«L'idea di una visione solo udibile affiora nella tradizione ebraica, tra i bagliori della teofania biblica, con l'espressione paradossale "e tutto il popolo vedeva le voci..." (Es. 20.18), luogo nel quale l'invisibilità dell'immagine divina viene compensata dalla percezione visiva della voce e resa possibile da un vertiginoso salto di intensità e di concentrazione.
Il tempo dell'apparizione non può allora essere altro che un tempo di immobilità, un sabato del corpo e del mondo fisico - un tenersi remoti dai gesti e dai movimenti quotidiani - in cui la quiete sabbatica delle cose prelude all'apparizione della voce e convoglia l'attenzione verso l'interiorità. La visione della voce corrisponde dunque, tanto nell'immaginario biblico quanto nel tessuto dell'arte, a una caligine, a un'oscurità ispessita da ondate successive di ombre. In questo luogo sospeso, dove il fluire quotidiano degli eventi inverte il proprio corso, le dimensioni familiari delle cose mutano di proporzioni e si annulla l'usato prevalere della veglia sui ricordi, gli oggetti consueti perdono a poco a poco di peso e di consistenza, e la loro materia si assottiglia fino a divenire evanescenza. L'attenzione si fa vigile e gli spazi si dilatano gli uni dagli altri fino a trasformarsi in un vuoto. La perdita di consistenza delle cose va a tutto vantaggio della loro essenza sottile: si tratta tuttavia di un processo segreto, cui solo la rarefazione dell'arte può alludere. Questa essenza intima è infatti vuota d'immagini, non ha contorni visibili, benché sia fatta di una sostanza tanto inafferrabile quanto il suono delle parole. |
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