SARAJEVO 1999: QUALE SPERANZA?
"Ci sono cose in questa guerra, che temo non mi saranno mai comprensibili. Ma forse è anche un bene. Se uno riuscisse a capire proprio tutto di questo inferno, perderebbe la ragione" (Marko Vesovic) (1*)
Vorrei comunicare alcune semplici riflessioni sull'esperienza vissuta questa estate a Sarajevo con un gruppo della Lega Missionaria Studenti(2*) . Dichiaro subito che non intendo fare considerazioni politiche storiche o economiche. Ero partita pensando di scoprire chissà quale verità sul tormentato problema dei Balcani; ho invece capito che la guerra è sempre assurda, ed è difficile sperare e vivere una realtà del genere. Quindi vorrei solo tentare di formulare un pensiero sulla speranza che, malgrado tutto, il male continua a germogliare.
L'esperienza vissuta è stata molto semplice e piccola per quello che riguarda il risultato concreto; l'attività di cantiere, per esempio, si è limitata a lavori più banali, accessibili a chiunque avesse voglia di spendere le proprie forze nello scavare fondamenta o preparare il cemento, sotto la supervisione di alcuni geometri. Allo stesso modo, con i ragazzi e i bambini si trascorrevano i pomeriggi insieme organizzando tornei di calcio, giochi e canti (nonostante la lingua, la comprensione con i bambini è immediata, se si tratta di giocare o divertirsi).
In queste occasioni non c'è la pretesa di realizzare opere o strutture enormi, il fattore peculiare è piuttosto quello di unire a lavori utili la condivisione del tempo con chi ha vissuto il dramma della guerra e dell'assedio, e si sta ricostruendo una vita nonostante gli stenti economici e sociali e i morti, che tutte le famiglie di questa città hanno avuto.
Una tale condivisione richiede semplicemente la presenza, l'amicizia e l'ascolto umile e attento (e per questo non sempre così facile) della realtà, della gente.
Il primo impatto per noi ragazzi dell'Europa del benessere è il panorama esterno dei villaggi della Bosnia, attraversata in furgoni da Spalato a Sarajevo, carichi di medicinali, nascosti dai bagagli. Villaggi abbandonati, case sventrate, tetti bruciati: non è solo la realtà virtuale dei nostri TG, e non è neppure storia di cinquant'anni fa.
E' un pezzo di Europa, oggi nel 1999. Per quanto le opere di ricostruzione abbondino ovunque, accanto alle case nuove, ai tetti ricostruiti, ai piccoli germogli di vita nuova. la guerra parla ancora, in modo impressionante. Parla ancora, specie nei dintorni di Mostar, o in tutta la cintura periferica di Sarajevo, la prima linea, dove più ferocemente si è consumato lo scontro. In quartieri come Stup, Otes, Zuc, i morti si portavano via con i camion, e ancora adesso sono numerosi i campi e i giardini inaccessibili perché minati; dove cresce folta vegetazione, non si può né giocare, né coltivare, ma solo camminare dove camminano gli altri.
Lentamente si comincia a prendere confidenza con l'ambiente e i suoi abitanti ancora fortemente provati. Difficile comprendere ad esempio, che i tram, pochi e stracolmi, sono tornati in circolazione da due anni. Si stenta a credere che esistano zone in cui i poveri di un tempo ora sono poverissimi e aspettano ogni giorno l'arrivo in discarica dei camion pieni di spazzatura della città per trovare qualsiasi cosa da riciclare.
Tuttavia Sarajevo era una città ricca, forse la più ricca della Ex-Jugoslavia, perché Tito vi aveva concentrato tutti i suoi sforzi, per renderla l'esperienza simbolo della federazione, il cuore multireligioso e multietnico della Jugoslavia. Sarajevo non resterà a lungo povera, anche grazie alla pioggia di finanziamenti e agli investimenti tedeschi. Il problema è piuttosto quello della distribuzione di questi beni in prevalenza destinati ai musulmani e ai cattolici croati; i serbi infatti sono praticamente messi al bando. Così anche le case dove vivono profughi o zingari, non sono state ricostruite perché qualcuno ha fatto sparire i soldi. Ancora oggi il quartiere serbo è una sorta di ghetto in cui non arrivano aiuti, la gente ha paura ad inoltrarvisi, diversi anziani hanno passato l'ultimo rigido inverno balcanico scaldandosi con i copertoni delle auto. La guerra lì sembra finita ieri.La pulizia etnica è stata certamente dramma, massacri e torture, ma continua ancora oggi con la chiusura ai membri di altre etnie, la paure e gli incubi dei superstiti, che difficilmente potranno dimenticare il male visto o subito; ogni giorno c'è un morto suicida. Se durante la guerra i cittadini di Sarajevo si aiutavano indipendentemente dalla provenienza ora al bilancio delle vittime, con il dolore della perdita dei propri cari, e con l'avvento di profughi dai villaggi, che non hanno mai respirato l'aria cosmopolita e tollerante della capitale, i muri della divisione si alzano nel silenzio e nell'indifferenza di un'etnia verso l'altra. Ciascuna si sente più vittima dell'altra ma la situazione è difficile per tutti: per gli anziani, i più poveri e trascurati, per gli adulti che cercano di continuare a vivere e ricostruire le proprie case, anche se poi mancheranno molti a riempirle, chi è caduto in guerra, chi è lontano e non tornerà a Sarajevo. E' poi triste sapere che molti dei bambini più grandicelli hanno trascorso gli anni più belli dell'infanzia nascosti in cantina, senza scuola, senza poter giocare all'aperto, se non nel tempo della tregua, durante le pause dei cecchini. Ora sono ormai insensibili al rumore dei carri armati della SFOR, che difficilmente lascerà presto la città, viste le forti tensioni che ancora la attraversano.
Sono momenti difficili soprattutto per i giovani, senza più lavoro (il tasso di disoccupazione è dell'80%). Il problema principale della parrocchia presso cui abbiamo lavorato è quello della carenza di giovani; è certo che se ne vorrebbero tanti e desiderosi di continuare a vivere lì. Tuttavia mi riesce fin troppo facile l'identificazione con molti di loro. Chi vorrebbe costruirsi una casa o una famiglia in questa desolazione? Come restare dove il compagno di banco è diventato il nemico e aguzzino della tua famiglia? Come vivere con l'incubo di tre anni dell'adolescenza passati in casa con le armi di Karazdic piazzate a poche decine di metri dalla finestra?
Si pone il problema di dimenticare e di superare questi drammi e dolori. Come superare il dolore? Come continuare a sperare? Forse l'unica via d'uscita è quella di riconciliarsi, di perdonare, nel cuore. E' questo diviene ancora più difficile da dire. Mi sento terribilmente a disagio, perché possiamo parlare noi di perdono se non riusciamo a dimenticare il piccolo sgarbo di anni fa? Questa gente ha bisogno di pace e serenità, di liberarsi dall'ossessione della vendetta, di perdonare. Ma noi possiamo chiedere questo?
Mi sono persuasa che a Sarajevo, come in molti altri posti, c'è bisogno di tutto, dagli aiuti umanitari ed economici, civili e militari, ai vertici politici e alle conferenze di pace... ma soprattutto c'è bisogno di preghiera, speranza, perdono e amicizia. Nessuno può perdonare il male, se non chi l'ha subito. E' cosa altrettanto buona offrire un po' di speranza, solidarietà e soprattutto pregare il Signore che curi le ferite e le croci nel cuore di ciascuno.
Sono convinta che a Sarajevo molta gente continua a lottare per continuare a sperare. Nonostante l'impatto difficile e duro con la realtà del dopoguerra, questa città mi ha lasciato nel cuore il senso della speranza: oltre al ricordo delle sue colline di croci cristiane e steli musulmane, c'è quello della gente e i volti incrociati durante le spesa quotidiana nel famoso mercato della strage del pane, i cantieri di ricostruzione anche di notte, i bambini in festa per le vernici dei murales dipinti sulle loro case semidistrutte, o per il torneo di calcio sulle rive della Miljacka, i momenti di preghiera nella chiesa ortodossa, o il sottofondo del canto dei minareti durante la messa serale, la festa e la commozione con i parrocchiani di Stup. E' una città che difficilmente si fa dimenticare soprattutto per i germi di speranza, per il suo desiderio di continuare a vivere e a vivere in pace.
(1*) Cfr.Marko Vesovic, Chiedo scusa se vi parlo di Sarajevo. Vesovic, scrittore e giornalista serbo di Sarajevo, ha vissuto con la sua famiglia in città durante l'assedio, è uno dei personaggi che la gente di Sarajevo ammirava di più, attendendo con impazienza i suoi articoli su Oslobodenje, l'unico giornale indipendente , che è uscito tutti giorni anche quando è stato bombardato. Oggi la sede è ancora così come si vede in foto, sventrata dalle granate, è uno dei luoghi simbolo di Sarajevo.
(2*) Dal 1997 la Lega Missionaria Studenti organizza campi di lavoro e condivisione con alcuni quartieri e comunità di Sarajevo, per la ricostruzione di case ed appartamenti, l'animazione di bambini e ragazzi e l'insegnamento della lingua italiana o inglese.