Posto all’estremo meridione
della Sardegna, il Territorio
del Comune di Teulada è uno dei più vasti dell’Isola:
ben 23.967 ettari, che a S e SO trovano i propri confini naturali col mare, a O
e NO col Sulcis, a E con il territorio del comune di Pula, e a SE con quello di
Domus de Maria.
Prima di passare alle vicende
paesane che dalla Preistoria si sono succedute fino ai nostri giorni lasciando
non poche tracce, ci sembra doveroso accennare brevemente alla geomorfologia
del territorio di Teulada.
I terreni teuladini sono tra i
più antichi dell’isola: risalgono
infatti al Paleozoico e, precisamente, al Cambrico Medio o Acadiano e sono
litologicamente costituiti, dal basso in alto, da scisti arenaci, da calcari o
dolomie, da calcecisti argillosi e micacei.
Questi terreni sono stati
sottoposti in tempi relativamente più recenti (nel terziario) ad intensi
movimenti di frattura, segnalati dalle creste di porfido, granito e quarzo che
si insinuano tra gli scisti Paleozoici: movimenti di frattura “a maglia” che
avrebbero causato lo sprofondamento della Sardegna Sud Occidentale.
Per chi, da Cagliari, si
immettesse nella statale 195, una volta superato il paese di Domus de Maria,e
dopo il valico Nuraxi de Mesu (quota 301 m s.l.m.), si presenta lo spettacolo
dell’ampia vallata sulla quale si distende il paese di Teulada.
Il paesaggio è vario: sulla
desta si stagliano i graniti che culminano con il Monte Maria, a sinistra
dominano le arenarie accedine sulla quale è incisa la valle di Teulada. Il
paese fu edificato per gran parte sulle alluvioni del Rio Launaxiu.
Questo corso d’acqua prosegue
poi verso SO e all’altezza di Sant’Isidoro curva verso S per immettersi nel
mare del Porto di Teulada dopo aver formato, con le sue alluvioni, la “Tuerra”.
Tuerra, lo stagno e il Porto sono incisi tra i graniti di
Monte Idu a O, e le arenarie cambriche a Oriente,che si prolungano per tutta la
costa fino alla pianura di Chia, già oltre il territorio di Teulada. Dopo Capo
Malfatano predominano comunque i graniti.
All’interno, appena usciti dal
paese, vi sono le formazioni calcareo dolomitiche del M. Calcinaio e di Punta
Sardoru.
Il calcare riaffiora poi nel M.
sa Palma, poco dopo il bivio per il porto, e ancora lo si ritrova nel M.
Lapanu, Punta de Su Portu, Porto Scudo ed infine nel Capo Teulada.
Calcare – si sa – è come dire
carsismo, ed uno dei fenomeni più studiato nell’ambito di quest’ultimo è quello
delle formazioni speleologiche.Attualmente si conoscono per il territorio di
Teulada circa 25 grotte, per la maggior parte poco sviluppate in lunghezza e in
profondità data la scarsa potenza del calcare. Sono tutte grotte che, per
quanto entrate nella maggior parte nella loro fase senile (ricordiamo che la
loro formazione risale al cambrico superiore) si presentano ricche di vita: si
conoscono, infatti, varie specie di insetti e diversi tipi di muffa che
provengono da esse.
Noi ne prenderemo in considerazione
una in particolare, e precisamente, la grotta del m. sa Cona.Appena ad un
chilometro a SO dal paese, vicinissima alla strada che conduce al porto, la
grotta è difficile da trovare per chi non ne conoscesse la precisa ubicazione,
in quanto il suo ingresso è talmente ridotto da permettere appena l’entrata di
una persona. Una volta entrati, si procede a fatica per una decina di metri e,
sulla destra, si apre un piccolo anfratto che fu sfruttato in età nuragica come
luogo di sepoltura.
Nello stretto e basso corridoio
che funge da ingresso, tra la terra nerastra del pavimento, biancheggiano
numerosi resti di ossa lunghe e di cranio umani accompagnati da ceramiche
d’impasto nuragiche che una volta fungevano da corredo funerario.
Procedendo ancora verso
l’interno, il soffitto si rialza notevolmente, tanto da permettere una
posizione meno scomoda al visitatore, fino a sollevarsi oltre i 3 metri, e si
complica pure la stesura della grotta con ramificazioni laterali che almeno nel
primo tratto sono sempre interessate da deposizioni di età nuragica.
Una decina di metri più in alto
si trova l’imboccatura di un’altra cavità, già sfruttata nell’ultima guerra per
costruirvi un fortino, che ha restituito materiali riconducibili ad orizzonti
della cultura prenuragica di Bonnannaro.
Fino a questo momento è l’unica
segnalazione che abbiamo riguardo al
Prenuragico. La mancanza di altri dati sulle culture prenuragiche nel
territorio di Teulada – del resto variamente e riccamente distribuite in tutta
l’isola – va attribuita alle lacune della ricerca scientifica, tanto più gravi
quando si pensa all’azione molto più spedita e sicuramente dannosa dei
“cercatori di tesori”.
D’altro canto, che l’habitat
teuladino fosse congeniale all’insediamento umano preistorico è dimostrato
dalla congrua presenza di numerosi nuraghi nel territorio. Un calcolo sulla
densità ci da una cifra compresa tra 0.1 e 0.35 per Kmq. E’ una cifra che, per
quanto approssimativa, ci può dare alcune utili informazioni. Si può dire che
si tratta di una densità media; infatti, abbiamo cifre molto più alte per la
Sardegna centrooccidentale. Ma la densità è notevole se la si considera con i
dati che abbiamo per le restanti regioni della Sardegna meridionale.
La disposizione delle torri
nuragiche – essendo queste torri di difesa – segue la morfologia del territorio
ed è chiaramente volta a proteggere le vie naturali di penetrazione verso
l’interno.
Così, sembra di vedere una
catena difensiva che corre poco più a O dell’attuale confine orientale del
comune, volta a difendere la vallata che dal valico di Nuraxi de Mesu porta
all’attuale paese. Simile è il sistema difensivo occidentale a difesa delle vie
di penetrazione dal Sulcis.
Così è altrettanto interessante
la disposizione dei nuraghi che stanno a N del Porto di Teulada e che proteggono la via che,
seguendo il corso del Rio Launaxiu, porta verso l’interno. Tra questi, doveva
avere una funzione di avamposto il nuraghe S. Isidoro, ormai quasi
completamente distrutto: un nuraghe complesso costruito con tecnica veramente
“ciclopica”.
Già sul finire dell’Età del
Bronzo (XII sec. a.C.) le coste sudoccidentali della Sardegna vedono approdare
naviganti provenienti dalle coste orientali del Mediterraneo e diretti verso le
coste dell’Iberia e della Francia alla ricerca di metalli. Sono infatti
relative a questo periodo le ceramiche micenee ritrovate presso il nuraghe
Antigori a Sarrok.
Nei primi secoli dell’Età del
Ferro, intorno al IX – VIII sec. a.C., le coste sarde sono costellate di
insediamenti Fenici che da scali stagionali vanno trasformandosi in veri e
propri centri stanziali urbani. Nascono così Nora, e forse più tardi, Bithia.
Ad ovest di Bithia è un
pullulare di insediamenti di probabile origine fenicia o quantomeno costruiti
dai Punici che dopo le campagne militari condotte dai Magonidi sul finire del
VI sec. a.C. conquistarono gran parte della Sardegna.
Così, nella regione di Malfatano
– già identificato dal Lamarmora come il “Portus Herculis” degli antichi – sono
state trovate le tracce di un centro abitato suddiviso nelle sue due parti
essenziali: una zona commerciale col porto (da identificare con l’insenatura
occidentale) e i ruderi di un tempio; una zona sacra (il “tophet”) che,
ripetendo la stessa situazione verificata per Bithia nell’isola di Su Cardulinu,
fu costruito nella prospiciente isola di Tuerredda.
Più a O sono state ritrovate, in
località Piscinnì, delle cave puniche per l’estrazione di materiale da
costruzione.
Altre rovine sono state
localizzate a S. Isidoro pertinenti ad un abitato fenicio – punico. In questa
località, ricca di testimonianze che vanno dal periodo nuragico fino a quello
pisano, alcuni vi hanno voluto riconoscere il sito dell’antica Tegulae.
Le tracce della civiltà punica
proseguono ancora nel Capo Teulada (antico “Chersonesus”) e nella regione di
Zafferano.
Nei pressi della torre di Porto
Scudo sono appena evidenti i resti di una fortezza punica costruita con grossi
blocchi, in posizione dominante rispetto al porto ed alla piana di Zafferano.
Per questa fortezza è stata proposta una datazione intorno al VI sec. a.C.
Meno ricca di testimonianza di
età punica è la piana di Ballestreris poco a N di Zafferano.
Dell’epoca romana non restano,
purtroppo, che testimonianze assai scarse:sono quasi inesistenti, infatti, le
opere edilizie di una certa importanza (resti di strade e acquedotti). Se si fa
eccezione per la già citata fortezza in località S. Isidoro, abbiamo resti di
mura presso Rocca Corti, rovine presso “Antigori” e resti di edifici vicino a
Chia. Ci sono rimaste, invece, diverse monete di vari imperatori: Massimino,
Marco Aurelio e Teodosio; una fibula gernierata a becco; alcune tonbe presso la
vetta dell’altura di S. Isidoro e in località Zafferano.
Tegola doveva comunque essere
compresa come tappa nella strada che si snodava lungo la costa occidentale e di
cui erano altre tappe: Chia, Nora e Sulci. Tuttavia, dove passasse precisamente
la strada non ci è dato sapere; né in agro di Teulada, per ora, è stato trovato
alcun miliario.
Del resto, si sa per certo che
il centro che oggi si chiama Teulada e che nel corso della storia spesso ha
cambiato nome, ha mutato molte volte anche sito. Ricostruire gli spostamenti
urbani nel tempo sarebbe compito di intense campagne di scavo, che finora non
hanno potuto aver luogo soprattutto per problemi di natura economica, ma anche
militare, essendo una vasta zona del comune teuladino – soprattutto costiera –
in regime di servitù militare.
Sappiamo comunque che il centro
di Tegula nel Medio Evo fu abbandonato a causa delle incursioni saracene. I suoi
abitanti preferirono ritirarsi nell’interno, in un luogo più sicuro, nel
territori di S. Isidoro, alle pendici di un sistema montuoso boscoso e fertile.
Nel ricordo comune rimane solo
un nome, legato al non lontano promontorio, nome che venne nel tempo e col
mutare della lingua cambiato in Tarlai, Talaro, Taular, Tablada, Teglada e
infine Teulada, dal nuovo centro abitato.
In periodo giudicale la villa di
Teulada fece parte del giudicato o regno di Cagliari, e fu compresa nella
curatoria di Solci o Sucis. Il suo territori – allora – aveva un’estensione
pari a 321.260 starelli sardi ed un perimetro di notevole lunghezza, misurato
in 27.343 trabucchi (il trabucco sardo corrisponde a m 3.15).
Nel 1257 – 58 lo stato cagliaritano
fu abbattuto con la forza da una coalizione sardo – pisana e smembrato in tre
parti: la parte orientale (Ogliasta, Quirra, Sarrabus, Colostri e, forse, la
Barbagia di Seulo con almeno 3/4 del Campidano) fu incamerata dal giudicato di
Gallura; la parte centrale (Gippi, Nuraminis, Trexenta, Dolia e forse, la
Barbagia di Seulo e Siurgus) fu unita al giudicato di Arborea; la parte
occidentale (Cixerri, Sulci, Nora e Decimo) divenne proprietà privata dei
Donoratico della Gherardesca, cittadini pisani che assunsero il titolo di
“Signori della terza parte del Cagliaritano”.
Nel 1282, dopo la morte del
vecchio Gherardo, il territorio dei Donoratico venne così ridiviso: Ugolino si
tenne il ricco Sigerro (oggi Cixerri), mentre il vasto ma desolato Sulcis, con
Nora e Decimo, andò al figlio di Gherardo, Bonifazio. I discendenti di questi
due rami, divennero, così, “Signori della sesta parte del Cagliaritano”.
Dopo la battaglia della Meloria
(1284) e i torbidi pisani ad essa succeduti, Ugolino fu rinchiuso nella “torre
della fame” dove morì alla fine del 1288 o ai primi del 1289. Il Cixerri passò
quindi nelle mani del Comune di Pisa che già possedeva Castel di Castro
(attuale Cagliari) con le appendici di Stampace, Villanova e Lapola, e
l’immediato entroterra. Possedimenti ben presto perduti dai Toscani nel 1324,
dopo l’assedio aragonese di Iglesias, malgrado i tardivi rinforzi di 32 galee
inviate da Pisa.
Come si sa, il 4 aprile 1297 il
papa Bonifacio VIII per risolvere l’intricato problema della Guerra del Vespro
e per far cessare le secolari lotte fra Pisa e Genova creò un regno nominale di
Sardegna e Corsica (“regnum Sardiniae et Corsicae”) e lo infeudò, per ragioni
politiche ormai note, al catalano Giacomo II il Giusto, re della Corona
d’Aragona (vedi F:C: CASULA, Profilo storico della Sardegna catalano-aragonese,
Cagliari 1982).
Si trattava, in pratica, di una
licentia invadendi guelfa rivolta solo contro i territori sardo – pisani; e
cioè: l’ex giudicato di Gallura che da qualche decennio era in mano al Comune
Toscano.
Giacomo II, dopo ventisei anni
di preparativi diplomatici affidò l’impresa militare al figlio primogenito
Alfonso, il quale sbarcò in Sardegna, a Palma di Sulcis, con una potente armata
il 13 giugno 1323 e pose l’assedio a Villa di Chiesa (Iglesias).
Una volta assicuratosi della
resa totale di Villa di Chiesa (7 febbraio 1324), Alfonso si diresse verso
Cagliari che venne presto assediata. Le navi pisane accorse in aiuto della
rocca si radunarono e si nascosero nel golfo di Teulada, pronte a dar manforte
agli assediati; ma poi alla vista dei legni catalano – aragonesi, non
accettarono battaglia e preferirono ritirarsi. Pisa lasciò definitivamente i
suoi territori oltremarini sardi il 9 giugno 1326.
Per circa trent’anni comunque le
antiche curatorie Sulcis, Nora e Decimo rimasero sotto la giurisdizione feudale
dei conti di Donoratico, fino a quando il giovane Gherardo della Gherardesca
rimase coinvolto nel dissidio tra il regno di Arborea, i Doria e la Corona
d’Aragona, causato dalla difficile coesistenza nell’isola delle entità statuali
menzionate.
Durante l’assedio aragonese di
Alghero, nel 1354, Gherardo venne catturato proprio a Decimo da Pietro de
Atzeni, capitano arborense, e condotto prigioniero ad Oristano dove venne
convinto dal giudice Mariano IV de Bas-Serra alla sua causa nazionalista.
Liberato nei primi mesi del 1355 morì subito dopo, ed i suoi beni furono
confiscati da Pietro IV d’Aragona, detto il Cerimonioso.
Quando il 10 marzo 1355 Pietro
IV il Cerimonioso convocò a Castel di Castro il Primo Parlamento del regno di
Sardegna e Corsica, Tegula (o Teulada) vi mandò i propri rappresentanti come
segno della sua ininterrotta importanza. Risale a quello stesso anno il primo
documento che ricorda Teulada nella variante Teulaì: è il documento del 19
novembre 1355 di Olfo da Procida, governatore aragonese di Cagliari, che nomina
Antioco Desi, “de villa de Teulaì”, esattore di derrate.
Sempre in quell’anno la villa fu
concessa in feudo dal re al catalano Bartolomeo Ces Pujades. Poi, di essa non si
sa quasi più nulla perché nel 1364 la Sardegna ripiombò in un clima di guerra
generale che terminò, in pratica, il 29 marzo 1410 con la sconfitta del
giudicato d’Arborea e dei Sardi nazionalisti, e, per questo, molti paesi si
spopolarono e scomparvero senza lasciare ricordo di se negli archivi.
Inoltre, nella seconda metà del
secolo XV erano ripresi sulle coste sarde gli attacchi dei pirati barbareschi
dell’Africa (che non si ripetevano da quasi mezzo millennio), ed il litorale
dell’antica villa di Teulaì ne soffrì in modo particolare. Infatti nella
“Chorographia” di G:F: Fara, scritta attorno al 1570, risulta che Teulaì in
quel tempo è già villa distrutta, ed è localizzata presso la confluenza del
fiume che viene dal Sulcis (“Sa Stoia”) e quello che viene dal territorio di S.
Ambrosu (“Leonaxiu”). Questa confluenza avviene presso S. Isidoro.
Si ritiene che la chiesa di S.
Isidoro sia stata la sede parrocchiale dell’antico villaggio abbandonato a
causa delle continue incursioni barbaresche e ricostruito in una posizione più
interna e sicura, con l’attuale nome di Teulada, in un periodo imprecisato ma
in piena era spagnola iniziata con l’unione dei regni d’Aragona e di Pastiglia
nel 1479.
Ancora verso il 1580, come
scrive il Fara,tutta la regione era tristemente deserta. Sappiamo tuttavia che
la flotta di Carlo V (o I di Spagna), composta da 400 navi da guerra – di cui
300 erano a vela e 100 a remi – ed altre 200 da carico, comandata
dall’ammiraglio genovese Andrea Doria si radunò proprio di fronte a Malfatano
prima di partire per l’Africa del Nord, per combattere la pirateria. Le
spedizioni che il sovrano fece nel 1535 e nel 1541 contro i Saraceni di Tunisi
e di Algeri non sortirono risultati importanti, perché nel tempo continuiamo a
trovare notizie di incursioni barbaresche sulle coste sarde. Nel settembre
1606, ad es., alcune località della costa meridionale (Pula, Teulada, etc.)
vennero attaccate da brigantini pirati e saccheggiate.
Nel 1626 venne assalita presso
Capo Spartivento la nave che portava in Sardegna il visitatore generale del
Regno, Martin Carrillo, e si riuscì ad evitare la sua cattura per l’intervento
dell’artiglieria delle torri costiere.
Le navi barbaresche, nei primi
mesi del 1615, depredarono le soste di Capo Pula e delle isole di S. Antioco e
S. Pietro nascondendosi, fra un’incursione e l’altra, nelle piccole insenature
ed in alcune grotte marine della costa.
Da altre fonti sappiamo che nel
1513 il territorio era sotto la giurisdizione del barone Franceschino Rosso, e
che, dopo la sua morte, non avendo lasciato eredi, i diritti feudali
ritornarono alla Corona spagnola.
All’inizio del sec. XVII il
feudo fu messo in vendita e quindi acquistato dal barone Pietro Porta con atto
dell’8 marzo 1603, dietro versamento di 3000 lire sarde (ne fa fede l’atto
conservato nell’Archivio di Stato di Cagliari). Costui era un mercante
cagliaritano intraprendente ed attivissimo. All’intuito ed all’innato senso
degli affari univa spirito d’iniziativa e qualità organizzative non comuni. A
lui si devono sistemi di pesca e di sfruttamento che dettero lavoro e
condizioni di vita migliori agli abitanti della zona. Avendo scoperto il
passaggio dei tonni, avendo fatto costruire delle tonnare che contribuirono in
larga misura all’economia di Teulada. Inoltre, egli è ricordato per aver
ottenuto dal re l’autorizzazione a costruire le torri di “Piscinnì”, Porto
Budello” e “Porto Scudo”.
Privo di eredi maschi, il 3
ottobre 1620 il barone cedette i diritti della villa alla figlia donna
Caterina, la quale gli portò in dote a Salvatore Sanna al momento del
matrimonio (4/2/1621).
Intanto, il territorio, nonostante Pietro Porta avesse
animato le coste col fervore delle sue attività, rimaneva spopolato. Ad
allontanare la popolazione era ancora
una volta il timore delle incursioni saracene, che la costruzione delle torri
non era valso completamente a fugare. Proprio per questo Salvatore Sanna chiese
ed otenne dal re Filippo IV che tutti coloro che andavano a popolare il centro
per un anno, e che avevano contratto un debito superiore alle 300 libbre sarde,
non venissero perseguiti.
In “funtana Crobeta”, rione
omonimo del villaggio, esiste ancora oggi una fonte custodita in un’edicola con
volta a botte. Sul frontone è scolpita una data mutila, leggibile fino a
qualche decennio fa: 163…: Teulada, dunque, al più tardi nel 1639 esisteva già
in quel sito.
Alla morte di Salvatore Sanna il
feudo passò al figlio Agostino (con sentenza del 23 giugno 1646); dopo di lui
cambiò di proprietà. Dai documento che ci rimangono non sappiamo se Agostino Sanna
sia morto senza lasciare eredi oppure se abbia contratto qualche grosso debito
che l’abbia costretto a vendere i suoi beni. Questo perché, di sicuro, si sa
che il 3 novembre 16667 il feudo fu posto all’incanto dal viceré, marchese di
Camarassa.
Il 7 luglio 1688 fu acquistato
da don Antonio Catalan dietro versamento di 26.250 lire cagliaritane.
Quest’ultimo si prodigò per migliorare le condizioni di vita nel suo feudo,
fondando anche una nuova villa denominata “Su Benatzu” che successivamente andò
popolandosi.
Non sappiamo descrivere
ampiamente il suo dominio per mancanza di fonti; si sa, comunque, che nel 1669
il barone subì una condanna per essersi fregiato del titolo e del feudo senza
aver pagato il laudizio di 2000 scudi sardi. Si rifiutava di pagare tale somma
in quanto – diceva – egli l’aveva acquistato ad una pubblica asta e, come tale,
non doveva essere soggetto ad alcun carico. I documenti relativi a questa causa
sono conservati presso l’Archivio di Stato di Cagliari.
In seguito alla donazione avvenuta
il 5/6/1683, il figlio don Serafino Catalan prese possesso della baronia il
27/2/1696.
Serafino Catalan ebbe due mogli
– la prima, Paola de Cutis e, la seconda Atonia Asquer – dalle quali ebbe sei
figlie: due dalla prima e quattro dalla seconda. Il 17 gennaio 1719 fece
testamento a favore delle figlie e dei figli nascituri. Poco dopo infatti,
nacque un figlio maschio, al quale vvenne dato il nome di Antonio Giuseppe (lo
testimonia l’atto di battesimo stilato ad Iglesias il 15/7/1719).
Costui divenne il nuovo barone.
Don Antonio Giuseppe morì senza
eredi, e, nel suo testamento del 7
luglio 1736 lasciò in eredità la baronia alla sorella Maria Grazia. Si era già
da sedici anni in epoca piemontese.
Il nuovo Procuratore fiscale non
riconobbe questa successione e intese revocare il feudo in nome del sovrano
Carlo Emanuele II di Savoia. Nell’affare si ebbe l’intervento diretto dello
stesso re di Sardegna che prese posizione a favore di Maria Grazia lasciandole
il feudo. Così, la baronia potè passare per via matrimoniale a don Gian
Battista Sanjust.
Riguardo alla gestione, le
notizie sul feudo sono scarse. Sappiamo, comunque, che i baroni col diritto di
imporre e riscuotere tasse del territorio loro affidato disponevano di grandi
risorse ed avevano, inoltre, una grande autorità. Infatti, in virtù dei patti
feudali il re non poteva emanare leggi nei territori infeudati ne poteva
impartire ordini diretti ai feudatari ed ai loro vassalli. In caso di guerra,
però, il barone doveva scendere in campo con le sue truppe e combattere al
fianco del sovrano.
Erede di Gian Battista Sanjust
fu il figlio Francesco. Alla sua morte, avvenuta il 5 luglio 1810, il figlio
Enrico divenne possessore di tutti i suoi beni. In armonia con le regole
testamentarie del padre egli versò annualmente la somma di 25 scudi sardi per
festeggiare la Madonna del Carmine; inoltre, pagò la solita “limosina” ai
sacerdoti per celebrare le messe cantate e le processioni.
Ultimo rampollo della casata fu
il barone Carlo Sanjust.
Costui per difendere gli
abitanti del suo feudo dalle incursioni barbaresche, fece costruire una
fortezza all’imboccatura della valle e sulla strada che dal mare conduce al
paese, in grado, se non proprio di far retrocedere il nemico, di preavvisare i
Teuladini dell’imminente pericolo.
Per iniziativa di Carlo Sanjust,
inoltre, fu costruito il nuovo cimitero sull’area che egli stesso aveva donato;
fu abbellita la chiesa parrocchiale e, in seguito a violente pressioni
popolari, fu edificato un ponte per unire le sponde del torrente che
attraversava il paese. Fu anche istituita la prima scuola elementare e furono
realizzate numerose altre opere sociali. Nel 1839 il regime dei feudi fu
abolito da Carlo Alberto e sostituito con i Consigli Comunicativi.
La nostra ricerca finisce qui.
La storia di Teulada, da allora in poi, appartiene alla storia di oggi, ed è
una storia che meglio di noi potranno raccontare i Teuladini che l’hanno
vissuta e la vivono nel ricordo del passato.