un teatro o una sala da concerto, e neppure una radio da cui poter ascoltare e scoprire i suoni del mondo…

«Ho solo un rimpianto: – mi disse poi quell’uomo – mai prima d’ora abbiamo avuto la fortuna e il privilegio di ricevere qualcuno che potesse giudicare la mia memoria…» Poi si strinse vicino alle mie orecchie e sussurrò: «Signore, please… qui, nella mia casa, di fronte a ciò che siamo, a ciò che possiamo fare, tu solo puoi giudicarci, tu solo ci puoi dire la verità! Parla, ti prego, per quel che hai sentito: dimmi se quelle erano le note esatte! Dimmi, per pietà verso il tuo servo e amore per questo tuo destino, che offre le tue dita all’arte, dimmi se qualcosa era sbagliato, o se, in grazia di Dio, ognuna di quelle note era al suo giusto posto!».

 

Claudio Ronco, Venezia 1985.

 

Immagini:

Denis Briat
due foto da: "Indie, 1955"
Enfant vers les sources du Gange
Sur le Haut Gange

 

Un'opera alla 51a Biennale di Venezia, 2005
fotografia di Emanuela Vozza

 

©claudioronco2008