Il lavoro | L'alimentazione | L'allevamento e l'agricoltura | La religiosità |
La vita della Brusuglio vecchia (seconda metà dell'ottocento e primi anni del novecento) era una vita contadina, molto comunitaria. Cellula fondamentale era il cortile, spazio aperto su cui si aprivano i porticati che riparavano le porte delle case, da un lato, le stalle con i fienili dall'altro, e, in fondo, le latrine (gabinetti). Le porte delle case non avevano serrature, si chiudevano solo col "tinivell" (chiavistello) che si poteva aprire sia dall'esterno che dall'interno. In pratica era possibile entrare in tutte le abitazioni senza alcuna difficoltà. Di fatto il paese della vecchia Brusuglio consisteva in una serie di grandi cortili che aprivano i loro portoni lungo i lati della via Manzoni e spesso erano comunicanti tra di loro (vedi planimetria). Nelle case non c'era acqua potabile ma l'acqua si attingeva dalla pompa del cortile (ne esisteva una per cortile), posta sopra il pozzo. Non c'era la rete delle fognature, ma i gabinetti erano costruiti sopra il "pozzo nero" che veniva vuotato sistematicamente per utilizzarne il contenuto come concime, insieme allo strame della spazzatura delle stalle. Spesso i contadini non avevano abbastanza fertilizzante, quindi bisognava comprarlo dai cortili di Milano. Partivano la mattina molto presto, prima dell'alba, con dei carri appositi a forma di botte. Chi comprava questi liquami fertilizzanti, spesso voleva essere sicuro della loro efficacia, quindi ne assaggiava la salmità.
D'estate si cenava, accucciati, appoggiati al muro delle case, lungo la via Manzoni, con la scodella tra le ginocchia. Accadeva così che la via si animasse, la sera, di chiacchiere e di presenze. Nei mesi prettamente invernali, quando il lavoro dei campi veniva sospeso, tutta la vita della "Cort" si svolgeva nella stalla. Infatti, dopo aver governato la casa e le bestie sia da cortile che da stalla (mungitura e ripulitura delle stalle), le donne si dedicavano a lavori femminili: filavano la canapa e cucivano, aggiustavano, ricamavano (la sera alla luce del lume ad olio), lavoravano ai ferri (calze e scialli). Gli uomini durante il giorno riparavano gli attrezzi da lavoro rovinati dall'uso, sceglievano le sementi per la primavera, preparavano il foraggio per gli animali, spalavano la neve nel cortile, facevano eventuali lavori di restauro e solo a sera, quando la luce affievoliva, raggiungevano le donne e i bambini nella stalla, dove tutte le sere veniva recitato il rosario. Era il momento magico: dalle labbra dei vecchi, tutti riuniti intorno al lume ad olio, nel tepore della stalla, uscivano racconti di streghe, magiche ricchezze, benesseri sognati ma il posto principale era riservato alla Storia Sacra e agli episodi più caratteristici del paese. I piccoli così, a bocca aperta, imparavano quelle che erano le basi della loro formazione cristiana e contadina. Era una "scuola" ricca e magica. La domenica pomeriggio, sempre nei mesi invernali, si trascorreva giocando a tombola. Il "vizio" dell'epoca era il tabacco, che però non veniva fumato, ma fiutato da uomini e donne indistintamente e veniva conservato in piccole scatole, le tabacchiere (più o meno eleganti), che ognuno si teneva nelle tasche. Gli uomini (e solo loro in genere) masticavano il "toscano" e alcuni fumavano la pipa.
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Lavoro La popolazione di Brusuglio era contadina. I terreni e le relative case coloniche sino alla fine dell'ottocento erano divisi in tre proprietà: dei Manzoni (poi dei Brambilla), dei Trotti (poi dei Radice e Bongiovanni) e della Parrocchia. I contadini abitavano nelle case coloniche e lavoravano le terre a loro assegnate, pagando l'affitto ai proprietari con la metà del raccolto, che consisteva in: grano, granoturco e bozzoli da seta. Inoltre dovevano prestare ore di lavoro gratuito sul terreno riservato ai proprietari stessi. I terreni di Brusuglio erano ricchi di filari di gelsi che servivano a dare ombra ai contadini nelle giornate di calura, ma soprattutto ad alimentare con le loro foglie i bachi da seta. La ricchezza del contadino consisteva unicamente nel possedere animali da stalla e da cortile. Agli inizi del novecento alcuni contadini lasciano il lavoro dei campi ed entrano come operai nelle fabbriche di Sesto S. Giovanni. Altri cercano lavoro a Milano. Le donne si avviano come operaie al Cotonificio di Cormano (anche bambine di nove anni); più tardi si indirizzano al Calzificio Santagostino di Niguarda o alla Manifattura del Tabacco. Altre trovano lavoro in città come modiste o sartine. Gli operai, che non lavoravano più la terra, non avevano più il diritto di occupare una casa colonica. Un gruppo di operai (vedi foto), pressato dalla necessità di nuove abitazioni non coloniche, fonda una cooperativa edificatrice (anno 1911). Per la costruzione della prima casa, nel 1912, la cooperativa aveva acquistato dalla Parrocchia un lotto di terreno denominato "La Vignetta" e che si trovava all'inizio dell'attuale Via Turati. Da quel nome la cooperativa venne chiamata "Cooperativa Edi-ficatrice LA VIGNETTA". Dopo la prima guerra mondiale la popolazione di Brusuglio è per il 50% contadina e per il 50% operaia. I rapporti tra proprietari e contadini sono cambiati: il contadino paga l'affitto in denaro e si tiene il proprio raccolto. L'alimentazione diventa più varia e meno povera e la vita meno dura. Verso il 1925, il 30% dei terreni di Brusuglio viene acquistato o affittato da grandi orticoltori che provvedono a cambiare il tipo di coltivazione, sostituendo al grano, al mais e ai gelsi le colture di ortaggi. Anche i contadini incominciano ad acquistare il loro pezzo di terreno e la loro abitazione. Le case, che si aprivano nel cortile, erano composte da una grande stanza al piano terra, dove si viveva. Il pavimento era di mattoni o di terra battuta. C'era un grande focolare dove si cucinava con pentole di rame stagnato. La camera da letto era al piano superiore e vi si accedeva mediante la scala esterna comune. Sul pavimento della camera esisteva un'apertura (orbisèll), di forma quadrata di circa 30 cm. per lato, protetto da un coperchio, che comunicava con la sottostante cucina. Non era un passaggio ma permetteva a coloro che stavano in camera di parlare con quelli che stavano nella sottostante cucina e viceversa. Serviva anche a dare aria ai bachi da seta nel periodo dell'allevamento. Il letto aveva il materasso di piume d'oca, che appoggiava, spesso, direttamente su un grande sacco riempito di foglie di granoturco. Le lenzuola e molta biancheria intima erano cucite con pezze di tessuto che le donne di casa filavano personalmente con le fibre di canapa. In una camera vi dormiva tutta la famiglia, che spesso era composta di otto o più persone, sistemate in grandi letti matrimoniali. I mobili consistevano in un grande comò, una cassapanca e un porta catino con relativa brocca. La pulizia mattiniera era assicurata dalla brocca piena d'acqua che si versava nel catino e dal sapone. Durante la notte non si usciva per utilizzare il gabinetto in fondo al cortile, ma ci si serviva dei vasi da notte, che la mattina venivano vuotati. Il bucato si faceva utilizzando dei grandi mastelli di legno pieni d'acqua e l'asse da lavare sulla quale si insaponavano e si strofinavano i panni. Non c'era la corrente elettrica e l'illuminazione veniva assicurata dal lume ad olio e più avanti dalla lucerna a petrolio.
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L'alimentazione era molto povera. La mattina, per colazione, una zuppa di verdura (patate e cavoli con un po' di lardo) oppure latte con pane di segale fatto in casa e portato al forno di Cormano per la cottura. Il pranzo consisteva in una scodella di minestrone di riso o di pasta ed eventualmente una fetta di pane nero. La cena era una scodella di "cagliata" cioè latte lasciato avariare all'aria per qualche giorno: lo strato denso della panna veniva raccolto per farne burro e formaggini. Il siero rimanente veniva utilizzato come cena. In inverno a volte, dopo l'uccisione del maiale, si cucinavano cotenne e verze, e si accompagnava con polenta: ed era un giorno di festa. I contadini non mangiavano le uova, il burro e i polli di loro produzione, ma li vendevano ai benestanti di Milano. I bambini piccoli venivano nutriti con latte materno il più possibile (un anno e anche più). Lo svezzamento veniva fatto con "pappine" a base di latte, pane bianco e zucchero. Spesso le mamme di neonati, per guadagnare qualche soldo da aggiungere al magro bilancio familiare, si prestavano ad allattare oltre al proprio bambino, anche qualche bimbo, figlio di benestanti milanesi. Capitava allora che questo "estraneo" si aggiungesse alla famiglia e vivesse in campagna nella casa della balia e venisse curato più e meglio degli altri piccoli suoi coetanei. Il momento più socializzante era proprio quello dei pasti che venivano sempre consumati fuori casa. Ognuno in famiglia, aveva la sua propria scodella (della dimensione adatta all'età e al lavoro) che si portava o sotto il porticato o sotto il gelso o, in inverno, nella stalla e lì consumava il pasto chiacchierando con gli altri abitanti della corte. La sete si risolveva facilmente: in cucina, appeso ad un gancio, veniva tenuto un secchio colmo d'acqua attinta al pozzo. Chi aveva bisogno usava un grosso mestolo di rame stagnato da cui beveva e poi posava vicino al secchio, per essere riutilizzato dagli altri membri della famiglia, secondo il bisogno.
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Verso la fine di febbraio cominciavano le cure dei campi: la zappatura del grano che era stato seminato a ottobre, l'aratura con l'aratro di ferro trainato dai buoi, la piantagione del granoturco e delle patate. Alla fine di aprile iniziava l'allevamento dei bachi da seta. Ogni contadino riceveva dal fattore un dato quantitativo di bruchi appena nati e li deponeva su un tappeto di foglie di gelso tagliate a striscioline che veniva steso su delle tavolate nell'interno delle abitazioni, generalmente in cucina. Man mano che i bruchi crescevano il lavoro aumentava perché essi avevano bisogno di più spazio e quindi le tavolate venivano ampliate e coprivano tutte le zone a ridosso delle pareti domestiche, tra le quali la famiglia viveva. L'animale diventava vorace e il contadino a questo punto doveva interrompere il lavoro dei campi anche tre o quattro volte al giorno per correre a casa a rifornirlo di foglie fresche di gelso. Quando il bruco era maturo per costruirsi il bozzolo dentro il quale sarebbe diventato crisalide, il contadino gli forniva fasci di rametti secchi (spesso gli steli puliti del ravizzone che era gia stato utilizzato per ottenere l'olio) sui quali l'animale pian piano si arrampicava. Era il momento della pulizia dei bruchi, che spesso con le zampine sporche, non riuscivano a salire. Puliti delicatamente uno ad uno, i bachi riprendevano lentamente la loro ascesa per fermarsi sulla biforcazione di qualche rametto e costruire il bozzolo. Appena i bozzoli erano pronti i contadini li staccavano dai rametti e li portavano in filanda, naturalmente dopo aver fatto la cernita tra quelli perfetti e quelli che, presentando qualche difetto, venivano scartati e dopo aver rifornito il padrone della sua spettanza. Tutto questo lavoro durava circa 50 giorni. Finalmente la cucina veniva liberata dalle grandi tavole che erano servite per l'allevamento dell'animale e la casa riprendeva le sue giuste dimensioni. Le contadine comunque non gettavano via nulla e recuperavano anche i bozzoli scartati in precedenza: essi venivano venduti a poco prezzo a degli acquirenti che passavano nei cortili con dei carretti. Si arrivava così verso la fine di giugno e l'attenzione e la fatica dei contadini poteva tornare di nuovo esclusivamente al lavoro dei campi. Era il momento della mietitura del grano, della battitura delle spighe e della loro pulitura per separare il chicco dalla "pula". Alla fine dell'estate bisognava raccogliere il granoturco ormai maturo: si spiccavano le pannocchie ad una ad una, si pulivano sempre a mano dalle foglie che le avvolgevano, le si metteva nella macchina sgranatrice e, per ultimo, si stendevano i chicchi al sole per l'essicatura. Allora nelle aie, nei cortili e spesso anche nella piazzetta della chiesa, piccoli prati d'oro brillavano accecanti sotto un sole ancora caldo.
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I polli, nella bella stagione, venivano portati nei campi la mattina, chiusi in un carretto a gabbia. Lì venivano lasciati liberi di razzolare e venivano raccolti, la sera, dal contadino il quale non faceva alcuna fatica a richiamare a raccolta il pollame perché questo, al tramonto, si radunava sotto il proprio "casinot"; veniva poi riportato nel cortile. Le oche invece avevano bisogno sempre di un guardiano che le guidasse: compito questo che spettava ad un bambino. Anche i bambini infatti si inserivano in questi ritmi di lavoro: ognuno aveva il suo compito, proporzionato all'età e alle capacità: finito il lavoro giornaliero della scuola, si imparava il lavoro della vita. La presenza costante degli altri coetanei e la sorveglianza benevola degli adulti della "Cort" rendevano meno pesanti i compiti assegnati.La vita della "Cort" era più che mai una vita di gruppo, non solo nei momenti di riposo serale, ma anche nei lavori dei campi e nella raccolta delle messi. Era una vita scandita dai ritmi della natura: le stagioni, il sole e la luna fissavano inderogabilmente il susseguirsi dei compiti. Una vita non frenetica, ma certamente faticosa e sempre affidata alla clemenza del tempo.
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L'impossibilità del contadino di assicurare un esito positivo alla sua fatica, aveva sviluppato un fortissimo senso religioso che pervadeva ogni momento della sua giornata: dalle preghiere del mattino e della sera, ai frequenti rosari recitati collegialmente nella stalla, alle preghiere prima di mangiare. Spesso il richiamo al divino era presente anche nello stesso lavoro dei campi: alla fine dell'estate, quando la messe era matura, bastava una grandinata o un forte acquazzone e il risultato del lavoro di mesi sarebbe andato perduto. Quando le nuvole si ingrossavano nere e minacciose all'orizzonte e la paura era tanta, non rimaneva che il Signore, rifugio e speranza del contadino. Allora il sacerdote si affacciava alla porta della chiesa e con l'acqua benedetta aspergeva i quattro punti cardinali; il sagrestano suonava a distesa le campane: il loro suono "avrebbe rotto le nubi" e avrebbe scongiurato la tempesta. I bambini correvano nelle case, prendevano l'ulivo benedetto alla domenica delle Palme e lo disponevano a forma di croce nel cortile. C'era poi una festa particolare, il 20 gennaio, S. Sebastiano, in cui si benedivano gli animali: il sacerdote sulla porta della chiesa e i contadini davanti ai portoni delle loro "Cort", lungo tutta la Via Manzoni, ognuno con un animale o con il mangime, ricevevano la benedizione. Era la benedizione e l'augurio per l'unica vera ricchezza del contadino, l'unica cosa che gli apparteneva davvero: la mucca, le galline, le oche, per alcuni invece solo gli arnesi da lavoro.
Questa religiosità così totale era strettamente legata alla precarietà del vivere quotidiano, all'insicurezza dell'esistenza. E, in effetti la vita, seppur più semplice e "naturale" di adesso, era tutt'altro che facile e sicura. A ritmi di lavoro estenuanti in certi momenti dell'anno, si accompagnavano un'alimentazione povera e insufficiente, e condizioni igieniche veramente inadeguate. La natalità era altissima e le famiglie veramente numerose, ma solo gli individui più forti e robusti sopravvivevano. Fa impressione, scorrendo le pagine del registro delle morti della parrocchia, notare l'elevatissimo numero dei decessi di bambini:
NATI MORTI DI CUI BAMBINI dal 1851 al 1860 245 172 88 dal 1861 al 1870 232 193 104 dal 1871 al 1880 279 207 123 dal 1881 al 1890 276 172 97 dal 1891 al 1900 251 192 97 dal 1901 al 1910 223 155 43 dal 1911 al 1921 138(*) 118 41 dal 1921 al 1930 191 138 37 dal 1931 al 1940 175 108 17(*) la diminuzione delle nascite è dovuta al periodo della guerra 1915 /18. L'incremento della popolazione è proporzionalmente inverso: su 600 abitanti esistenti dal 1851 al 1860 figurano 245 nascite: su 900 abitanti esistenti dal 1931 al 1940 figurano 175 nascite. Capitava molto frequentemente che di sette/otto figli nati solo due o tre riuscissero a diventare adulti. Le cause di morti infantili erano imputabili ad una insufficiente difesa del fisico che portava a malattie che ora sono facilmente guaribili, ma allora risultavano letali: gastroenterite, polmonite, vermi, pertosse.
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Anche l'esistenza dei bambini si inseriva nella tradizione di una società fortemente determinata dai ritmi naturali, dove non erano previsti intervalli che interrompessero lo scandire del lavoro quotidiano e stagionale. La gestante lavorava nei campi sino al momento del parto che avveniva sempre in casa, con l'aiuto delle donne di famiglia o della levatrice. Appena nato il bambino veniva coperto con una fasciatura stretta che lo avvolgeva completamente dal collo ai piedi: le braccia e le gambe non avevano nessuna libertà di movimento. Solo la testa poteva muoversi liberamente. E questo rispondeva ad una precisa esigenza: infatti appena la mamma riprendeva le forze, tornava a lavorare in campagna e portava con sè il neonato, trasportandolo in un cesto. Lo depositava ai piedi di un albero, ogni tanto gli dava un'occhiata e lo prendeva tra le braccia, interrompendo il suo lavoro solo, al momento della poppata. Era quindi necessario per la loro stessa incolumità che i neonati stessero immobili. Inoltre si pensava anche che il fasciare strettamente insieme le gambine dei neonati contribuisse a farle crescere diritte e perfette. Quando il piccolo cominciava a reggersi sulle gambe lo si metteva "in del scàgn", una specie di girello fisso, senza ruote, di legno dove il bimbo non aveva la possibilità di camminare, ma solo di allenare le sue gambine e reggere il peso del corpo. Davanti gli si metteva una sedia con qualche oggetto di casa rumoroso e resistente con il quale giocava. Non esistevano tettarelle e ciucciotti: quando il bambino piangeva la mamma prendeva un pizzico di zucchero lo avvolgeva strettamente in una pezzuola bianca ben pulita, inumidiva il tessuto con un po' d'acqua e lo faceva succhiare. Man mano che il piccolo cresceva la sua vita si svolgeva, come quella degli adulti di famiglia, prevalentemente all'aperto, nei campi e nella Cort. Lì, mescolato con un gran numero di coetanei imparava istintivamente, senza bisogno di grandi attenzioni, a muovere i primi passi nella vita: giocava, parlava, litigava, risolveva i suoi problemi di bimbo, cantava, imparava i primi piccoli lavori nell'orto e nei campi. E a sera, nella stalla, dopo la preghiera, entrava nel mondo fiabesco della tradizione contadina. Con il crescere dell'età i compiti affidatigli dagli adulti si facevano sempre più numerosi ed impegnativi ed il tempo libero, soprattutto nel periodo scolastico, si riduceva sensibilmente. I bambini contadini non possedevano giocattoli e probabilmente non ne sentivano nemmeno la mancanza: il loro gicattolo era tutto ciò che la natura offriva, i loro giochi si svolgevano tutti all'aperto ed erano fatti di libertà, di corse, di grandi spazi. Divertimento invernale erano "i scàrlighett" che venivano costruite dai ragazzi ammucchiando la neve al centro dei cortili o sulla Via Manzoni. Dalla cima di queste montagne di neve i ragazzi, seduti ognuno su di un badile, si lasciavano scivolare giù formando una pista che attraversava tutto il cortile. La neve a Brusuglio cadeva abbondantemente tutti gli anni e vi rimaneva tutto il mese di gennaio e spesso fino alla metà di febbraio, perciò "i scàrlighett" venivano mantenute in funzione per tutto quel periodo. In estate giocavano a "scôndes" (nascondino) e vi partecipavano tutti i ragazzi del paese, grandi e piccoli, maschi e femmine e il gioco durava diverse ore. Inoltre si giocava "ai quâter càntôn", "a brusiga" gioco che si eseguiva a turno saltando su un solo piede e spingendo un piccolo ciottolo si seguiva un percorso tracciato per terra. Saltavano la corda disputandosi il primato tra chi riusciva a saltare più a lungo senza sbagliare. I loro giochi erano sempre di gruppo. Era un gioco anche aiutare gli adulti in qualche lavoro. Tutto sommato sarebbe stata un'infanzia felice anche se povera, la loro, se non fosse stata continuamente minacciata dalle malattie che avevano spesso ragione di un fisico gracile e non alimentato adeguatamente. Anche gli abiti dei bambini rispecchiavano la semplicità o meglio la povertà della loro esistenza: come gli adulti possedevano un guardaroba estremamente limitato consistente in genere esclusivamente in alcuni grembiulini, un paio di zoccoletti per i giorni feriali che venivano sostituiti, la domenica, da stivaletti di pelle e un fazzolettino per la testa: tutto questo per le bambine. I maschietti indossavano pantaloni (corti o lunghi secondo la stagione) e camicie o giacchettine: di solito, sia gli uni che le altre erano troppo larghi e abbondanti e non in previsione di una futura crescita, ma perché ereditati dai fratelli maggiori. Al tutto si aggiungeva, in inverno, un berrettino (o una cuffia per i più piccoli) per riparare la testa. I bambini di città differivano notevolmente dai piccoli contadini di Brusuglio: la maggiore agiatezza economica permetteva anche a loro, come ai genitori, di vestire con cura e, a volte, con ricercatezza. Di moda era, ai primi del novecento, l'abito alla marinara dal collo tipico ricadente sulle spalle.
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Elemento tipico delle contadine lombarde dell'ottocento era la "sperada", raggiera che si portava tra i capelli composta da spilloni d'argento. Aveva, oltre che un valore effettivo anche un'importanza simbolica perchè era il "pegno" dato alla sposa da parte della famiglia del marito. Insieme alla fede d'argento e agli orecchini costituiva l'unica ricchezza delle donne contadine. Gli spilloni della "sperada" venivano infilati in un piccolo cerchio coperto dalle trecce e fermato dietro la nuca come un piccolo chignon. Era un'acconciatura molto elaborata che richiedeva tempo e sempre comunque un aiuto esterno. Sciogliersi i capelli per pettinarli non era quindi una cosa che si potesse fare molto frequentemente: avveniva in genere una volta la settimana. Inoltre la "sperada" non era nemmeno molto comoda da portare, soprattutto la notte, perchè impediva il libero movimento del capo. Però nessuna sposa vi rinunciava, dato che essa rappresentava la dote data dal marito. Quanto agli abiti delle donne di Brusuglio, durante l'ottocento, erano molto semplici: una gonna lunga a fantasia ( la sòtâna), una camicetta (el corpètt), un tipico scialletto incrociato sul davanti ( la lusia) e, sopra la "sòtâna" un grande grembiule che la copriva per intero. La testa era coperta da un fazzoletto (el pànètt), che nelle funzioni religiose veniva sostituito da un grande scialle nero. Questi erano gli abiti dei giorni normali, ma durante le feste si indossava il vestito "buono", composto anche quello da gonna e camicetta. Durante la settimana si cambiava frequentemente solo il grembiule. Ai piedi si calzavano zoccoletti di legno durante i giorni feriali, ciabatte di pelle nera ( i sibrêtt) nelle feste. Gli uomini durante la settimana portavano una camicia bianca di cotone su pantaloni scuri e sopra la camicia il gilê, anche durante la stagione estiva. Nei giorni di festa anch'essi usavano il "vestito buono", quasi sempre scuro, la camicia con il colletto alto inamidato e la cravatta. D'inverno indossavano camicia di flanella e, sopra, un davantino di cotone bianco, rigido di amido, che veniva agganciato con un bottone ai pantaloni e che faceva la figura di una bella camicia di cotone. Sia d'estate che d'inverno, durante la settimana e nei giorni di festa, non poteva mancare nell'abbigliamento maschile il cappello. Nella bella stagione i giovanotti esibivano con orgoglio la "màgiostrîna", un piccolo cappello di paglia, e la "giànêta", un sottile bastone da passeggio con l'impugnatura a pomo: segni di ricercatezza e di distinzione. Nella stagione fredda gli uomini si coprivano con una grande mantella di panno (el tàbârr), le donne usavano gli scialletti e un fazzoletto più pesante per ripararsi il capo. La povertà dell'abbigliamento comunque era compensata da una notevole ricercatezza nella biancheria. Il vanto di ogni donna infatti era la "dôta" che portava al matrimonio: lenzuola, asciugamani, biancheria intima, camicie da giorno, tutto in tela di lino filata in casa e sapientemente ricamata, durante i lunghi inverni, nella stalla alla luce del lume a petrolio. I "signori " di Milano invece vestivano in ben altro modo: abiti eleganti, tessuti più ricercati, gonne ampie, grandi cappelli elaborati, il tutto abbellito poi da un tocco di ricchezza: ciondoli, spille, collane e catene d'oro per gli orologi da taschino. Nel primo novecento anche l'abbigliamento dei contadini comincia ad essere più curato. Questo perchè inizia uno spostamento della popolazione verso la città dove si poteva trovare lavoro nelle fabbriche e nelle sartorie. Il contatto frequente con Milano ha procurato a Brusuglio le prime novità, i primi cambiamenti, le prime modernità. L'estrema semplicità tipica di tutto il vestiario femminile caratterizzava anche gli abiti da sposa. Alla fine dell'ottocento i vestiti da sposa si differenziavano dagli abiti comuni solo nelle rifiniture ricche di passamanerie, e nella migliore qualità dei tessuti. Più avanti, nei primi del novecento, si caratterizzano per un gran velo, lungo e bianco, sopra un abito particolarmente elegante. Ma soltanto poco prima della guerra nasce l'usanza, sostenuta da una maggiore agiatezza economica, di indossare un abito bianco confezionato appositamente ed esclusivamente per il matrimonio