Da
ragioniera mancata a scrittrice. Da ragazzona a sex symbol. Da emblema del boom economico
a voce dell'emancipazione femminile... Ritratto di un'icona tricolore. Che oggi compie 60
anni.
«Quell'anima
lunga che sembra un contrabbasso, con quelle carni bianche da gelato alla crema», diceva
di lei il principe Totò. Sabato 25 marzo Mina compie sessant'anni. Il che significa più
di quarant'anni di carriera per la ragioniera mancata di Cremona, bocciata in tutte le
materie al quarto anno dell'istituto tecnico Beltrami, ma destinata a diventare prima il
simbolo del miracolo economico, in seguito della rivolta del costume e dell'emancipazione
femminile, infine della rilassatezza provinciale a cui si è consegnata come scelta di
vita. Ma quante immagini di Mina, in realtà, ci sono state consegnate? Quante
reincarnazioni la Tigre ha provato, ogni volta riemergendo dalle sue cattive storie con
una tenace capacità di risorgere?
Si
potrebbe anche sostenere che lei, Mina Anna Mazzini, famiglia borghese, papà
tradizionalissimo, piccolo imprenditore con moglie piacente, abbia voluto scrivere, alla
lettera, la propria vita: stamparsi addosso un'immagine, trasformarla via via, scomparire
e riapparire attraverso decine di rinascite, ogni volta facendosi portatrice di un
progetto comportamentale e stilistico diverso ma comunque trionfante. Sicché alla fine è
riuscita a diventare effettivamente scrittrice, prima rispondendo alle lettere su
"Liberal" e poi, da poche settimane, con gli editorialini del sabato sulla prima
della "Stampa".
Tanto
per liberare il campo dal tormentone: le scrive lei quelle noterelle spesso così
spiritose, così polemiche, così allegramente sbrigative? O non avrà un ghost writer
magari famoso? In fondo importa poco. Chiunque abbia letto la stroncatura dedicata un anno
fa a Sophia Loren autrice di libri di cucina italiana, fotografata sulla Fifth Avenue
mentre scrive dediche raccapriccianti tipo «buon appetito», non ha potuto evitare
l'ammirazione per l'allegra demolizione di un mito nazionale, e anche per la conclusione
alla Nanni Moretti: «No, il soffritto no!».
Fatto
è che fin dagli inizi aveva eccitato gli intellettuali. Alberto Arbasino aveva dettato il
canone sostenendo che le canzoni di Mina piacevano sia all'elettrauto sotto casa sia
all'insigne critico Roberto Longhi. Ma il segreto della Tigre, per la verità, era
iscritto nella sua capacità di apparire violentemente popolare e nel medesimo tempo
portatrice di uno schema "intellettuale" di modernizzazione, in cui la
sfacciataggine da periferia veniva proposta come snobismo dai tratti originali.
Da
quando esordisce nell'estate del 1958 in una serata informale alla Bussola cantando su
insistenza degli amici uno standard di Don Marino Barreto jr., "Un'anima pura",
e per tutti i primi Sessanta, la divina cremonese, la «plebea sublime», la ragazzona
«troppo alta per una donna» (come scrivono allora i rotocalchi rivolti alle italianotte
dal culo basso), quella tipa con le gambe imperfette dal ginocchio in giù, la zazzera
impossibile, le mani grandi e irregolari, impone il suo modello senza nemmeno impegnarsi
troppo.
Un
nuovo modello di donna
Dice,
con uno dei suoi understatement fenomenologici: «Non sono una cantante, sono una che
canta». Va in giro per i bar a ordinare cappuccino al gin. Butta lì, a Mario Soldati,
che legge solo "Paperino", anche se più tardi farà sapere che il suo autore di
gioventù è stato Pavese, con "Il mestiere di vivere". E che dire di quelle
cotonature monumentali di quelle gonne da superamento del dopoguerra, di quella vocalità
strampalata, del dispiegamento di ugola da urlatrice? Chiaro, fin da allora non è
soltanto un nuovo modello di donna, è un'immagine estetica assoluta che piace a tutti,
compresi, come no?, i suoi coevi adoratori gay, che la considerano un'icona del
travestitismo, dotata com'è di una vena trasformistica innata.
Era
anche, la giovanissima Tigre, l'Italia che sentiva il richiamo da sirena dell'America.
Un'America immaginaria, l'America delle americanate. Urla, violenza strepitosa nella
rottura del codice, comportamenti da teddy boy, la morale fatta scendere sulla terra a
ritmo di cha-cha-cha, l'interpretazione di "Tua" che, come scrisse Gianfranco
Manfredi, diventa, anziché la sessualità viscerale ed erotica di Jula De Palma, ovvero
l'inno della fedeltà coniugale di Tonina Torrielli, un'esercitazione di sesso senza
impegni, con inclusa l'alzata di spalle nel momento del «ti amo»: insomma, una scopatina
senza commitment. Eppure Mina in quegli anni è soprattutto l'immagine delle spiagge e
delle vacanze, dei locali da ballo dove si consumano i flirt estivi, della Versilia con il
profumo notturno dei pini marittimi, l'estate della Bussola alle Focette e della Capannina
al Forte, con certe canzoni con la strofa sussurrata, sillabate languidamente per
accompagnare i lenti guancia a guancia, per favorire gli innamoramenti trepidanti
dell'agosto.
Al
punto che in questa ideologia dell'amore ci casca anche lei, con il Corrado Pani tenebroso
e sposato: un amore senza futuro che però le lascia un bambino, "Paciughino",
stravoluto malgrado l'ostracismo della Rai, la condanna alla proscrizione da parte
dell'Italia bacchettona, la deprecazione dei predicatori come padre Virginio Rotondi in
nome della "morale cristiana", a cui lei risponde a muso duro: «Se non sbaglio,
il Vangelo dice: "Chi è senza peccato scagli la prima pietra"». Per cui
l'esecratore padre Rotondi si sente obbligato a concederle il perdono e a dichiarare di
essere pronto perfino a dare la propria vita per favorire il ritorno della pecorella
smarrita alla grazia di Dio (malgrado quello che anche i tribunali civili chiamano pur
sempre concubinaggio).
Dea
e drag queen
Adesso
il comune di Cremona annuncia iniziative straordinarie per i sessant'anni della sua
concittadina illustrissima. Ma nessuno si illude che lei riapparirà. Come Lucio Battisti,
che si era ritirato in Brianza, lei ha abbandonato le scene, dopo una mitologica
esibizione alla Bussola nel 1978: grassa, quasi deforme, dopo le ovazioni la dovettero
riportare in camerino quasi a braccia, sfatta come una dea caduta. A guardarla, allora,
era davvero una drag queen ante litteram: come sempre precede spontaneamente i tempi, con
le sopracciglia rasate, il trucco lunare, la carnagione bianca fino a una dolorosa
astrattezza, il foulard sulla testa come una Valentina Cortese del tutto schizzata.
Un'immagine, un emblema.
Ma
un emblema di che, non si sa. La sua capacità di alludere è sempre stata superiore al
significato complessivo dell'allusione. Per questo, molti dei suoi ammiratori continuano a
comprare il consueto disco annuale, malgrado l'insignificanza della pubblicazione,
convinti a priori della verità di ciò che disse di lei Louis Armstrong: «La più grande
cantante bianca del mondo». Compreranno anche l'album in cui interpreta i successi di
Renato Zero ("Numero Zero"), indifferenti alla domanda se la regina della musica
italiana possa mettersi insieme con il re dei coatti, gli zerofolli, i sorcini.
Compreranno pure l'annunciato disco di canti sacri in latino, minacciato per fine 2000, a
Giubileo praticamente concluso e quindi con una sospettabile sfasatura di programmazione
nel marketing. Forse intuendo, pur senza confessarlo, che nulla della produzione della
Tigre invecchiata, quei dischi venuti dal nulla con titoli insensati
("Caterpillar", "Sì, buana", "Rane supreme",
"Finalmente ho conosciuto il conte Dracula", "Olio"), dice qualcosa di
nuovo. Mina pubblica album insignificanti cantati benissimo, prodotti con arrangiamenti
convenzionali ed eseguiti con fredda quanto inutile perfezione.
Anche
nel lasciarsi andare, nell'ingrassare pigramente come una foca, nelle interminabili
partite a scopone, nel vivere insomma una vita qualunque, la Tigre rivela la sua
psicologia. Che in fondo, come aveva intuito Pier Paolo Pasolini rispondendo alla demente
inchiesta di infotainment «Sposereste Mina?», è quella di una piccola borghese.
Italianissima, in questo, anzi, un frammento autentico di identità italiana in quegli
anni di passaggio dal proletariato alla classe media: «Ah, le mie povere patatine», si
lamentava davanti ai giornalisti contemplandosi le unghie rosicchiate fino ai
polpastrelli, con un lessico evitabile da filisteuccia lombarda.
Le
è mancata una carica eversiva deliberata: quella che aveva in dotazione, se l'è giocata
in pochi anni, bruciandola tutta in un'esplosione ora allegra ora personalmente tragica.
Quando è diventata il simbolo di una ribellione modernista, scodellando il bambino
"illegittimo", era troppo giovane per stilare manifesti politici. Con il passare
del tempo ha preferito smussare gli spigoli. Il dolore (non dimentichiamo, nel 1973, la
morte negli Stati Uniti del marito, il giornalista del "Messaggero" Virgilio
Crocco, che aveva sposato dopo pochissime settimane di conoscenza; e prima quella del
fratello Alfredo, in arte "Geronimo", scomparso in un incidente stradale) deve
averla convinta che il senso della vita è una lenta accettazione del proprio destino.
Mentre la sua gioventù era stata costellata da amori brucianti, mai confermati e mai
smentiti, dal fusto Maurizio Arena a Umberto Orsini, da Ugo Tognazzi a Walter Chiari, la
sua maturità è stata uno svolgersi di amori lenti, di vicende esistenziali senza troppe
inquietudini: oggi, fra Lugano e Brescia, la sua unione con il cardiologo Eugenio Quaini,
"l'uomo per lei", sembra la premessa più adeguata per poter vivere una
vecchiaia serena, in cui gli unici capricci saranno quelli gastronomici, oltre che quelli
musicali.
Forse
anche per questo sembra impallidita quella genialità istintiva che quarant'anni fa le
suggeriva un anticonformismo senza errori, che la induceva a gesti perfetti, a
strampalerie intrise di talento. Oggi la sua è la perfetta vita della signora che ne ha
viste fin troppe e per questo predilige la normalità. Desaparecida, in realtà appare
continuamente: ha partecipato a trasmissioni radiofoniche, la si vede in foto nei suoi
pepli neri, e poi canta, la si ascolta nelle sigle dello show di Renato Zero. Compare e
scompare con i suoi grandi occhiali, le vaste pellicce, gli ampi tabarri. Il suo romanzo
popolare lo ha scritto in quei frenetici anni tra la fine dei Cinquanta e la fine dei
Settanta. Oggi, il suo scrivere, così come il suo esserci, è l'eco di quelle storie
lontane, di una mitologia costruita con genialità istintiva e amministrata con
prevedibile buonsenso borghese: forse il simbolo perfetto di un'Italia che mentre
rivoluzionava se stessa non immaginava di finire tranquilla nel tinello.
Fenomenologia di una Tigre
Fra mille successi e qualche flop |
La Mina più follemente americana è quella degli esordi, quando si faceva
chiamare ancora Baby Gate e cantava con gli Happy Boys. È il 1958 ed è l'epoca delle
cover di "Be Bop A Lula" e di "When". Lo shock maggiore, però, lo
infligge al pubblico riprendendo una canzone sanremese di Wilma De Angelis,
"Nessuno", che la Tigre mette in repertorio facendone una versione stravolta, in
cui si sgola e si sgozza deformando le parole come non si era mai sentito prima. Siamo nel
1959 e l'esplosiva Mina, mentre il "Daily Mail" annuncia il miracolo italiano e
il "Financial Times" assegna alla lira l'Oscar delle monete, festeggia il boom
urlando alla grandissima. Poi c'è un intermezzo risolutivo: perché durante il
Sanremo 1960 conosce Gino Paoli, che le propone "Il cielo in una stanza".
Successo stratosferico, e dimostrazione che la Tigre non è soltanto un'urlatrice, ma
un'interprete assoluta. Pathos, intensità, stile: ma lei evidentemente non si sente
ancora matura per essere catalogata sotto lemmi accademici, e apre la porta della sua
vocazione "fenomenologica": ecco allora capolavori di voluta demenza come
"Tintarella di luna" (con alcune esaltanti invenzioni di Migliacci: «Tin tin
tin, raggi di luna, tin tin tin, baciano te...», dove i raggi argentei vengono fatti
risuonare come monetine), oppure "Una zebra a pois", e anche "Folle
banderuola", senza dimenticare il delirio iterativo di "Renato".
Canzoni
oggettuali, avalutative, senza né sentimenti né coinvolgimenti. Al massimo, «dammi una
matita, tutta colorata...». E poi la più demenziale di tutte, "Le mille bolle
blu", presentata a Sanremo nel 1961, proterva canzone di Carlo Alberto Rossi in cui
lei ci metteva una sua felicità provocatoria, una improntitudine tutta "orale",
la stupidità sexy del gesto impudico con cui fa "blll" con le dita sulle labbra
(invece, quando voleva, si appropriava di canzoni altrui e ne faceva delle cose
romanticamente sue, come con "E se domani", ancora di C.A. Rossi, in cui gli
incisi parlati, «mettiamo il caso», «e sottolineo se», sono sussurrati da lei sulle
righe basse dello spartito, autentici sospiri del cuore).
Per
ritrovarla così in forma bisogna poi aspettare di sentirla mormorare la strofa di una
bella canzone di Nino Ferrer, "C'est irréparable", in italiano "Un anno
d'amore", 16 settimane numero uno in classifica. Oppure ascoltarla scivolare sulle
note e fra i cori e sui cromatismi di "Se telefonando", un brano vigliacchissimo
ed emozionante di Ennio Morricone del 1966, in cui Maurizio Costanzo e Ghigo De Chiara
firmano un incipit poetizzante: «Lo stupore della notte spalancata sul mar...».
Si
inoltra nei Settanta, la Tigre, ed è un periodo felicissimo soprattutto quando incontra
Mogol e Battisti, che le offrono alcune canzoni di puro romanticismo pulp:
"Insieme", "Amor mio", "Io e te da soli". Canzoni che
contribuiscono a reimpostarne lo stile sui moduli di un pop italiano giudicato dal
pubblico irresistibile. Come irresistibile, nel 1973, è la sua esecuzione di "E
poi" sul micidiale fingerpicking confezionato per lei dall'ex Rokes Shel Shapiro.
Senza citare un hit come "Grande grande grande", scritto da Tony Renis, o la
versione molto divertita di una samba di Chico Buarque de Hollanda, "La banda".
Da
dimenticare invece, perché nessuno è perfetto, tutti i dischi manieristi e museali
pubblicati a cadenza annuale dopo il ritiro dalle scene. E da dimenticare anche l'album
"Mina Celentano", occasione nel 1998 di un incontro nazionalpopolare che avrebbe
meritato almeno Quincy Jones, e invece è stato arrangiato modestamente in famiglia.
Sbancando il mercato, e i supermercati, ma senza aggiungere niente al profilo storico
della Tigre.
E.
B. |
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