LA TRADIZIONE VIRTUOSISTICA

Contemporaneità di una ricerca

“Ragionamenti”
intorno alle mie incisioni discografiche;
di Claudio Ronco,
Venezia, Luglio 1996.

 

 

 

 

 

 

    Nelle mie incisioni discografiche convergono lo studio e le esperienze concertistiche di vent'anni della mia vita; esse rappresentano l'ideale interpretativo e tecnico che ho sviluppato, trasformato e perfezionato in un ininterrotto confronto con le esigenze della pratica musicale e della comunicazione con il pubblico.


Per questi ultimi vent'anni mi sono dedicato all'interpretazione musicale con strumenti d'epoca. Ho collaborato alla realizzazione di centinaia di prime esecuzioni di autori noti e dimenticati del Barocco e del Romanticismo, con più di trenta incisioni discografiche con vari gruppi europei e innumerevoli registrazioni radiofoniche e televisive. Ho esercitato la mia capacità di comporre musica arrangiando arie d'opera, orchestrando, riscrivendo Recitativi a uso di diversi cantanti, componendo Sonate e Cantate nello stile di quello o quell'altro compositore barocco, al solo scopo di restituire agli autori non solamente i suoni che ero capace di immaginare e produrre, ma anche di offrire oggi una più cosciente comprensione della complessità del loro lavoro e del loro tempo. Ho visitato biblioteche pubbliche e private, antiquari, archivi, musei, botteghe di restauratori, liutai, cordai, in ogni occasione collezionando testimonianze della nostra tradizione musicale e sperimentando "qualcosa di nuovo", per avvicinarmi a una più precisa verità storica della professione cui dedico la mia vita.
Sono stati anni ricchi d'incontri, tutti importanti, tutti capaci di ripagarmi della scelta di non sottostare alle regole dello star system che ho evitato con ossessiva ostinazione. E gli incontri più stimolanti sono sempre stati quelli con artisti di altre discipline: pittori, scultori, poeti, attori, registi. Ogni volta ho goduto di come la loro particolare ricerca si poteva tradurre in ricerca musicale, e ritradurre ancora nei linguaggi di architetti, scienziati, medici; io e loro abbiamo così condiviso il piacere di contemplare infiniti parallelismi e sorprendenti incontri di discipline.
Ho di fatto visitato un nuovo Rinascimento dove il Principe, "l'illuminata guida", è stato solo l'amore per la cultura e per l'arte. Incontro dopo incontro ho sempre più detestato i limiti in cui sono imprigionate la scuola e la pratica dell'interpretazione della "musica colta", spesso in contrasto con il più naturale "istinto musicale", ma anche con l'evidenza storica delle tradizioni.


Quando iniziai a suonare musica barocca mi venne insegnato che la voce doveva essere pura e non vibrata; che l'articolazione delle frasi doveva essere evidenziata e adeguata agli schemi ritmici delle danze dell'epoca; che il volume di suono doveva contenersi nei livelli di un liuto, di un cembalo, esprimendosi così in un'atmosfera raccolta, anche se spesso incoerente col naturale, "istintivo" desiderio di consegnare a quella musica una maggior carica espressiva, una drammatica aggressività e il senso del tragico, che sono certamente alcuni fra i grandi mezzi comunicativi della nostra tradizione classica. Tutto ciò sembrava dover essere quasi un disintossicarsi dall'invadenza del suono romantico, seppur proposto nell'epoca dello stress da rumore di città, della musica assordante, del disco amplificato a piacere. Da allora poco è cambiato: Vivaldi, Bach, Haendel continuano a essere suonati con strumenti e spirito "tardo romantico", oppure con strumenti d'epoca ricostruiti ancora secondo le stesse frammentarie, inesatte regole filologiche.


Con questa superficiale filologia, senza una vera unità di scuole e intenti, tutti noi abbiamo continuato a riprodurre stancamente quel suono più o meno "diverso" che i grandi direttori d'orchestra e i critici più seri hanno sempre giudicato "debole e stonato", rifiutandolo e disinteressandosene finché il grande successo commerciale degli strumenti antichi non ha pareggiato i conti con quelli moderni.
Il pubblico è rimasto diviso, assuefacendosi all'una o all'altra maniera interpretativa, incapace di godere di questa particolare pluralità di proposte. Il risultato di tale nuova realtà del mercato della musica è stato la deprimente assenza di dialettica tra le diverse scuole, la povertà di idee e di pensiero che ne è derivata, e il preoccupante calo di interesse del pubblico: realtà troppo pericolosamente ignorata, per la paura di affrontare il grave problema dell'occupazione dei diplomati di Conservatorio, o per le convenienze a tacere su troppe imprese fallimentari. Nonostante ciò il fenomeno è evidente: nel successo effimero di solisti o ensembles che saturano il mercato per pochi anni e poi affondano velocemente nell'eccesso di nuovi "concorrenti", in una competizione incosciente, distruttiva dell'irrinunciabile libertà dell'arte. Perché la musica non può concedersi l'involgarimento del restare mero fenomeno di costume, rappresentando un gruppo umano o l'altro. La musica deve essere confronto e non contaminazione di culture; non deve ridursi a più o meno gradevole "sottofondo" alle scelte o alle conquiste che determinano l'appartenenza all'uno o all'altro stato sociale e culturale. Pena il ridurre Vivaldi, Bach, Haendel a polverose esposizioni museali, con scolaresche costrette a subirne l'ascolto. Attenzione, già succede, e lo scolaretto impara e decide che di certo non pagherà il biglietto per subirle ancora.

Il mondo della musica classica è certamente ricco di proposte, ma è diventato difficile rintracciarne di creative e coinvolgenti: riconosco piuttosto sempre più spesso l'affannosa ricerca di strategie, di sforzi promozionali, di compromessi stilistici, tutte artificiose maniere per conquistare nuovo pubblico. E quell' "orlo della crisi" su cui stanno gli Enti lirici, i Festival, le Orchestre, i troppi editori di dischi e di riviste specializzate, dimostra che questo pubblico è insufficiente rispetto all'offerta dei professionisti vecchi e nuovi di questo settore.
Ma non è forse vero che il pubblico continua a venir contattato con quell'eccessiva prudenza (si pensi alle programmazioni televisive) e quell'ossequiosa pedanteria di chi ha paura di perder quello vecchio?
Così Vivaldi suona "noioso" a chi ascolta il rock, ma anche a chi abbia provato almeno una volta l'emozione profonda e indelebile dell'ascolto di una grande Sinfonia classica o romantica. Eppure il Romanticismo non ha creato la sua musica dal nulla: ha piuttosto ereditato dal Barocco gli strumenti e la dialettica. Dunque Vivaldi —che a differenza di un qualsiasi compositore del secolo successivo, non scriveva tutte le note che pensava dovessero essere suonate, poiché ne lasciava l'invenzione sempre rinnovata ed estemporanea ai suoi virtuosi esecutori—, Vivaldi, dicevo, non poteva avere immaginato e sentito le sue composizioni senza che proponessero almeno parte della forza espressiva, della grandezza di suono che i suoi contemporanei avrebbero poi consegnato in eredità ai romantici. Non poteva, insomma averla pensata come noi la proponiamo e insegnamo oggi: come se alle pitture di un Tiepolo pazientemente togliessimo le pennellate di luce, l'illusionismo aereo, lo slancio delle figure, la drammatica teatralità, per poi mostrare al mondo ciò che della sua pittura rimarrebbe, descrivendone ancora a parole tutte le qualità che la caratterizzavano prima del nostro intervento. O come se dalle chiese barocche togliessimo tutto quell'apparato decorativo di stucchi, orpelli, finti marmi, che le rende favolose scenografie di un teatro di passione, di totale coinvolgimento emotivo nella vicenda biblica, per adeguarle a un più moderno concetto del praticare la religione.

Ecco, in vent'anni io ho cercato di confrontarmi con queste evidenze. Ho "cercato" il modo di cavar suono dallo strumento rigorosamente storico o da una voce umana proiettata in quel luogo di ineffabili emozioni che è il teatro barocco. Ho condiviso la mia ricerca con quella di altre persone che "cercavano" in altre discipline, ho guidato il restauro di preziosissimi strumenti che nuovi mecenati mi hanno donato o messo a disposizione, per poter far riascoltare la voce ineguagliabile della liuteria italiana e francese del Sei e Settecento. Così, con la passione e l'aiuto amorevole di amici liutai, artigiani, studiosi, questi strumenti hanno ritrovato voce. Ma seguendo sempre solo la lezione della storia, nelle tracce che i maestri del passato ci hanno lasciato in un trattato, in una testimonianza iconografica o in un'osservazione manoscritta a margine di pagina, o ancora nei "segni" dell'uso lasciati sui loro strumenti, o in un frammento di corda miracolosamente preservato.
E' su indizi minimi, a volte, che con anni di ricerche e verifiche si sono potute stabilire evidenze storiche. La voce "resuscitata" di quegli strumenti ci insegna qualcosa di nuovo: che il violoncello suonava potente quanto un organo da chiesa, e dunque ben più di un cembalo; che lo strumento ad arco barocco era veramente "voce", capace di "pronunciare" i suoni e non solo di "articolarli" su ritmi di danza propagandoli in piccoli ambienti. Ma soprattutto che questa voce oggi può commuovere —e convincere— anche il giovane portato ad apprezzare solo la musica commerciale, o il disinteressato, casuale ascoltatore convinto di non sapere nulla di musica; li ho visti attratti da ciò che ascoltavano, e ciò avveniva perché d'istinto riconoscevano l'emozione musicale e s'accorgevano di non potersi distrarre, di non poter lasciare quel suono in sottofondo. E io stesso, che nella mia esperienza includevo anche un approfondito studio della musica orientale, osservavo che quell'incompatibilità di culture musicali fra "noi e loro" forse non era senza soluzioni.
Da qui in poi la strada è aperta per riscoprire nuovamente Vivaldi, Bach, Haendel, per accorgersi che una Cantata o una Sonata da camera non sono solo l'esclusivistico piacere di un'élite iniziata a un linguaggio arcano, ma possono essere anche, dalle dita e dalla voce di nuovi virtuosi, una formidabile esperienza teatrale; e possono raggiungere un nuovo pubblico senza per questo doversi "contaminare" con strumenti moderni o con chitarre elettriche.

Vivaldi poteva godere dell'esperienza già centenaria della tradizione virtuosistica italiana, e al tempo di Beethoven s'erano aggiunti altri cent'anni di pratica a disposizione dei compositori e del pubblico. Solo negli ultimi decenni del secolo scorso l'eccessiva commercializzazione della musica, il cominciare a gestirla come oggetto di consumo —sebbene per la giusta causa del renderla un bene pubblico e non solo un lusso privato o il passatempo della società privilegiata— hanno creato gradualmente condizioni di definitiva rottura con le scuole del passato, e si sono sviluppati quei mutamenti radicali dello stile e della tecnica che hanno reso incompatibili gli antichi ideali con le moderne esigenze.
Così si è persa l'arte dei grandi liutai —quali gli Amati, o gli Stradivari, le cui opere sono tuttora insostituibili per qualunque solista di successo—, è scomparsa l'arte dei cordai che dall'Italia centrale o dalla Francia rifornivano tutta l'Europa dei virtuosi con corde armoniche che erano miracoli d'ingegno, vere e proprie alchimie di metalli e budelli ovini, trattati con la sapienza di secoli di esperimenti. Infine, inevitabilmente, si è interrotta quella catena di Maestri che possedevano e insegnavano la tecnica e la tradizione virtuosistica da cui si è formata la nostra civiltà musicale, tanto che già Rossini, Verdi, Wagner ne lamentavano la lenta ma inesorabile scomparsa.
Questa tradizione si deve far rinascere per ridare vitalità non solo alla musica da camera —tesoro preziosissimo della nostra cultura—, ma anche all'opera lirica, restituendo ai Recitativi quell'energia musicale che hanno perduta, alle Arie maggior varietà di espressioni, agli autori la varietà di stili e di linguaggi, e al pubblico il rinnovarsi continuo dell'esperienza musicale. Oggi dobbiamo riconoscere che la musica "colta" si è allontanata troppo gravemente dalla sensibilità e dalla comprensione dei giovani —che pure sono sufficientemente acculturati— ed essi hanno cercato la musica altrove, trovandola però dove non può esservi alcuna continuità o contatto con la storia e la cultura dei Maestri della nostra civiltà.
Per questo è urgente ritrovare quell'equilibrio tra istinto e disciplina, tra "Natura e Cultura" che caratterizzava l'arte e la scienza degli antichi: per non disperderne il prezioso insegnamento di vita. Questo mio lavoro serve a ricordare che è esistita tale tradizione, e vuole dimostrarne i fondamenti tecnici. Qui il superamento delle eccezionali difficoltà esecutive di certe partiture, non a caso ignorate da tutti i repertori concertistici, assume il valore di una poetica, e il raggiungimento dell'abilità tecnica ha il pregio di una conquista morale.


Con questi dischi, coll'invitare a questa ricerca, desidero dimostrare come la tradizione virtuosistica sia ricuperabile, e come essa possa condurre alla musica classica gran parte di un pubblico che ad essa si ritiene estraneo. Così il teatro barocco può tornare ad essere quel luogo di straordinaria creatività e versatilità che, come ha potuto dar vita ed energia all'intero Ottocento musicale, può offrire molto al nostro inquietante penetrare in un nuovo millennio.

 

Claudio Ronco,
Venezia, luglio 1996

 

 

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