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«L'idea di una visione solo udibile affiora nella tradizione ebraica, tra i bagliori della teofania biblica, con l'espressione paradossale "e tutto il popolo vedeva le voci..." (Es. 20.18), luogo nel quale l'invisibilità dell'immagine divina viene compensata dalla percezione visiva della voce e resa possibile da un vertiginoso salto di intensità e di concentrazione. Il tempo dell'apparizione non può allora essere altro che un tempo di immobilità, un sabato del corpo e del mondo fisico - un tenersi remoti dai gesti e dai movimenti quotidiani - in cui la quiete sabbatica delle cose prelude all'apparizione della voce e convoglia l'attenzione verso l'interiorità. La visione della voce corrisponde dunque, tanto nell'immaginario biblico quanto nel tessuto dell'arte, a una caligine, a un'oscurità ispessita da ondate successive di ombre. In questo luogo sospeso, dove il fluire quotidiano degli eventi inverte il proprio corso, le dimensioni familiari delle cose mutano di proporzioni e si annulla l'usato prevalere della veglia sui ricordi, gli oggetti consueti perdono a poco a poco di peso e di consistenza, e la loro materia si assottiglia fino a divenire evanescenza. L'attenzione si fa vigile e gli spazi si dilatano gli uni dagli altri fino a trasformarsi in un vuoto. La perdita di consistenza delle cose va a tutto vantaggio della loro essenza sottile: si tratta tuttavia di un processo segreto, cui solo la rarefazione dell'arte può alludere. Questa essenza intima è infatti vuota d'immagini, non ha contorni visibili, benché sia fatta di una sostanza tanto inafferrabile quanto il suono delle parole.
La tradizione religiosa ebraica sa tuttavia che dietro l'oscurità si cela una pienezza che è luce, e sa che il percorso dei precetti religiosi conduce fino alle soglie di un dominio in cui le stesse nozioni di luce e di ombra perdono la loro orgogliosa pretesa antinomica. L'empiria artistica sembra invece arrestarsi al di qua della caligine, in uno spazio fisico che diventa un luogo di attesa.
L'arte si trasforma allora nella nostalgia di un punto di confine, una nostalgia che si manifesta nel continuo ritornare (che redime il quotidiano e riempie i silenzi), e che appare come una premonizione inespressa: è come uno specchio inadeguato al proprio compito, è uno spazio chiuso, che si può immaginare come un lacerto di cielo proiettato sulla terra, è l'attesa di un appuntamento con il trascendente, è l'aspettativa di una complicità col divino.

Giulio Busi, ebraista.

«Per un'estetica un po' al di sopra della storia»
(in: Guggenheim Public, an on-going colloquium, Venezia 1997)

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