IL DRAMMMA DEL KOSOVO
Relatori:
- I. prof. Antonio Lattuada, docente di teologia morale presso l'Università Cattolica di Milano
- II. prof. V.E. Parsi del dipartimento di scienze politiche dell'Università Cattolica di Milano e docente di relazioni internazionali presso l'Università di Macerata
Modera dibattito il dott. Domenico Dosa, che. presentato brevemente il percorso seguito dall'Associazione Lazzati per giungere a quest'incontro (dibattiti all'interno del direttivo e di un'assemblea di soci e amici dell'Associazione Lazzati durante la qual è stata condotta anche un'analisi storica dei problemi del Kossovo da parte di don Romeo Peja), indica gli obiettivi che l'Associazione stessa si propone di raggiungere attraverso il dibattito.
Evitata ogni semplificazione ideologica, ( "pacifisti" ed "interventisti"), l'Associazione. attraverso l'intervento dei due relatori si ripromette di trovare una risposta ad interrogativi più profondi e complessi: il ricorso alla forza, l'intervento armato nel Kosovo può essere considerato uno strumento valido per risolvere le controversie? Quali considerazioni si possono trarre da una riflessione sulla "dottrina della guerra giusta" elaborata dal Concilio Vaticano II?
Come può conciliarsi con i principi del diritto internazionale l'intervento armato in Kosovo da parte delle potenze occidentali? I diritti umani violati possono giustificare il superamento del diritto internazionale?
Prof. Lattuada.
Dato il presupposto che le controversie sono ineliminabili dalla storia e considerando prioritario l'aspetto etico del problema, il prof. Lattuada nella sua relazione parte da alcune riflessioni sulla dottrina della "guerra giusta" formulata dal Concilio Vaticano II. In quest'ultima circostanza di guerra diventa attuale il dibattito che si è sviluppato intorno a tale dottrina che si sforza di risolvere i rapporti fra etica e diritto. Al contrario il rifiuto della dottrina della "guerra giusta" porta ad affermare che tutte le guerre sono ingiuste senza distinzione. L'umanità può rinunciare ad un "ordine" legittimato da un principio etico, all'ordine della giustizia, all'ordine del rispetto dei diritti umani, a quella "tranquillitas ordinis" di cui aveva parlato Sant'Agostino?
Si può condannare una guerra necessaria per ristabilire l'ordine inteso in tali termini, l'ordine che mira a ristabilire la pace?
"L'ordine" è un ideale in conflitto con il reale, in conflitto con l'ordine costituito, giacché ogni realizzazione storica dell'ordine è di per sé imperfetta. Tuttavia la "tranquillità" che si può raggiungere nella storia, pur rimanendo comunque un bene, non è identificabile con l'ordine giusto ed è sempre instabile: è la pace negativa intesa come assenza di guerra e diversa da quell'ideale etico che si chiama pace positiva, che rimane una costante tensione.
La pace deve essere difesa e sostenuta dalla forza per poter trionfare, così come la forza deve essere guidata dalla giustizia per non trasformarsi in tirannide ( Pascal ).
La difficoltà è proprio nello sforzo, nel tentativo in fondo utopico di coniugare giustizia e forza. L'ideologia cristiana, preoccupata di garantire una convivenza umana che s'ispiri a questo principio, fissa alcuni principi. Quando fra due mali l'alternativa è ineludibile, si sceglie il male minore, anche se il male minore resta un male e cerca un rimedio più soddisfacente. La legittima difesa, se il non agire comporta o può comportare, tutto considerato, un male maggiore, può giustificare il male minore, può giustificare in alcuni casi il ricorso alla forza. "La scelta del male minore" è espressa dalla Chiesa Cattolica attraverso la dottrina della "guerra giusta".
L'espressione è ambigua e sembra voler giustificare la guerra, mentre in realtà si propone di allontanare il più possibile il ricorso alla forza: la retta intenzione rimane la pace, mentre il ricorso alla forza deve costituire sempre e comunque l'extrema ratio. Ed inoltre, nella giustificazione del conflitto armato, bisogna anche valutare la proporzione, a lungo ed a breve termine, tra il diritto e le conseguenze del ricorso alla forza; bisogna considerare la possibilità di ricorrere all'intervento di un terzo (ad esempio l'ONU) per dirimere le controversie. L'evidenza incontrovertibile della giusta causa non è mai raggiungibile.
Apparentemente è difficile contestare la presenza della giusta causa nel caso della guerra del Kosovo, tuttavia non si può non chiedersi se il ricorso alla forza era veramente l'extrema ratio, se c'era una proporzione fra i danni che sarebbero derivati dall'assenza di un intervento e quelli che sono stati determinati dall'intervento. E' impossibile trovare una risposta univoca a questi interrogativi. I motivi per cui la guerra era inevitabile e le conseguenze dell'intervento sono sotto gli occhi di tutti, mentre si possono solo avanzare congetture sulle conseguenze che ci sarebbero state se l'intervento armato non ci fosse stato. Infine ogni ricorso alla forza deve trovare una propria giustificazione morale nella proporzione, sia complessiva, sia di ogni singola azione militare, tra le conseguenze dell'intervento e quelle del non intervento. Quindi la dottrina della guerra giusta deve rispettare precise condizioni: non deve portare danni non necessari, deve evitare di colpire obiettivi civili e di colpire in modo sconsiderato gli obiettivi militari.
Un forte deterrente, per garantire i principi su cui si fonda la dottrina della "guerra giusta" potrebbe essere rappresentato dall'istituzione di tribunali non solo per i vinti, ma anche per i vincitori. Infine la progressiva adesione della Chiesa ad un modello democratico di stato, ulteriori sforzi per prevenire i conflitti armati attraverso la politica del disarmo, una più equa distribuzione delle risorse, un più equo diritto internazionale servirebbero a rivedere la dottrina della Chiesa Cattolica nei confronti dei conflitti armati.
Prof. Parsi.
Il prof. Parsi articola in vari momenti l'analisi del problema proposto.
a) Diritto nazionale e diritto internazionale . il relatore chiarisce le differenze esistenti tra le due forme di diritto. Il primo poggia su autorità dello stato che , dotate di poteri coercitivi, vigilano sull'applicazione del diritto. Il diritto internazionale invece non fa capo ad alcuna autorità legittima, è un diritto senza stato, è la cristallizzazione di rapporti di forza costituitisi attraverso la storia. Le sue origini risalgono alla pace di Westfalia del 1748, espressione del fallimento del tentativo di riportare all'interno di un ordine la comunità umana. In breve il diritto internazionale preso atto di uno stato di anarchia tenta di intervenire per garantire ordine al sistema fra gli stati, che poggia su un rapporto di forza.
Quindi il diritto internazionale ha un compito di sorveglianza per ridurre le conseguenze negative del disordine e dell'anarchia. Gli stati più potenti, perché più hanno da perdere, operano maggiormente per conservare l'ordine.
b) Confronto fra la guerra del Golfo e la guerra del Kosovo: tra le due guerre esistono profonde differenze. La prima, condotta da stati sovrani contro uno stato sovrano si muoveva nel rispetto delle norme del diritto internazionale e fu preceduta da un'ufficiale dichiarazione di guerra. Invece la guerra del Kosovo è mossa contro uno stato sovrano accusato di aver violato i diritti dei cittadini nel proprio interno. Questa guerra quindi si fonda su un principio " rivoluzionario ", " illegale " rispetto alle norme del diritto internazionale, manca di un'ufficiale dichiarazione di guerra, è negata da tutti, ma di fatto è una guerra, una guerra mossa per comportamenti interni ad uno stato :essa dimostra che la sovranità degli stati non è più un baluardo. In conclusione questa guerra non dichiarata da nessuno, che si fonda sul principio che uno stato, quando infrange il diritto di un popolo non ha diritto a governare quel popolo, è una guerra tra politica democratica e politica totalitaria: i sistemi democratici si fondano sul diritto, quelli totalitari sull'assenza del diritto.
c) Corrispondenze tra obiettivi e mezzi utilizzati: il relatore passa a valutare le corrispondenze tra mezzi e fini dei due contendenti e quindi il rapporto tra obiettivi e mezzi utilizzati per raggiungerli. Nella guerra del Kosovo il principale obiettivo era il rientro della popolazione kosovara nella sua terra, obiettivo raggiunto prima delle stesse previsioni.
Ma vi era anche un secondo obiettivo che era quello di indebolire la potenza di Milosevich: il sistema attuale internazionale è mutato rispetto al passato (fenomeni di globalizzazione nel campo dell'economia e dell'informazione ) e quindi solo un'estensione dei regimi democratici può aiutare a risolvere i problemi internazionali perché le democrazie garantiscono maggiori sicurezze di pace. Mala ricerca di questo nuovo ordine non sarà indolore, anzi nella fase di costruzione sarà meno pacifico. L'auspicio è che esso dia vita ad un ordine più giusto , più giusto politicamente , nel senso che, dichiarati i principi in base ai quali si agisce se ne accettino le responsabilità. Crescendo gli stati democratici si può, partendo dall'Europa, costruire la pace.
d) Era possibile nel caso della guerra del Kosovo ricorrere all'intervento dell'ONU ? : la risposta a questo interrogativo è che si fa cattivo servizio al diritto internazionale contrapponendo un mondo reale ( quello di Milosevich ) a un mondo ideale ( quello dell'ONU ): solo le democrazie sono in grado delimitare i danni della politica e di impedire che gli stati imbrocchino la via del male.
e) Quando si deve intervenire militarmente nelle controversie nell'interno di uno stato o tra due stati. All'interrogativo che nasce dal diverso comportamento tenuto dal mondo occidentale nei confronti dei conflitti che si sviluppano sul pianeta il relatore risponde affermando che si interviene solo là dove è possibile e giusto intervenire, no per cinismo ma perché l'intervento non deve essere un'impresa donchisciottesca ma deve poggiare su reali possibilità.