UOMINI, GENTI E CULTURE DEL "VILLAGGIO GLOBALE": UNA LETTURA ANTROPOLOGICA DELL'AMBIENTE
di FRANCO PELLICCIONI
(Relazione presentata il 5 Aprile 1991 nell'ambito di un Seminario di Aggiornamento Interdisciplinare per insegnanti, II ciclo, presso il CFSA (Centro Francescano di Studi Ambientali), Università Francescana Seraficum, Roma. Testo modificato per la pubblicazione)
1966 - 2006
QUARANTA ANNI DI PUBBLICAZIONI SCIENTIFICHE E DI DIVULGAZIONE SCIENTIFICA
Una tematica così complessa, drammatica, tremendamente importante e terribile, qual è quella rappresentata dalla crisi ambientale che stiamo tutti vivendo, viene oggi affrontata dal punto di vista di un antropologo culturale. L'intervento odierno rappresenta, per il sottoscritto, un'impresa bidimensionale. Da un lato essa riesce a suscitare in me, impegnato ormai da molti
anni in campi e problematiche del pari urgenti e preoccupanti: l'etnicità, il razzismo, la convivenza urbana, uno spirito che in politichese potrebbe definirsi di "servizio". Dall'altro, rivolgendomi ad un uditorio di persone culturalmente impegnate, mi viene d'obbligo il pensare che forse noi tutti, io come antropologo, ma anche gli altri che si sono succeduti in questa aula ( e altrove: in televisione, sui giornali, ecc...), stiamo parlando, discutendo, dibattendo, quando la problematica ambientale, con i suoi drammatici risvolti per la sopravvivenza nostra e, forse, dell'intero pianeta, incombe minacciosa sopra noi tutti, sopra il mondo. Un moloc che non aspetta altro che di soddisfare le proprie insaziabili voglie togliendoci, poco alla volta, brandelli di "carne": brandelli di terra, brandelli di aria, brandelli di acqua. L'urgenza e la gravità dell'intera problematica è così evidente, anche senza i ripetuti gridi di allarme di un Worldwatch Institute o della Commissione Bruntland, che mi sembra che si stia perdendo anche troppo tempo, continuando a disquisire sul "sesso degli angeli", parlando ancora di incrementare la nostra conoscenza del "fenomeno" attraverso nuovi studi e nuove ricerche. Si dovrebbe invece agire e continuare ad agire, a livello politico, a livello economico, nei fatti come nei comportamenti individuali e collettivi, istituendo norme che vadano però fatte rispettare, e con rigore, da tutti e da chiunque.
Quello che serve ora è che ci sia un concreto fare, un concreto determinare, un concreto operare, anche perché, scusate il mio sfogo, questa problematica è viva da decenni, seppure alcuni suoi aspetti non erano prima conosciuti in tutta la loro drammaticità e pericolosità. E se un tempo non riuscivamo ancora ad intuire la vastità stessa dell'enorme diffusione del degrado ambientale in tutte le nicchie della Terra, anche quelle più remote e sperdute, era anche indubbio come il problema esistesse già, se ne parlasse, se ne scrivesse (e non alludo, qui, ai precursori, ad un Marsh del 1870 e ai molti altri che si sono susseguiti dopo di lui). Quindi, come amo spesso ripetere, se per prepararci a convivere, più o meno "armoniosamente", in una società multirazziale e multiculturale c'è ancora del tempo da "spendere", poiché nella sostanza delle cose ci troviamo di fronte ad una questione che è anche di educazione "al diverso", al rispetto dell'"altro da noi", il tempo che abbiamo a disposizione per affrontare la problematica ambientale è, al contrario, abbastanza limitato. Anche qui dovrebbe giocare un ruolo non secondario l'educazione al "rispetto dell'ambiente", un'educazione però che nelle scuole, sia pure informalmente, ed a volte solo occasionalmente, risale ad un paio di decenni fa, così come l'informazione (e la denuncia) ambientalistica, sia pure saltuariamente, è apparsa sui mass media nello stesso periodo, cioè a partire dagli anni '70. Siamo negli anni '90 ed ancora oggi, purtroppo, sentiamo parlare come "cosa nuova" di educazione ambientale, quando l'ambiente, il suo rispetto, il valore che esso rappresenta, dovrebbe essere entrato, e da tempo ormai, a far parte del patrimonio anche ideale, e comunque, irrinunciabile, di ciascuno di noi. I nostri politici, come i politici di ogni parte del mondo, dovrebbero adottare concretamente, efficacemente, reali misure a difesa del "territorio" (delle acque che beviamo, dell'aria che respiriamo, del cibo che ingeriamo), poiché non è necessario che l'intera foresta bruci completamente per decidersi di fermare l'incendio che vi divampa da tempo. Forse basterebbe spegnere il primo focolaio (o il fascio di sterpi), o la prima macchia ardente o la parte del sottobosco più esposta alle fiamme. Non si può aspettare ancora di vedere come e dove andrà a finire il fuoco: se esso continuerà ad estendersi ulteriormente e in che direzione, se il vento contribuirà a farlo avanzare maggiormente o se invece contribuirà a circoscriverlo, o se qualche piovasco futuro potrà infine spegnerlo da solo.
Ecco, questo mi sentivo di dire oggi, e forse contribuirà, mio malgrado, a ripetere, ed a farvi nuovamente sentire cose in parte già dette, note, scontate, ovvie. Doveva esse questo nostro periodo quello dell'azione, ma a parte qualche trascurabile "attuazione", si fa ancora tanto, troppo poco, mentre si continua ancora a parlare, tanto, troppo! Con ciò finisco questo mio sfogo, che è anche un grido d'allarme o, meglio, il riconoscimento di un'impotenza dichiarata, di fronte a fatti che da solo (ma anche assieme a molti altri, uomini e donne, comunque dotati, come si suol dire, di molta buona volontà) non riuscirò mai a fronteggiare. Penso ai miei figli, ai futuri figli dei miei figli, alle prossime e nuove generazioni che non hanno conosciuto come me il mondo: la città, la campagna, le montagne e i fiumi, come li ho potuti "vedere" e sentire (con l'udito e con l'olfatto) da bambino. Non hanno potuto bere un sorso di acqua cristallina da un ruscello di montagna, non hanno potuto nuotare in un mare pulito, non riescono ad avere un'aria respirabile. Ecco, penso a loro con tristezza e sconforto, mentre dentro di me sale un impeto, neanche troppo nascosto, di ribellione, ma che anche di frustrazione. Vorrei poter agire, fare qualcosa di concreto, ma non posso fare altro che parlare (e scrivere). Altra gente mi sentirà (o mi leggerà), ma quello che si potrebbe e dovrebbe fare ora, non domani, e nemmeno dopodomani (a parte le eccezioni), ma sempre con mille distinguo, le molteplici interpretazioni tra loro discordi delle metodiche numeriche di pericolosità (la soglia di rischio, il fattore di pre-allarme, ecc), è sempre troppo poco, o nulla. Quando c'è gente che è morta, sta morendo e morirà anche, e forse soprattutto, a causa dell'inquinamento: alimentare, idrico, atmosferico...
Due parole ora su questa parte del titolo della mia relazione. Essa è stata ovviamente utilizzata non nel senso che il grande sociologo canadese McLuhan dava alla comunicazione globale. In questo caso mi preme, infatti, sottolineare, con immediatezza, l'interdipendenza, l'interconnessione, le profonde interrelazioni esistenti sul pianeta Terra, sia dal punto di vista politico, che economico e sociale - e così via discorrendo -, come dell'ambiente stesso, malato od "integro" che sia. Si intende porre in rilievo tutte le diverse relazioni esistenti anche nel campo dell'inquinamento, che ha raggiunto dimensioni mondiali (effetto serra, buco dell'ozono), e che si è drammaticamente evidenziato allorché nel 1986 iniziò a vagare, qua e là per l'Europa, la minacciosa e radioattiva nube di Chernobyl (Zanella, 1988). Le frontiere geo-politiche terrestri e aeree, di fronte all'inquinamento, non esistono e non esisteranno mai. Ecco l'interdipendenza e l'interconnessione dei territori e dell'inquinamento, ma anche di razze, culture ed uomini. Ecco l'ambiente unico, irripetibile rappresentato dal pianeta Terra. Ecco perché già molti anni addietro un economista statunitense, il Boulding, definì la Terra "navicella spaziale", sottolineando con ciò come fosse indispensabile, a bordo di essa, un'economia risparmiatrice, non consumistica o alla "cow boy" (Boulding, 1966). Forse un termine alternativo al "villaggio globale" è proprio quello di Space-Ship Earth, o Terra "navicella spaziale", che silenziosamente continua a muoversi nell'immensità grandiosa e meravigliosa dell'universo. Questa navicella spaziale è la nostra unica comune casa.
Ho avuto modo di leggere e di ascoltare alcuni illustri studiosi che vorrebbero che si ponesse più accento sull'ambiente, sulla natura, sul pianeta, piuttosto che sull'uomo. A parte i filosofi, quello che tra loro è stato in un certo senso più spartanamente "franco" è Lovelock (1981) con la teoria del pianeta-Gaia, che avrebbe "personalità" e facoltà rigeneratrici proprie.
Bisognerebbe, dicono, parlare più spesso della natura in quanto tale, cercare di essere più naturocentrici, piuttosto che antropocentrici. L'antropocentrismo, causa di ogni male del pianeta, deve essere superato da un più spiccato naturocentrismo. Ecco una sintesi, solo rapidamente e malamente abbozzata, delle loro tesi. Io vorrei ricordare a costoro come la natura da sola (e quindi anche la stessa "Gaia") non speculi e non cogiti. Tutto ciò che si riflette su di essa: teorie, analisi, disquisizioni, riflessioni, azioni, e così via dicendo, non possono che essere dettate dall'uomo e, quindi, di per sé esse sono antropocentriche. Siamo noi, e solo noi, sia chiaro fino in fondo che, sia pure egoisticamente, pensando alla nostra sopravvivenza (o comunque ad una migliore qualità della nostra vita) ed a quella delle future generazioni, abbiamo finalmente compreso come l'andazzo di rapina, il consumismo dell'ambiente, l'aggressione e, comunque, il non rispetto della nostra "casa", non potevano continuare a tempo indefinito, senza autodanneggiarci, e per sempre! In qualche modo si doveva pur mettere qualche riparo. Anche se per certi versi siamo noi stessi in credito con le passate generazioni, poiché il degrado vero e proprio viene usualmente collegato con la rivoluzione industriale dell'inizio del XIX secolo (Hudson, 1979; Mumford, 1985:555-598), siamo del pari in debito con le future generazioni, le quali non hanno colpa di ciò che è già accaduto, e quindi non possiamo togliere loro quello che già in partenza sappiamo che non riusciremo mai a restituire. Quindi, ecco che un "nuovo" antropocentrismo, dettato però da un più sano spirito egoistico, potrà farci ora considerare, con il rispetto che è forse quasi sempre mancato, la terra sulla quale siamo nati e viviamo.
Per l'etnologia e l'antropologia culturale, che si interessano allo studio della cultura (la "visione del mondo", la Welthanshauung, cioè quelli che in passato si definivano in maniera assai superficiale come "usi e costumi" di un popolo), l'ambiente rappresenta uno dei quattro fattori (gli altri sono costituiti dall'uomo, dal gruppo e dal tempo), che interagendo dinamicamente tra di loro, danno vita alla cultura. Perciò sia l'etnologia (che, particolarmente nel passato, si è interessata principalmente all'analisi, alla comparazione e alla storia dei popoli cosiddetti a "tecnologia semplice" -altrove e in altri tempi già indicati come "selvaggi", "primitivi", "semplici", illetterati od a "tradizione orale" e, perciò, "senza scrittura"-), che l'antropologia culturale, e quindi l'etno-antropologia, utilizzano il loro bagaglio teoretico-dottrinario per studiare sia culture molto "diverse dalla nostra", sia la nostra stessa cultura, euro-occidentale, certamente più complessa rispetto, ad esempio, a quella dei nomadi pastori Masai, nilocamiti localizzati tra Kenya e Tanzania. L'ambiente è quindi, lo ripeto, solo uno dei fattori che assieme agli altri dà vita, in modo unico e, perciò, anche irripetibile, alla cultura di un gruppo, al suo ritmo e percorso esistenziale e culturale.
E' chiaro come gli ambienti che tassonomicamente individuiamo sulla Terra sono i più diversi: dal deserto alle giungle, dalle montagne agli altopiani, dalle pianure alluvionali alla savana semiarida, dalla tundra alle foreste subartiche, ecc. Ciò che va sottolineato è come l'adattamento di un popolo al suo habitat non sia strettamente determinato, correlato e, sempre e comunque, rigidamente condizionato, dal suo particolare impianto morfologico e geo-climatico, bensì dalle sollecitazioni scaturite dalla propria cultura. Sappiamo bene come popoli, che vivono in ambienti simili, abbiano risposto culturalmente (tecnologicamente, socio-politicamente, religiosamente) in maniera più o meno difforme. Pensate per un attimo al "modello" che vi offrono gli eschimesi dell'artico canadese o groenlandese, alaskano o russo, e quanto esso differisca da quello dei Lapponi dell'Europa settentrionale, o dei vari gruppi siberiani (Tungusi, Yakuti, Ostiachi, Samoiedi, Ciukci...). Pensate alla cultura dei Tuareg sahariani e a quella dei boscimani del Kalahari... E' anche chiaro, e Marcel Mauss lo rilevò assai bene in un suo celebre saggio del 1904-1905, basandosi essenzialmente sul famoso libro del Boas sugli eschimesi centrali (Boas, 1974; Mauss, 1981), come l'ambiente circostante determini risposte culturali di un certo tipo: gli spostamenti stagionali estivi e invernali, il tipo di caccia, terrestre o marina, il modulo residenziale, sparso accentrato, il tipo di gestione "politica" comunitaria. Ma è l'ambiente assieme all'uomo (con la sua capacità, le sue esperienze di vita, la sua inventiva), unitamente al gruppo del quale egli è membro, e nel corso del tempo, che danno il là al comportamento culturale. E ciò nonostante il persistere di certa divulgazione scientifica, apparentemente ben curata -per un non specialista- che ama ripetere stanchi clichées relativi a culture "primitive" omeostatiche, in cui si possono ancora rintracciare elementi e tratti culturali che nei secoli ( e nei millenni) non avrebbero subito la benché minima traccia di cambiamento. Ove ciò si fosse verificato, lo è stato del tutto marginalmente. Stereotipi quali: "questo gruppo umano vive come vivevano le tribù dell'età della pietra, come i nostri antenati preistorici" ricorrono sovente in articoli e servizi televisivi. Nel tempo tali "cristallizzazioni culturali" sono state, scusate il bisticcio, sconfessate da molto tempo, cioè fin dall'avvento delle prime ricerche scientifiche sul campo (Boas, Haddon, Radcliffe-Brown, Malinowski), che comportarono precisi riscontri empirici dei "fatti" sul terreno (mi sembra "illuminante" al riguardo il commento del grande Lévi-Strauss: 1960:37). Infatti questi popoli, una volta considerati, e a torto, "senza storia", hanno una loro storia, che forse non è spesso rientrata nel grande alveo della storia mondiale. Quando l'ha fatto, lo ha fatto non da protagonista, ma in modo subalterno e sudditario. La storia di questi gruppi umani, seppure non determinata sulla carta, è rintracciabile nella tradizione, nella letteratura orale, nelle genealogie, nei ricordi di eventi eccezionali spesso infausti: carestie, siccità, epidemie, migrazioni, invasioni, guerre. Gli studiosi di etnostoria ben sanno come affrontare quella "diversa documentazione", senza false congetture od artificiose supposizioni, come ritornare abbastanza indietro nel tempo, facendo rivivere il ricordo degli antenati, quelli mitici e non, degli eroi culturali del gruppo e dei clan, ecc...
Quindi direi che l'etno-antropologia senza pretestuosi "complessi di cenerentola", possa preziosamente apportare un "corpus" enorme e comparato di atteggiamenti culturali e di esperienze esistenziali provenienti da centinaia e centinaia di popoli di ogni parte del mondo, nelle loro estremamente diversificate interrelazioni con l'ambiente in cui vivono. Questo è, secondo me, la validità anche di un approccio antropologico all'ambiente, che pure risulta pressoché assente in Italia allorché si parla di problematiche ecologiche e di inquinamento, di azioni riparatrici sull'ambiente, di VIA (Valutazione di Impatto Ambientale) e di SIA (Social Impact Assesment). Negli Stati Uniti gli antropologi partecipano alle Via da oltre venti anni ed alle SIA da quasi venti (Bisset, 1978), a partire, cioè, dalla promulgazione della NEPA ( National Environmental Policy Act) .
Ricordiamoci che buona parte dell'approccio corrente alla complessa problematica ambientale è viziata, attualmente, da una forte dose di eurocentrismo, neanche troppo nascosto. I giuristi, i filosofi, i sociologi, gli stessi ecologi, a meno che non riescano a operare degli opportuni "distinguo" transculturali, parlano, scrivono, agiscono e fanno agire gli operatori in funzione e secondo l'esclusiva "mentalità" occidentale -e italiana-, in base, cioè, a quelli che sono i dettami che discendono dalla nostra cultura, che ci suggeriscono cosa sia per noi importante, essenziale e urgente fare, disfare, operare. Tutto ciò deriva, infatti, da quella che è la nostra "etica" e il nostro modo di vedere le cose che, scusate se è poco, ha portato, come ben sappiamo, proprio il nostro mondo occidentale superindustrializzato a superinquinare il nostro e anche il mondo degli "altri". Nel prosieguo della relazione avrò ancora modo di ritornare sull'argomento.
Ricordo come l'etno-antropologia non si inventi alcunché, in un periodo in cui molti si sono improvvisati ambientalisti ed ecologi "tuttologi" tout court, e come esista una tradizione di decenni e decenni di ricerche effettuate in ogni parte del globo, che andrebbero utilizzate, assieme a quelle degli "addetti ai lavori" delle altre discipline (ecologi, geografi, ecc). Ricordo ancora come l'etno-antropologia abbia insita nella sua metodica, oltre l'aspetto comparativo e, ovviamente, l'approccio, che è di tipo culturale, anche quello olistico e, quindi, globale (ecco un'attenzione invero non secondaria al fattore ambiente). Per di più essa è interdisciplinare, poiché utilizza il prezioso apporto di altre discipline (come la storia, la storia delle religioni, la geografia, l'urbanistica e, naturalmente, anche la sociologia e l'ecologia, ecc) al fine di cercare di comprendere meglio l'intima essenza delle differenti realtà culturali di popoli a volte molto distanti da noi, come del nostro stesso popolo. E' chiaro che questa facilità o, meglio, questa assiduità e continuità nel tempo, che si instaura nel "contatto" con le altre discipline, e che è insita nel bagaglio teoretico e metodologico di ogni antropologo, possa risultare di estrema utilità nel cercare di capire i fatti, le relazioni esistenti tra di loro, e quindi nel suggerire le eventuali direttive a coloro che dovranno agire nel concreto: politici, amministratori, nonché nel saper rispondere, sempre e solo sui "fatti", all'opinione pubblica che giustamente deve poter far pressione sul "Palazzo", ma con cognizione di causa.
Alle soglie del Terzo Millennio, con l'uomo proiettato verso una più profonda e corretta conoscenza scientifica di altri sistemi stellari, la suddivisione tra natura "costruita" dall'uomo o, meglio, umanizzata e natura "natura" mi sembra superata. Anche non includendo i guasti apportati all'ambiente a livello planetario (effetto serra, buco nella fascia dell'ozono, piogge acide), penso che più semplicemente si possa far rilevare come sugli oceani (e non solo sui mari) o sulle più alte vette montuose, nei deserti, come nell'intrico delle foreste "vergini", nelle savane come nello spazio atmosferico, nelle più paurose e tenebrose profondità abissali marine o sopra i ghiacci dei Poli (per non parlare delle campagne, dei boschi euro-americani, delle limitate "oasi" umide esistenti nel vecchio continente ed altrove, delle zone costiere o, maggiormente, dei villaggi, delle città, delle megalopoli, o di quella che diventerà, in un futuro non troppo lontano, l'ecumenopolis dello studioso greco Doxiadis, ecc...), l'intervento dell'uomo, diretto o indiretto, abbia già modificato, a volte solo impercettibilmente, altre volte - spesso - ben più violentemente, l'ambiente della Terra (Turri, 1983: 71). E ciò può essere accaduto da poco tempo, come da qualche centinaia di anni (vedi, ad esempio, le assai diverse condizioni geo-morfologiche esistenti in Italia e in Europa dal Medioevo - nei secoli VIII-XII - in poi. Cfr. Caracciolo, 1989: 132-14; De Seta, 1989: 91-94; Fumagalli, 1988: 31-33, 49-64, 80-82), altre volte già da migliaia di anni: la desertificazione del Sahara non è un "caso" dovuto esclusivamente ai rigidi cambiamenti climatici avvenuti nel corso dei tempi. Esiste quindi una sola natura, che attualmente è "più o meno" umanizzata. E' solo il grado più o meno elevato della "costruzione" che, al limite, potrebbe essere analizzato, ad esempio: negli agglomerati urbani, o nelle campagne coltivate, sui pascoli di montagna, come nei percorsi spaziali seguiti dagli agricoltori itineranti appartenenti ad un'economia di mera sussistenza, diffusa in buona parte del Terzo Mondo. Questi ultimi adottano la tecnica del "taglia e brucia" (slush and burn). Così facendo si "mangiano" intere foreste o zone di savana, distruggendo ora (e vedremo successivamente il perché) il sottile strato fertile del territorio, allorché la modificazione delle situazioni geo-politiche nel tempo, ha comportato l'aumento indiscriminato della pressione sullo spazio. Certo è che l'artificiosità ambientale ha la sua apoteosi nella città, dall'epoca della rivoluzione urbana nella mezzaluna fertile (o crescente fertile): Mesopotamia, Palestina, Egitto, fino ad arrivare alle immense megalopoli americane, veri e propri formicai umani: quella della costa atlantica, Bos-Wash (Boston-Hartford-New York-Jersey City-Newark-Filadelfia-Baltimora-Washington), e quella della West Coast (San Francisco-Los Angeles-San Diego), per non parlare degli smisurati dormitori - con annessi slums e squatter settlements- del Terzo Mondo, Città del Messico in testa. E' chiaro che la qualità della vita in questi spazi artificiali, che concentrano un elevatissimo numero di esseri umani, è assai degradata e degradabile, senza una "nuova" e più umana rivoluzione urbana. L'urbanizzazione delle campagne derivante dalla sempre più crescente fuga dalle città non è, del resto, la corretta soluzione di questi mali. Non dimentichiamoci, infine, come la città sia stata, da sempre, il crogiolo, il centro propulsore di ciò che filosofi, storici ( e tanti altri), in Occidente, ma anche in Oriente, hanno definito "progresso".
Abbiamo finora parlato dell'ambiente fisico. Vogliamo accostarci ora, solamente per un attimo, alla botanica ed alla zoologia? Se infatti intendiamo conservare per le future generazioni ecosistemi e popolazioni vegetali e animali (e quante specie siano già scomparse dall'inventario biologico è noto a tutti), dobbiamo far ricorso - salvo qualche eccezione qua e là sparsa per il mondo. Ad esempio vietando la caccia "sportiva" o imponendo restrizioni (come in Italia), vietando per legge la raccolta di alcune piante (protette), facendo ricorso, per gli animali, a quelle vetuste istituzioni -che vengono così tenute in vita- chiamate giardini zoologici, o ai meno umilianti zoo-parks, oppure istituendo zone protette, oasi, parchi e riserve animali e "naturali". L'animale selvaggio spesso rimane "selvaggio", e ciò accade anche in Africa, solo quando viene protetto da una positiva, e non distruttrice iniziativa umana: allorchè si combatte il bracconaggio "industriale" (per le corna di rinoceronte e per le zanne d'avorio, come in Kenya e in altri paesi dell'Africa orientale), o quando si impone ad un gruppo etnico un improvviso e brusco cambiamento della tradizionale economia, quasi esclusivamente basata sull'attività venatoria, condannando però questa popolazione, forse, alla fame e all'inesorabile scomparsa dall'"inventario" dell'umanità. Come il Turnbull nel 1964 dimostrò con il caso degli Ik dell'Uganda, da lui studiati sul campo (Turnbull, 1977).
4 L'ambiente e l'uomo: il rapporto natura-cultura
Come ben sappiamo, a parte comunque le solite eccezioni, sia individuali, che comunitarie, il rapporto che da secoli si è instaurato nel mondo euro-occidentale tra natura e cultura, tra l'ambiente e l'uomo, è stato solo di tipo conflittuale: dominazione, sfruttamento, consumo, rapina, sia concretamente, nei fatti, sia negli atteggiamenti culturali (ideali, mentali). Come antropologo non posso che concordare con quello che altri: ecologi, geografi, sociologi, economisti, filosofi, storici, hanno già, e da tempo, individuato come un assioma storicamente determinatosi. Il mio compito adesso è quello di dare voce anche alle culture "altre", cioè ai popoli e alle culture del Terzo Mondo, per vedere più da vicino quello che risulta essere anche il loro rapporto uomo-natura. In proposito va premesso quanto segue: in un mondo superdegradato e in preda a mille angosce e paure esistenziali, qual è il nostro, non possiamo ritenere che i popoli "diversi da noi" (cacciatori-raccoglitori, coltivatori e nomadi pastori) abbiano un rapporto di tipo idilliaco con la natura. Da molte parti e da diverso tempo stiamo assistendo ad una sorta di rinascita del mito del bon sauvage, quasi sempre connesso e mirato, oggidì, all'ambiente che lo circonda, altre volte, come nel caso dell'indio amazzonico, in toto. Alcune osservazioni sono perciò d'obbligo e successivamente, parlando delle problematiche ambientali, saranno riprese e ulteriormente puntualizzate.
Non credo che sia il caso di mitizzare il rapporto uomo-natura, esistente tra i cosiddetti "primitivi", come in altre epoche si è idealizzato lo stesso "selvaggio". Molto semplicemente si può affermare come l'uomo, sempre e dovunque, abbia visto il contesto ambientale come un contenitore da sfruttare onde poter sopravvivere, ma ci sono delle differenze in questo, alcune fondamentali, altre d'importanza secondaria. Vediamo ora quali esse siano, raggruppando i gruppi a "tecnologia semplice" secondo la classica tassonomia che si basa sull'attività economica perseguita :cacciatori-raccoglitori, coltivatori, allevatori.
"Il mio cuore è tutto felice, il mio cuore si gonfia nel cantare, sotto gli alberi della foresta, la foresta che è la nostra casa e la nostra madre" (canto dei pigmei Mbuti dell'Ituri, Zaire: Turnbull, 1978) "La foresta è un padre ed una madre per noi e come un padre ed una madre ci dà ogni cosa di cui necessitiamo - cibo, vestiti, riparo, tepore... e affetto. Normalmente ogni cosa va bene, perché la foresta è buona con i suoi figli, ma quando le cose vanno male ci deve essere una spiegazione" (detto da: Moke, pigmeo Mbuti :Turnbull, 1962:92). |
Le bande - o gruppi con un massimo numerico di individui tale da consentire lo sfruttamento ottimale dell'ambiente circostante- di cacciatori-raccoglitori, sparse in diverse aree del pianeta, esercitano un'attività economica che è di tipo acquisitivo puro e semplice cioè, come potremmo dire noi occidentali, non produttivo ma parassitario. Esse utilizzano ciò che si trova nell'ambiente: radici e tuberi, frutti spontanei e vermi, insetti, miele selvatico e selvaggina. In una parola tutto ciò che è commestibile. Altre volte si aggiungerà, praticata nelle radure delle foreste, anche un tipo di orticoltura semi-spontanea. Il rapporto natura-cultura tra questi popoli (indios amazzonici, boscimani del Kalahari, aborigeni australiani, eschimesi, pigmei asiatici e africani, ecc...) potrebbe essere definito di tipo armonico, anche se certamente non è idilliaco. Come ben sanno gli etno-antropologi, in particolare coloro che hanno direttamente studiato e perciò hanno condiviso, per un periodo della loro vita, il ritmo esistenziale di queste popolazioni, tra le mille difficoltà di ogni giorno: nella caccia, nel reperimento dell'acqua da bere, nei lunghi, pericolosi e faticosi spostamenti, ecc.... Ho detto che si prende ciò che si trova e per farlo bisogna sapere dove, come, quando e che cosa poter prendere...Questi gruppi umani hanno una conoscenza del territorio, delle piante e degli animali, estremamente particolareggiata. Qui etnoscienza ed etnomedicina sono assai sviluppate.
"Hii saa Brii Mau-Yaang Gôo", "abbiamo mangiato la foresta della pietra genio Gôo"...indica a Sar Luk l'anno 1949, o più esattamente l'anno agricolo che va dalla fine di novembre del 1948 ai primi di dicembre del 1949"(...) "Divora, o Fuoco fino al midollo, divora le foglie fino all'anima. Io imito l'Antenato di un tempo, imito la madre di ieri, imito l'Avo di altri tempi. Mi hanno insegnato a soffiare il fuoco dei Rnut: così io soffio. Il fuoco dei Rnoh mi è stato insegnato ad accendere, così io lo accendo...Io taglio il figlio della Pianura, ad imitazione degli Antenati; abbatto il figlio dell'Albero, ad imitazione degli Antenati; dissodo la foresta e la boscaglia ad imitazione degli Antenati" (da G. Condominas -Yoo Sar Luk -, 1960). |
Sono popoli che con la natura hanno un rapporto che dovrebbe essere di tipo conflittuale, nel "concreto". Anche perché la tradizionale metodica che essi impiegano è quella dello slush and burn, cioè del taglia e brucia. E' così che numerosi gruppi umani si "mangiano" letteralmente intere sezioni di foresta o di savana, anno dopo anno, spostando continuamente i propri insediamenti fino a che, alla fine del ciclo, dopo un certo numero di anni, si ricomincerà nuovamente a lavorare sul primo terreno. Il legame che si instaura con la natura è però mitigato da molti fattori culturali: gestione comunitaria dell'attività coltivatrice, dettata dal possesso ( e non dalla proprietà) degli appezzamenti dei terreni. La terra presso questi popoli è la "Madre Terra", cioè là dove sono sepolti gli antenati e dove torneranno gli individui di tutte le generazioni, presenti e future. E' sempre la Terra che darà, anno dopo anno, i buoni frutti dei raccolti. La terra, a causa di questa sua "doppia" sacralità: la terra che sfama i vivi e che accoglie nelle sue braccia i defunti, appartiene di norma alla comunità, all'intera comunità. Solo il possesso rimane agli individui per l'uso esclusivo della coltivazione. Quando la cooperazione internazionale ebbe l'idea di creare nei PVS (paesi in via di sviluppo) il sistema cooperativistico allo scopo di sfruttare più efficacemente i terreni agricoli secondo il punto di vista europeo, non ha fatto altro che sfondare una porta già completamente aperta, da sempre! E' stata invece l'introduzione ai tempi del colonialismo di un sistema economico basato sul mercato e sulla moneta, e quindi anche sulla proprietà individuale, sull'imposizione delle tasse e sull'enorme diffusione della monocoltura, utile al mercato metropolitano, a creare una falla, tuttora aperta, in molte aree del mondo, che solo l'"innovatrice" idea delle cooperative ha contribuito, in qualche modo, a tamponare. Ritornando, sia pure in parte, alle antiche, tradizionali concezioni della terra comunitaria.
Ho sostenuto come questi popoli abbiano un rapporto conflittuale con l'ambiente, anche se le tecnologie tradizionalmente impiegate, nei tempi tradizionali ( a parte i diboscamenti, che non sono cosa da poco, ora), in realtà non recano gravi danni all'ambiente. Si può altresì affermare come i gruppi umani dediti alla coltivazione facciano ricorso alle istituzioni magico-religiose al fine di instaurare idealmente e ritualmente, cioè culturalmente, un rapporto diverso, in fondo più rispettoso dell'ambiente. Le rappresentazioni individuali e collettive dei coltivatori, nonché gli elementi magico-religiosi da essi "attivati", denotano, quindi, una forma rispettosa della natura. In conclusione, se da un lato l'ambiente viene forzato con tagli, incendi, diboscamenti, dissodamenti, ecc..., dall'altro la cultura cerca di porre idealmente riparo alle "ferite" inferte, utilizzando altri strumenti, non tecnologici, ma cultuali, rituali, facenti sempre parte della medesima cultura alla quale appartengono singoli individui e gruppi .
"Ring Giir, Il Grande Biancofiore, Mio padre Ring, fu chiamato da suo padre. Egli lo fece sedere al suo fianco, lo carezzò e gli disse queste parole:"Figlio, Ring, là c'è il bestiame, O figlio, il bestiame è la prosperità dell'uomo. Mio Nonno aveva un wut (cattle camp), il suo campo divenne ricco di mandrie e di uomini, le stelle si riempirono di vacche..." (canto dei Ngok Dinka, Sudan : Deng, 1971: 242). |
Quello che è stato detto per i coltivatori, può essere esteso ai gruppi umani che si dedicano ad un'economia di allevamento. Essi sfruttano i prodotti forniti dagli animali (latte, sangue, sterco) e gli animali stessi, sia morti (carni e pelli) che vivi (trasporto), e utilizzano i territori percorsi: stagionalmente (transumanza), ciclicamente (pastorizia seminomade) o semplicemente "itinerante" (pastorizia nomade), per sfruttare fino in fondo tutte le possibilità di pascolo ivi localizzate. Anche presso questi popoli ci sono meccanismi culturali autogiustificativi e discolpanti del proprio comportamento nei confronti della natura, che fanno sì che essi vengano ritualmente attivati (medianti sacrifici et alia) allo scopo di rimanere, sia pure idealmente e, quindi, culturalmente, in armonia con l'ambiente e con il mondo animale e vegetale, che dà loro modo di sopravvivere.
I tre "tradizionali" approcci dei popoli "altri" all'ambiente ci mostrano un rapporto e un'interazione che non è mai di totale sfruttamento, nel concreto e idealmente. Nei confronti della natura non esiste una mentalità, un atteggiamento che è sempre e solo di competizione, di rapina, di mero sfruttamento. Se da una parte si acquisiscono i prodotti del sottobosco, del bosco, delle steppe semi-desertiche e del deserto -sabbioso, roccioso, ghiacciato- (animali, vegetali), dall'altra si raccolgono i prodotti della coltivazione e dell'allevamento. Nel primo caso la relazione con la natura è di rispetto, sia concreto, che "ideale", mentre negli altri due esiste una qualche discrasia tra l'agire concreto (negativo) e ideale (positivo). Il rispetto è solamente ideale. Il Lanternari dedicò un interessante e corposo studio alle feste cosiddette di Capodanno presso i popoli cacciatori, pastori e coltivatori. Esse mostrano chiaramente quanti e quali siano, e in quali occasioni vengano attivati, gli strumenti culturali e rituali delle varie popolazioni. Ne discende che il rapporto uomo-natura e cultura-natura, spesso anche conflittuale, trova sempre una sua catartica armonizzazione, grazie alla ricomposizione di ogni "pedina" nell'ampio alveo della tradizione e della cultura (Lanternari, 1976).
Non credo che l'argomento necessiti di particolari analisi, poiché il profondo e diffuso degrado ambientale è vissuto da tutti noi, giorno dopo giorno. L'enorme iato che si è creato tra ciò che si dovrebbe fare (pensa globalmente, ma agisci localmente, affermano gli ambientalisti), e quello che in concreto poi viene fatto, è anch'esso sotto gli occhi di tutti: dall'uomo della strada e dall'opinione pubblica, in generale, ai mass media, dagli amministratori ai politici. In effetti si critica, si polemizza, si discute, ma alla resa dei conti, come al solito e come sempre, si fa molto poco, e quel pochino viene anche tirato su con grande fatica. Il "Grande Fratello" di Orwell indubbiamente aleggia su noi tutti. Non riesco infatti a capire come tutto possa rimanere quasi inalterato, mentre i responsabili dello "sfascio" e dell'"andazzo" ecologico: politici e amministratori, cioè coloro che istituzionalmente sono preposti per agire e fare agire, continuano tranquillamente a cimentarsi nei loro giuochi di potere e di intrallazzi. Nonostante le continue, ripetute, critiche che piovono loro addosso da ogni parte.
Qui, per comodità di esposizione anche problematica, dobbiamo necessariamente distinguere tre periodi: quello precoloniale, quello coloniale e l'attuale. Gli ultimi due tendono a presentare comuni assonanze.
I popoli a "tecnologia semplice": cacciatori-raccoglitori, coltivatori della savana e della foresta, pastori nomadi e transumanti, godevano in questo periodo, che in molti casi è arrivato quasi alle soglie del XX secolo, di un indubbio vantaggio ecologico: il fattore spaziale. L'ambiente veniva sfruttato e percorso senza apparenti restrizioni e costrizioni, se non quelle dettate dalle particolari caratteristiche geo-morfologiche di ciascun habitat (la difficoltà di superare un fiume impetuoso o un'inaccessibile catena montuosa), o dalla presenza di altri popoli, sia che condividessero la medesima attività economica (ecco l'instaurarsi di interminabili razzie e controrazzie di bestiame tra gruppi dediti alla pastorizia), sia che non la condividessero: ecco le invasioni, anche ripetute nel tempo, sempre da parte dei nomadi pastori, di territori popolati tradizionalmente dai coltivatori sedentari. In quei tempi c'era ancora la possibilità, non solo teorica, che la tecnica della coltivazione itinerante e dello slush and burn (con i suoi ciclici "tempi" lunghi), dessero modo ai territori, sfruttati anni prima, di rigenerarsi completamente e, quindi, di essere pronti ad un loro rinnovato utilizzo. Inoltre la notevole mortalità infantile faceva sì che sia la pressione demografica, che quella animale ( le epizoozie erano frequenti), non provocassero eccessivi guasti a pascoli e terreni. Ciò nonostante il diboscamento sia stata attività largamente praticata, anche allo scopo di servirsi della quasi unica fonte di energia esistente (l'altra era, ed è, costituita dallo sterco animale -vedi Tibet, e altrove-). Anche presso i pigmei della foresta o i boscimani del Kalahari, la vita continuava a scorrere senza ulteriori "problemi", usufruendo gli uni e gli altri di ampi territori, dove selvaggina, frutti e altri prodotti spontanei della vegetazione, non sarebbero venuti mai a mancare.
Da più parti si è calcolato lo spazio "vitale" necessario al singolo individuo, alla singola famiglia nucleare o estesa, alla singola banda e al singolo gruppo umano (di cacciatori-raccoglitori, coltivatori itineranti, pastori nomadi o transumanti), onde evitare danni all'ambiente e conseguentemente, all'individuo e al gruppo, comunque determinato. I gravi guasti al territorio provocati dalla pratica del "taglia e brucia", dai pastori e, in misura nettamente inferiore, dai cacciatori della foresta, iniziarono a comparire in epoca coloniale a seguito delle restrizioni imposte dalle frontiere (artificiali, stabilite spesso con riga e compasso) che, oltre a dividere tra loro decine e decine di popolazioni (ad esempio, i Masai tra Kenya e Tanzania, i Zande tra Congo - Zaire - e Sudan), interruppero bruscamente : nelle foreste, nei deserti, nelle savane, i tradizionali percorsi compiuti da coltivatori e allevatori, e anche dai cacciatori. Ricordo come durante il periodo coloniale ( a volte ancora oggi ) i Tuareg riuscissero a passare dall'Algeria al Mali, e come i coltivatori fossero in grado di spostarsi di terreno in terreno, ove ciò era possibile. Altre volte i governi coloniali cercarono di contrastare duramente ogni sconfinamento. Anche perché spesso, come nel caso dei pastori, tale movimento serviva per compiere razzie in territori tradizionalmente nemici - ma appartenenti ad un'altra colonia-, ultimate le quali si sarebbe ritornati, con relativa "tranquillità", al proprio "santuario" di partenza. Ciò è accaduto, ed accade tuttora, con l'uso di armi ben più micidiali di quelle tradizionali -zagaglie e bastoni-, quelle automatiche europee, come tra i Karamojong dell'Uganda e i coltivatori-pastori Pokot del Kenya. Inoltre l'avvento di un'agricoltura moderna (con i suoi macchinari) di tipo intensivo e l'insediamento di coloni, sempre più numerosi, sottraendo terreni fertili su terreni fertili agli indigeni, costringevano questi ultimi a sfruttare aree sempre meno estese con i tradizionali sistemi, cosa che non poteva non renderle meno produttive: ecco l'inizio del degrado! Si è altresì cercato di sedentarizzare i nomadi, come i Tuareg, che da sempre avevano creato innumerevoli noie all'amministrazione coloniale francese. In alcuni casi si è riusciti nell'intento, con l'effetto aggiuntivo, nei confronti dell'ambiente, di aumentare notevolmente la pressione del bestiame e degli uomini sul territorio, spazialmente ben più circoscritto, contribuendo al suo depauperamento. C'è da aggiungere, ancora, come in molti casi i tradizionali percorsi seguiti dal bestiame dei nomadi avrebbero cominciato, in numerosissimi punti, a coincidere con quello dei terreni dei "nuovi" coltivatori intensivi. Donde il sorgere di ulteriori attriti interetnici che i governi cercarono di tacitare con l'usuale strategia di chi detiene autoritariamente il potere, quella della forza delle armi, struttura portante delle varie "Pax": quella britannica, francese, portoghese, spagnola, italiana e, persino, germanica.
Tutto ciò che era stato fatto in epoca coloniale non poteva che essere portato avanti dalle occidentalizzanti élites politiche e amministrative locali. Per quanto riguarda l'Africa, l'OUA (l'Organizzazione degli Stati africani) dovette ammettere come le frontiere, anche se illogicamente disegnate, per lo più all'indomani dello scramble for Africa ( nel corso dell'ufficiale e generalizzata spartizione coloniale del continente), non si potessero toccare, pena una lunga e inarrestabile serie (secondo il "principio del domino") di conflitti locali e regionali. Vennero adottati anche alcune misure, sempre di tipo coloniale. Si continuò a cercare di sedentarizzare i nomadi, bloccando ancora più fermamente di prima, ove ciò era possibile, gli sconfinamenti. Si cercò di coartare anche gli spostamenti degli agricoltori itineranti, grazie all'utilizzazione delle loro "Pax", questa volta indigene, soprattutto se dirette verso altre etnie, diverse da quella dominante al governo del paese. Né pari fortuna si ebbe nel contenere le tradizionali tecnologie impiegate dai coltivatori. Savane e foreste continuarono a bruciare sempre più intensamente. ecco arrivare la desertificazione del Sahel, la siccità, la carestia di intere popolazioni a sud del Sahara, e nell'Africa nord-orientale, orientale e meridionale (Etiopia, Somalia, Sudan, Uganda, Tanzania, Mozambico e Zimbabwe). L'agricoltura di sussistenza sempre più viene sostituita da un'economia di mercato, spesso monocolturale, la proprietà collettiva, da quella individuale. Il miglioramento delle condizioni di vita di uomini e animali, grazie ad una maggiore igiene, a moderne metodiche mediche e veterinarie, fa sì che numericamente la pressione sul terreno, perfino su quelli economicamente e spazialmente marginali, diventi ancora più intollerabile. Il rischio è di provocare ulteriori e più gravi episodi di desertificazione e, quindi, di carestia e di morti: di bambini, vecchi, malati.
Molto di quello che potrebbe essere incluso in quest'ultimo paragrafo è stato affrontato in precedenza, alcune volte più in dettaglio, altre volte in maniera più superficiale. Non mi sono potuto, ovviamente, sottrarre alle inevitabili generalizzazioni che si impongono a chi, cercando di parlare del rapporto natura-cultura, così come lo si può riscontrare particolarmente presso le culture "altre", si riferisce idealmente (e con un'indubbia forte dose di presunzione) ad un numero di persone pari, grosso modo, a quasi quattro miliardi di individui, corrispondenti, a loro volta, ad alcune migliaia di differenti etnie e culture. In un solo stato africano, il Sudan, esistono ben 572 tribù.
Sappiamo come si debba tendere ad auspicare per la Terra uno sviluppo sostenibile. Sappiamo anche come le risorse siano limitate, la distribuzione della ricchezza, profondamente ineguale nel mondo, e come la cooperazione internazionale stia cercando di "colmare" l'abissale gap esistente tra il Sud e il Nord del mondo. Sappiamo altresì come il degrado ambientale abbia raggiunto dimensioni planetarie, ma che l'inquinamento (così come lo stesso consumo delle "cose", della "roba" di verganiana memoria), risulta molto più alto nei paesi industrializzati, rispetto a quello dei PVS. Nonostante i suoi abitanti siano meno di un terzo di quelli dei paesi in via di sviluppo, dove l'implosione della "bomba demografica" fa già sentire i suoi effetti anche attraverso le sempre più massicce ondate migratorie sud-nord. Paesi del Terzo Mondo che, comunque, sono sulla via di una lenta industrializzazione (per l'equazione: sviluppo=modernizzazione e industrializzazione=occidentalizzazione), che sta appena iniziando ora a dare i suoi frutti. Per quanto riguarda invece l'autosufficienza alimentare, sembra che essi per la maggior parte dipendano sempre di più dalle importazioni, sia a causa del processo di desertificazione, sia per il minor rendimento per ettaro di superficie coltivata, sia per l'introduzione nei regimi alimentari afro-asiatici e latino-americani -specialmente a seguito delle numerose emergenze ambientali- di nuovi e più "raffinati" alimenti: il grano, al posto del mais o, meglio, del miglio-sorgo-durra, ad esempio. Così le tradizionali colture vengono ulteriormente abbandonate per rivolgersi ai prodotti stranieri, sia comprandoli, dove possibile, sia aspettando -in molti casi- l'aiuto alimentare proveniente dall'estero.
Sappiamo come sia da tempo ben radicata, nelle coscienze degli "uomini diversi da noi", la consapevolezza della loro "arretratezza", dell'immenso divario esistente con il Nord, tanto che in più occasioni essi hanno già dichiarato e riaffermato, anche con le loro azioni, l'intenzione di non fungere in alcun modo da capri espiatori dell'inquinamento e del degrado globale, di cui i paesi ricchi sono i maggiori responsabili, Stati Uniti e paesi dell'UE, in testa. Il caso del Brasile e della "foresta amazzonica" lo dimostra. Si trovano così nuovi escamotages politico-economico-ecologici (ad esempio la cancellazione dei debiti internazionali in cambio di una più attenta salvaguardia ambientale), in qualche caso con un certo successo, che però stentano a diffondersi. E' certo che, ancora una volta, stiamo mostrando ( noi, popoli ricchi, consumisti e super-predatori ambientali) ai popoli "altri" la nostra immagine (inquietante, catastrofica) dell'ambiente mondiale, che le nostre supersofisticate rilevazioni elettroniche, e i nostri analisti e studiosi, affermano essersi estesa, almeno per quanto riguarda atmosfera e idrosfera, a quasi tutto il pianeta. Ora si scopre, sia pure tardivamente, come il grave errore che per decenni ha condannato al fallimento tutti ( o quasi) i tentativi affrontati dal mondo occidentale per "portare lo sviluppo" nei paesi più poveri, consistesse proprio nel voler imporre agli altri le "nostre" idee su ciò che doveva essere lo "sviluppo" (composto da super progetti, grosse realizzazioni industriali, stradali, tecniche ed economiche: cioè dalle celebri e, per lo più, poi abbandonate, "cattedrali nel deserto"). Non tenendo in alcun conto quella che era la diversità delle strutture fondamentali di cui quei popoli, in quei paesi, erano portatori. Quindi ignorando deliberatamente il loro modo di vedere, di sentire, di avvicinarsi alla realtà e ai problemi, cioè "infischiandosene" di quella che era la loro "mentalità". L'errore è anche consistito nel fatto che nemmeno si è cercato di renderli in qualche modo partecipi del loro sviluppo, in definitiva del loro stesso avvenire: sono stati sentiti? li abbiamo ascoltati?... Se non vogliamo compiere ulteriori errori, anche nei nostri stessi confronti (nel caso dello sviluppo sostenibile), ricordiamoci che sviluppo significa solo e semplicemente: il miglioramento della qualità della vita e, nei casi estremi, è addirittura correlato alla stessa sopravvivenza. Ora che parliamo di un futuro comune del nostro "villaggio globale", che deve essere ricercato con progettualità ed azioni comuni, a livello planetario, siamo nuovamente entrati in una strada dalle mille e tortuose contraddizioni. Noi, che siamo stati i "Grandi Inquinatori" del mondo, ma non i soli perché, come è stato rilevato, anche gli abitanti del terzo Mondo hanno avuto la loro parte, dobbiamo assieme agli altri fronteggiare con rimedi comuni un'emergenza comune. Ed è questa un'incognita di non facile soluzione. Noi, anche se con l'acqua del degrado ambientale alla gola, non potremo infatti pretendere che coloro che nel Terzo Mondo si stanno avvicinando con estrema difficoltà, nel bene e nel male -ambientalmente parlando- alla "sicurezza alimentare", che è sicurezza di sopravvivenza, e quindi ad un minimo di "benessere", vadano comunque coartati in una battaglia ecologica che solo i popoli direttamente colpiti fino in fondo dal degrado ambientale (ad esempio quelli della fascia saheliana) potranno appieno comprendere e tollerare. Questi popoli, la cui stessa sopravvivenza è pericolosamente minacciata, se "monitorati" dall'esterno, potranno diventare i reali artefici di un cambiamento culturale, indispensabile per riuscire a modificare quello che è il loro "concreto" atteggiamento nei confronti della natura, per molti versi (un blend tra tradizione e restrizioni indotte fin dall'epoca coloniale) di tipo negativo. Ma ove tale "rivoluzione culturale" non fosse pienamente sentita, le situazioni non potranno far altro che continuare a peggiorare ulteriormente. D'altronde l'estrema e diffusa povertà di gente che ha niente, o che possiede molto poco, le malattie debilitanti a causa di un errato, spesso insufficiente, apporto calorico e proteico, l'aumento in misura geometrica delle bocche da sfamare, non possono non evidenziare ancor di più quello che si configura come un vero e proprio dilemma da risolvere. La lotta ecologica, come nel caso dei campesinos brasiliani, e di tanti altri gruppi umani nel mondo, diventa un "lusso" che molti, tanti, che riescono malamente a pensare al giorno dopo giorno, non si possono assolutamente permettere. D'altronde è notorio come uno dei guai, di quella che è la nostra personale lotta all'inquinamento in Italia, è insito nel fatto che si dovrebbe combattere, non solo per l'emergenza e per il contingente, ma soprattutto per il tempo lungo. E il tempo lungo, si sa, ai fini elettoralistici ancora "non paga", per politici e amministratori nostrani, come il presente. Ed allora perché meravigliarsi se la gente, i popoli appartenenti a culture "diverse dalla nostra", i poveri e i diseredati, quelli che un Fanon definì come i "dannati della terra", abbiano egoisticamente voglia solo di sopravvivere, di vivere l'oggi e anche il domani, senza però pensare forse al dopodomani e al futuro, che sovente è solo foriero di avversità e di negatività.
Cosa fare...?
Come intervenire...?
Quest'ultima parte del mio lavoro ha anche lo scopo di suscitare, nel lettore, un momento di pausa e di riflessione, nonché quello di attrarre la sua attenzione su una problematica dalle mille, variegate, contraddittorie e spinose "sfaccettature", che sembrano oggi di difficile risoluzione.
Onestà, buona volontà, sensibilità, solidarietà, conoscenza dei problemi, competenza e capacità, tecnologie e know-how: Potranno queste essere "armi" sufficienti per affrontare la battaglia comune per il "futuro comune di noi tutti"?!
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Modificata: 4 gennaio 2006
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