PROBLEMI SOCIO-ANTROPOLOGICI CONNESSI ALLO SVILUPPO NEL MEZZOGIORNO

(Relazione presentata nell'aprile del 1993 al Convegno:"Un progetto per il Mezzogiorno: la cooperazione giovanile sceglie la formazione", organizzato a Roma, congiuntamente, dall'UNCI (Unione Nazionale delle Cooperative Italiane) e dal FORMEZ).

Franco Pelliccioni

1966 - 2006

QUARANTA ANNI DI PUBBLICAZIONI SCIENTIFICHE E DI DIVULGAZIONE SCIENTIFICA  

1. La presente relazione rappresenta un modesto contributo che uno studioso dell'Uomo, che non è un meridionalista, tenta di apportare alla conoscenza, alla analisi e alla riflessione di quella secolare problematica un tempo definita: questione  meridionale. Pienamente conscio pertanto di quali siano i miei "limiti". Ma anche perfettamente consapevole di come certe dinamiche culturali (e, quindi, economico-sociali) inneschino meccanismi similari, rintracciabili, sia pure tenendo nel debito conto la diversità delle loro specificità culturali (e lo spessore del dislivello culturale), anche in tante altre del globo. Mi riferisco espressamente a quel composito ed eterogeneo sub-pianeta costituito dal Sud della Terra. La mia è perciò una veloce e quasi "corsara" incursione in un mondo che, come italiano (e in questi tempi particolarissimi ed elisabettianamente "horribiles", non sembra tanto eccessivamente ovvio il ricordarlo), è anche il mio. Del resto è noto come gli etno-antropologi: per lontana e consolidata formazione teoretica, inclinazione, predisposizione personale, forma mentale, siano più portati e "tentati" ad avvicinarsi a realtà distanti e "diverse", piuttosto che a quelle a loro più vicine.

Non credo che vi sia bisogno di ricordare come la letteratura esistente su tutti i più diversi aspetti della realtà meridionale (compreso, naturalmente, quello dello sviluppo), sia immensa e certamente plurisecolare. Come numerosi, del resto, siano stati gli etnologi, demologi, sociologi e antropologi culturali, anche meridionali, forse soprattutto meridionali, che con i loro scritti ci hanno messo a disposizione autentiche ed inestimabili gemme di conoscenza. Con ciò non posso che spargermi la testa di cenere, anche se continuo ad interessarmi in questa sede alla tematica dello sviluppo nel nostro sud, al fine di ribadire alcuni punti che meriterebbero, forse, maggiore rilievo.

 

2. Sedevo sui banchi di scuola e l'insegnante mi impartiva una dotta lezione sulla "questione meridionale". Sono ora un adulto e, anche se non utilizziamo il termine "questione", sempre di meridione stiamo ora parlando. Sempre per cercare di conoscere, analizzare, verificare, migliorare, risolvere: errori, pregiudizi, incomprensioni, fallimenti. E indicare: proiezioni, scenari, auspicabili trends, possibili e percorribili itinerari, linee guida o cornici, ecc... Anche all'epoca di mio nonno, ma anche a quella del nonno di mio nonno, si parlava ancora di questione meridionale. Le cose in quei tempi venivano risolte considerando il sud un inesauribile serbatoio di potenzialità umane non sfruttate - ma sfruttabili -, che avrebbero cercato il loro sfogo nelle migrazioni internazionali e intercontinentali. Così si finì di depauperare il nostro sud. Non solo composto da poveri e analfabeti braccianti, ma da uomini, con le loro emozioni, sensibilità, culture. In una parola con la loro umanità. In visione prospettica, vista la successiva e forte emigrazione interna sud - nord , il meridione si venne privando di ricchezze e potenzialità intellettuali, morali, culturali, ecc.... L'intero paese non poté non risentire di quei sussulti migratori, che davano uno scossone al già precario equilibrio dell'Italia post-unitaria, favorendone il polo centro-settentrionale. Il Nitti, d'altro canto, si era espresso molto "francamente" nei confronti del sud, definito "colonia interna".

Negli ultimi decenni, fin dall'epoca dell'istituzione della Cassa per il Mezzogiorno (1950), con i suoi interventi straordinari, fino ad arrivare all'Agensud del 1986 (legge n.64), che ne prolungava le iniziative [2], le leggi dello Stato hanno cercato di favorire, anche attraverso mille incentivi, un riassetto della struttura industriale ( e non solo quella) del sud. Lo si era già fatto, anche prima, anche nell'ottocento. Dislocando nel sud alcuni impianti industriali ma, forse bisognerebbe ricordarcelo, l'industria era già presente nel meridione fin dall'epoca dei Borboni[3]...Anzi, c'è chi, come Capecelatro e Carlo, sostengono come il "Meridione al momento dell'Unità era florido e sviluppato", come addirittura "il Sud  era quasi allo stesso livello di sviluppo del Nord ed era iniziato uno sviluppo industriale e urbano" (cfr. Capecelatro e Carlo, 1972; Ginatempo, 1976).

Nel cosiddetto "regime partitocratico" di questi ultimi quaranta anni si è cercato di intervenire attraverso le leve dell'aiuto finanziario. dei prestiti a tasso politico, delle defiscalizzazioni. C'è quindi stato dal centro nord del paese, in direzione del sud, un trasferimento di ricchezze, un forte input di numerario, che in base alla logica perversa di una cultura consumistico-produttivistica, basata pressoché esclusivamente sul valore "denaro", avrebbe dovuto prima o poi, secondo le intenzioni dei legislatori, dei governanti e dei nostri esperti, apportare un miglioramento alle condizioni generali dell'intero meridione. Attraverso un output produttivo, che avrebbe sconfitto o, per lo meno, cercato di attenuare: disoccupazione, miseria, analfabetismo, devianza -e quindi, criminalità organizzata, e non -, evasione e mortalità scolastica, ecc...,ecc.... Avrebbe dovuto fare sviluppo. Come sappiamo ciò non si è verificato, o almeno non lo è stato secondo quelle rosee aspettative che molti economisti, politici locali e nazionali avevano prospettato. Abbiamo avuto sì, come risultato, un aumento della redditività. Che ha comportato un aumento dei consumi, nell'ambito, però, di un'"economia di consumo sussidiata"[4] e nel contesto, per giunta, di quella che definiamo modernizzazione senza sviluppo. Del resto abbastanza diffusa anche in altre aree del mondo. Un esempio paradigmatico e concreto che si può riportare è quello relativo all'Iran, all'epoca di Reza Palhevi[5]. I perché di tutto ciò in fondo li conosciamo tutti noi: gli "addetti ai lavori", ma anche gli uomini della strada.

 

3. Le cause che si prendono in considerazione sono le più diverse: una supposta cultura di tipo parassitario e clientelare, una diffusa e pregnante ragnatela di interessi, più o meno leciti, di tipo mafioso e similari, le profonde distorsioni operate dal sottogoverno ("mani pulite" docet), gli errori e le colpevoli interpretazioni della realtà, ecc... Devo altresì aggiungere come vada ben distinto il "grano dal loglio". In effetti, e questo è uno dei punti principali sul quale va focalizzata tutta la nostra attenzione, l'aspetto umano del nostro sud è stato tenuto poco o niente in considerazione: con la sua cultura e le sue diverse sub-culture urbane e contadine (Galasso, 1982:232), con quelle delle élités e del mondo subalterno, quella degli "italiani" e dei cosiddetti autonomisti (o addirittura "indipendentisti") (Mariotti:1992). Ad esse, e ai valori che rappresentano, vanno altresì aggiunte - anche ricordando come il tutto possa a volte risultare profondamente intrecciato - valenze ( e disvalori) appartenenti a modelli culturali a cui fanno indispensabile riferimento coloro che rientrano nel quadro del cosiddetto "familismo amorale" (Banfield, 1975), oppure di una relazione cliente-patrone[6], nonché di tutte quelle organizzazioni dichiaratamente antistato (Mafia, Stidda, ecc...). La colpa, ripeto, non risale a una presunta e generalizzata cultura di tipo parassitario o clientelare, o quantomeno intrisa di disvalori derivanti da comportamenti di tipo mafioso, e perciò devianti. Se è possibile che in alcuni strati contadini (ma anche cittadini), amministrativi, burocratici e politici, ciò si sia potuto in qualche misura verificare (l'entità del fenomeno è tutta ancora da stabilire), c'è anche da dire come parimenti colpevoli siano stati gli "altri". Quelli che a livello centrale, a livello governativo e legislativo, si sono interessati al Mezzogiorno, senza tenere nel debito conto l'Uomo del Mezzogiorno: con il suo mondo, le sue variegate realtà esistenziali derivanti da ritmi di vita che certamente hanno avuto nel tempo occasione di diversificarsi tra di loro. E la storia, ma più particolarmente le biblioteche, gli archivi e le tradizioni orali stanno tuttora là a testimoniarlo per noi, ad aspettare di essere lette, interrogate e indagate fino in fondo.

A parte i politici meridionali ( e i vari esperti, ma anche i letterati, i leaders delle lotte contadine, i sindacalisti, ecc...), hanno realmente avuto voce e possibilità di iniziativa i popoli del sud, gli abitanti dei medi e grandi insediamenti accentrati (le città-contadine) (Galasso, 1982:42-57; Ginatempo, 1976), o quelle poche "frammentopoli", vere e proprie oasi di insediamenti sparsi, come nella Murgia dei trulli, nelle campagne? (Bissanti, 1977: 176). Non mi riferisco agli amministratori locali, che pure dovrebbero, ove coartati nell'anima da altri fattori, poter apportare un loro contributo. La gente, la "società civile" -si dice oggi con un termine di moda - deve poter partecipare all'edificazione del proprio sviluppo. Noi, studiosi dell'Uomo, sappiamo per esperienza, per le nostre ricerche sul campo di mezzo mondo, per ciò che è accaduto e che è destinato purtroppo a ripetersi con stanca monotonia in ogni parte dei paesi in via di sviluppo, che ove ciò non accada, ogni tentativo esterno, o comunque pesantemente monitorato dall'esterno, tende al più completo dei fallimenti[7].

 

4. Si deve quindi cercare di essere sempre e comunque i primi, veri e autentici artefici del proprio destino (non solo in riferimento all'autodeterminazione politica), nonché del "tipo" di sviluppo che si vuole raggiungere. Anche tenendo ben presenti quelli che sono i propri valori. In definitiva rispettando  le naturali fondamenta della propria cultura. Referendum, indagini conoscitive, ricerche socio-antropologiche "sul campo", partecipanti e partecipate, sondaggi, assemblee di quartiere, di comune, di paese e di villaggio (lo si fa sulla piazza del più piccolo cantone svizzero, l'Appenzell!). Sono queste alcune delle tecniche, possibili e utili, al fine di conoscere meglio le realtà (con tutte le loro problematiche) nelle quali si dovrà operare assieme alle comunità interessate. Si deve trovare una strada, qualsiasi essa sia, anche se difficile da percorrere: per poter rivalutare? riscoprire? un sistema che in fondo sia di tipo più Gemeinschaftliche che Gesellschaftliche, più comunitario che "societario". E' questa solo una mera utopia? Nel momento in cui stiamo assistendo, non solo come inerti spettatori, ad una lenta e pacifica rivoluzione, viviamo tempi in cui si auspica un generalizzato "cambiamento" - questa è una rivoluzione culturale[8]- è lecito ancora sperare?

Lo sviluppo può essere definito, connotato, spiegato, interpretato, anche perseguito e realizzato, perché no?, in mille e una maniera. Sviluppo per me è soprattutto: migliorare la qualità della vita dell'uomo. Ciò sembra molto semplice, ma per niente semplicistico! Possiamo discutere su quali possano essere i parametri giusti e gli indicatori più corretti da usare. Possiamo trovare alcuni punti in comune, mentre altri potrebbero rimanere discordanti. Non preoccupiamoci. Né tanto meno scoraggiamoci. Ricordiamoci, invece, e le condizioni del nostro pianeta stanno lì ad attestarlo, come prima di tutto si debba poter parlare di uno sviluppo che sia sostenibile. Su questo punto penso che ci si possa trovare tutti d'accordo. Ancora... Esso non deve essere quantificato, valutato, pesato o "pensato" in meri termini economici e di mercato, consumistici o di modernizzazione "tout court". Più autostrade, più industrie pesanti, più televisori, più automobili, più telefoni cellulari, più studenti universitari: non vogliono necessariamente significare: migliorare "ipso facto" la qualità della vita della gente. Bisognerebbe invece cercare di riuscire (ma ciò potrebbe farci rimandare al tempo del primo cristianesimo: un'altra utopia?) a privilegiare le modalità dell'essere su quello dell'avere, senza tralasciare, d'altro canto ciò che non può non essere del pari fondamentale per vivere dignitosamente alle soglie del Terzo Millennio: salute e benessere psico-fisico, lavoro per tutti, istruzione e servizi pubblici efficienti, in generale, e quindi anche miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie, case, strade, non inquinamento ambientale (acqua, aria, suoli), ecc...

L'Enciclica Centesimus Annus (1 maggio 1991) di Giovanni Paolo II, oltre a rappresentare una guida spirituale per tutti i cattolici, più volte sottolinea, se mi si consente l'ardire, anche antropologicamente, quanto si viene esponendo: "il bene dell'individuo subordinato al funzionamento del meccanismo economico-sociale (II, 13); nella "società del benessere o società dei consumi" che riduce "totalmente l'uomo alla sfera dell'economico e del soddisfacimento dei bisogni materiali" (IIA, 19); "lo sviluppo... non deve essere inteso in modo esclusivamente economico, ma in senso integralmente umano" (III,29); "(...) le carenze umane del capitalismo, col conseguente dominio delle cose sugli uomini, sono tutt'altro che scomparse" (IV, 33).

 

5. Spero che quanto vengo semplicemente dicendo non venga inteso come un discorso puramente teorico. Realmente penso e sostengo come, dalle verbosità, dai teoremi, dalle filosofie, dalle nostre spesso incontrollabili e assolute certezze e verità, si debba poter scendere, non di un gradino o di una scala, ma di più, molto di più. Per arrivare a "toccare con mano", noi assieme a loro, gli "altri da noi", ciò che realmente significa sviluppo per le popolazioni del sud. 

"Abbiamo bisogno dell'aiuto esterno per analizzare e comprendere la nostra situazione e la nostra esperienza, ma non per dirci ciò che dobbiamo fare. Un operatore esterno che viene con soluzioni e consigli preconfezionati è più dannoso che inutile. Egli deve apprendere da noi quali sono i nostri problemi, aiutarci ad articolare meglio le nostre domande e a trovare le soluzioni

 

 

...Solo colui che ci aiuta a riflettere sui nostri problemi è nostro amico"[9]

 

 

Lo sviluppo può essere inverato allorché esso è endogeno, non calato dall'alto. Ecco che parliamo allora di autosviluppo integrale (Volpini, 1992). Parole non fini a se stesse, che sottendono tutto un intenso lavoro di anni di ricerche, di analisi, di verifiche, di riflessioni dettate da altre realtà culturali e umane, e capaci di impedire o quantomeno di ridurre al minimo le innumerevoli "cadute" di programmi, progettazioni e piani di sviluppo esogeni ed eterodiretti.

Alcune importanti precisazioni si impongono a questo punto riguardo quello che potrebbe costituire il più raffinato e corretto strumento metodologico per creare sviluppo. L'autosviluppo integrale supera, naturalmente, le limitazioni dello sviluppo "disintegrato": elementi nuovi introdotti in un sistema culturale, poiché si ritiene (a torto!) che essi produrranno esiti positivi per effetto cumulativo e in base ad una loro presupposta e intrinseca bontà e superiorità. Ogni riferimento critico e di giudizio viene naturalmente fatto risalire al sistema esterno dal quale essi hanno avuto origine. La concezione dell'autosviluppo integrale supera anche quello dello sviluppo "integrato", cioè del mutamento culturale indotto da dinamiche interne ed esterne - per inculturazione e acculturazione - nel quale l'integrazione degli elementi esogeni ed endogeni viene attuata a livello orizzontale, senza alcun riferimento al sistema culturale globale. L'autosviluppo integrale è invece quel "processo di mutamento culturale indotto attraverso programmi e progetti di sviluppo, attivati sia da dinamiche endogene che esogene, nella cui elaborazione teorica e metodologica e nella cui realizzazione pratica si contempla l'integrazione di elementi nuovi... sia in senso orizzontale, all'interno del sub-sistema o dei sub-sistemi nell'ambito dei quali i progetti direttamente si collocano, sia in senso verticale, a livello di sistema culturale globale, tenendo in conto i nessi con i livelli mistico-religioso e filosofico, con il sistema di pensiero nel suo complesso" (Volpini, cit.:131). La comunità locale - formata dai soggetti interni di sviluppo (opinion leaders, grass-roots) - deve rimanere sempre il soggetto politico preminente, decidendo liberamente l'intervento sulla realtà locale, elaborando ipotesi di mutamento e strategie di sviluppo. Secondo questo tipo di approccio antropologico allo sviluppo, il progetto o il programma di partenza non può che essere aperto. Nel caso ciò non avesse luogo, il progetto sarebbe destinato a fallire, con effetti socio-culturali e economici disastrosi per la comunità. Al fine di raggiungere gli obiettivi suddetti si rende necessario, sia propedeuticamente, che sincronicamente, l'intervento di un antropologo che possa attuare una ricerca "azione partecipata" (Volpini, cit.: 122-166).

 

6. Nello sviluppo del sud della penisola ampio spazio, non sarebbe neanche il caso di ribadirlo, va dato alla formazione professionale - anche manageriale -, sia dei giovani, che degli adulti. I quali in tal modo potranno diventare degli autentici volani, una pacifica "force de frappe" per un cambiamento indispensabile per un reale sviluppo. E forse si potrà finalmente battere disoccupazione, inoccupazione e sottooccupazione, migrazione interna e migrazione internazionale, intellettuale e non. Secondo me, ma ciò, come si è prima visto, deve comunque subire un'attenta verifica - e un puntuale riscontro - sul terreno attraverso una ricerca antropologica sul campo che sia "azione partecipata", formazione professionale e organizzazione e gestione delle ricchezze umane e del territorio andrebbero indirizzate, non sulla grande industria, pesante o meccanica. Quanti e quali errori ci siano stati negli anni in questo senso, lo abbiamo già visto, come pure qual è stato il prezzo pagato da operai, tecnici e impiegati appena il sistema Italia è entrato in crisi. L'accento andrebbe posto, ma saranno le stesse comunità locali ai vari livelli a decidere, confermando o meno il mio assunto: su un'industria di trasformazione alimentare o conserviera; sullo sfruttamento delle risorse rinnovabili, come nel caso della pesca; su un'agricoltura di tipo biologico; sul turismo, sia di massa che elitario, facendo giustamente risaltare, anche economicamente - ma non solo - i nostri stupendi beni ambientali e culturali localizzati nelle aree meridionali. Si dovranno privilegiare attività che da sempre hanno visto la manualità e la fantasia essere premiate dalle concrete e preziose realizzazioni delle diverse tradizioni artigianali. Maggiore spazio dovrebbe essere altresì concesso a società che vedano l'apporto concreto, individuale, ma anche collettivo, di esperienze e capacità personali e imprenditoriali. Non posso non riferirmi, in questo convegno, che alle forme cooperativistiche, che privilegiano l'apporto Uomo/potenzialità/capacità/professionalità, piuttosto che un anonimo apporto monetario, che non ha altro fine che il lucro "tout court".  "Scopo dell'impresa, infatti, non è semplicemente la produzione del profitto, bensì l'esistenza stessa dell'impresa come comunità di uomini" (Centesimus Annus, IV, 35).

In effetti il progetto del quale si sta discutendo in questi due giorni, il I° Piano di formazione e promozione di imprenditorialità cooperativa giovanile nel Mezzogiorno, riassume due tra i percorsi che andrebbero seguiti allo scopo di sfruttare tutte le sinergie insite nell'incontro tra formazione professionale e mondo cooperativistico. La figura dell'agente di promozione di imprenditorialità cooperativa, così come quella dello specialista di imprenditorialità cooperativa, potranno costituire dei micro-interventi ben focalizzati per lo sviluppo endogeno che, ripeto, non può essere solo economico, del nostro amato Sud.

Quindi non un'industria a ogni costo, ma industrie "mirate" (Galasso, 1982: 244), non cattedrali nel deserto, ma "chiese" integrate nelle comunità o sparse sul territorio. Ma sempre individuate, richieste e gestite dai membri delle stesse comunità[10]. Ecco che la definizione sovente utilizzata di "urbanizzazione senza industrializzazione", che secondo alcuni studiosi caratterizzerebbe il panorama culturale (e del territorio) del mezzogiorno d'Italia (Ginatempo, cit.), viene a perdere la sua carica negativa, diventando, sia pure parzialmente, irrilevante, superata. Comunque non drammatizzerei più di tanto[11]. E non sono quello che si potrebbe definire un ecologista radicale e quantomeno un neo-luddista!

 

7. Cenni conclusivi:

a) quale sviluppo per il sud? Se si vuol realmente cercare di superare la politica perdente tipo "Cassa per il Mezzogiorno" o "Agensud", dobbiamo tendere a innescare uno sviluppo endogeno che rispetti - e ciò lo pretendiamo ora in ogni parte del mondo, per ogni popolo del mondo, noi occidentali, ma soprattutto loro - i particolari ritmi di vita, i valori e le culture che sono proprie delle popolazioni del sud dell'Italia. Senza voler frapporre con ciò mistificanti barriere ideologico-razziste: "oramai una cosa è diventata sempre più chiara e sempre più difficilmente confutabile: la questione meridionale è soprattutto una questione dei meridionali" (Norberto Bobbio, citato in Bocca, 1990)[12];

b) dobbiamo dire basta all'assistenzialismo ( e su ciò mi pare che nel nostro Parlamento concordino un po' tutti). Che rischia in effetti di creare, non solo distorsioni, illeciti arricchimenti da parte delle élités bucrocratico-amministrative e politiche, a volte anche conniventi con associazioni di tipo mafioso, ma anche un'autentica dipendenza, non solo psicologica, dal sostegno finanziario del governo. Non ci si deve o può aspettare tutto e ogni cosa dallo Stato. Allorché esso opera male, poiché intralciato nel suo percorso da falsi od erronei obiettivi, o filtrato da coloro che fanno tuttora parte del cosiddetto "blocco sociale" ( ma anche "storico" e "agrario": Guido Dorso, Gramsci) e che sono interessati ad un mero cambiamento di facciata: ecco che non si crede più nelle istituzioni statuali, ma si è portati a rientrare nell'alveo falsamente rassicurante della rete di autosoccorso famigliare, parentale, di vicinato, di "clan". Che a volte assume connotazioni di tipo delinquenziale. Tutto ciò che è accaduto e sta avvenendo in questi ultimi tempi: in Sicilia, a Napoli, in Calabria e in tante, tante altre aree del nostro sud, stanno a dimostrare il graduale consolidarsi di una coscienza, a livello individuale, di gruppo o comunitario, di una cultura e di un'identità sempre più forte, sempre più consapevole delle proprie caratteristiche, potenzialità e possibilità. Che respinge giustamente e con forza mafiosità e comportamento mafioso, compreso quello omertoso. Che come sappiamo rientra "in toto" in quel quadro complesso e ben sfaccettato della sub-cultura di "Cosa Nostra"[13];

c) dobbiamo ribadire, con estrema chiarezza, come sia sostanzialmente falsa e mitologica la concezione di un progresso di tipo unilineare ed evoluzionista (ma va rivista anche e soprattutto la medesima concezione di progresso!). Se sull'evoluzionismo biologico (darwiniano) molte obiezioni sono state già frapposte nel corso del tempo, sappiamo pure come quello culturale sia stato già da diversi decenni interamente sconfessato, poiché originato da congetture e voli di fantasia, neppure tanto alti. Quindi va rilevato come l'equazione: modernizzazione=sviluppo=progresso sia del tutto fuorviante e come non vada sempre e comunque rispettato - o ci si debba del resto aspettare - un itinerario di sviluppo del tipo: agricolturaè industriaè terziarioè terziario avanzato (caratteristico, quest'ultimo di una società informatizzata e della comunicazione totalmente integrata, come la nostra)[14].

 

BIBLIOGRAFIA

BANFIELD E.C. 1975 (1958) Le basi morali di una società arretrata. Bologna: Il Mulino.

BISSANTI A. 1977 "La Puglia", in AA. VV., I Paesaggi umani, Milano: Touring Club Italiano, pp. 166-179.

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GALASSO G. 1989 "Mezzogiorno tradito dall'emergenza perenne", Corriere della Sera, 1 marzo, p.11.

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JESURUM S. 1990 "Ma qui non siamo handicappati", Europeo, 14 dicembre, pp. 26-27.

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PETROSILLO O. 1989 "La politica affonda il sud. La Questione meridionale al centro di un lungo e drammatico documento della Cei", Il Messaggero, 27 ottobre, p. 6.

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TASCIOTTI N. 1993 "Regioni, l'Emilia batte i lumbard. Una ricerca dell'Università di Harvard tira le somme di vent'anni di decentramento amministrativo", Il Messaggero, 9 febbraio, p. 7.

TRANFAGLIA D. 1992 "In nome della piovra", La Repubblica, 27 giugno, p.31.

VOLPINI D. 1992 Antropologia e sviluppo. Linee epistemologiche per un'antropologia dello sviluppo. Padova: CUAMM e Bologna: Dipartimento di Sociologia dell'Università.


 
[2]D'altronde sappiamo come lo stesso articolo 119 della Costituzione, al III comma, preveda contributi speciali per la "valorizzazione del Mezzogiorno e delle Isole".

 

[3]Con industrie tessili nel napoletano, cotonifici e lanifici a Isola Liri, industria pesante (cannoni, locomotive, e macchine a vapore) a Pietrarsa, cantieri navali a Castellammare di Stabia. A Messina, tanto per presentare un altro esempio, se le seterie che erano state famose nei secoli precedenti, erano ormai decadute, esistevano industrie tessili, industrie che lavoravano il legno, mulini e pastifici, industrie collegate alle essenze agrumarie e alla floricoltura, e concerie (Ginatempo, 1976: 116). Sull'ampia problematica socio-culturale e storica della figura dell'imprenditore nel sud, cfr. Galasso, 1982: 191-216.

 

[4]Saraceno rilevava infatti nel 1989 come il prodotto pro-capite sia passato "da valori intorno al 55% di quello del Centro-nord, a valori intorno al 58%" in ben trentotto anni, e come il Mezzogiorno si dovesse denominare "un'area a insufficiente industrializzazione". Il titolo dell'articolo era:"Perché il Sud non è più un'area di sottosviluppo" (Saraceno, 1989: 1,2), ma su queste posizioni non trova d'accordo il Galasso (1989:11).

 

[5]D'altronde solo in minima parte sono state affrontate e risolte le quattro "emergenze" di cui si parlava fin dal lontano 1950: risanamento urbano, comunicazioni, approvvigionamento idrico, turismo.

 

[6]R.D. Putnam, Preside della Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Harvard, ha recentemente pubblicato i risultati di una ricerca durata venti anni in Italia, dal titolo:"Far funzionare la Democrazia: tradizioni civiche nell'Italia moderna". Secondo lo studioso nel sud tale "tradizione civica" (rete di collaborazione e cooperazione storicamente determinatasi) sarebbe debole. Ciò fin dall'epoca normanna, che avrebbe determinato una gerarchia verticale basata sulla rendita fondiaria e impedito una cooperazione orizzontale. La soluzione sarebbe quella di investire nel sud in "capitale sociale" creando occasioni e reti di "cooperazione civica" (Tasciotti, 1993: 7).

 

[7]Non solo lo attestano le diverse inchieste giudiziarie tuttora in corso, ma già molti anni addietro il Centro Febbraio '74 di Roma lo aveva dimostrato attraverso una sua accurata indagine (anche se lo spessore del fallimento non era stato evidenziato allora in tutta la sua immensa drammaticità). Lo stesso Sommo Pontefice ha avuto occasione di ribadirlo nella sua Enciclica "Centesimus Annus" (II, 21).

 

[8][Nel 1993 le speranze di fronte ad un cambiamento radicale erano molte. Oggi, tre anni dopo, non posso che auspicare in cuor mio nella continuazione e nella piena attuazione di quel processo di cambiamento innescato al tempo di quella che è stata considerata come "la Prima Repubblica"].

 

[9]Affermazione di attivisti del movimento indiano Bhoomi Sena, in Development, 1981, I, p.8;

 

[10]Il De Masi rileva come "nel Sud, dove ci sono molte braccia disoccupate e pochi capitali, si mettono in piedi attività che richiedono molti capitali e poche braccia" (Jesurum, 1990: 27).

 

[11]Tanto più che la creazione dei famigerati poli di sviluppo nel sud doveva in seguito provocare - anni '60/'70 - un'industrializzazione senza urbanizzazione: solo quartieri-dormitorio, al massimo (Ginatempo, cit.: 51, 60).

 

[12]"Il modello economico culturale e sociale imposto al Mezzogiorno, non solo ha avuto effetti di disuguaglianza, ma ha prodotto un processo di disgregazione dei modelli culturali propri delle regioni meridionali, essendo stati importati modelli di organizzazione industriale senza sufficiente attenzione alle realtà locali" (da un documento della CEI, Petrosillo, 1989: 6).

"Noi meridionali dobbiamo piantarla di considerarci una massa di handicappati. Dobbiamo farcela da soli. Gli aiuti, immensi, ricevuti fino ad oggi, si sono dimostrati assolutamente disincentivanti", sostiene ancora il De Masi (Jesurum, cit.: 26).

[E sulla "questione meridionale" si è aperta, in questi ultimissimi tempi, una vivace e colorita polemica veicolata dalla Lega Nord, e da certi strati dell'opinione pubblica settentrionale, insofferenti dell'invasiva presenza fiscale e burocratica della centralista "Roma ladrona". Le ipotesi di federalismo (prima) e di secessionismo della Padania (poi), professate dal suo leader, intrise come sono di puro egoismo economico, pseudo-etnico e territoriale, non fanno che confermare, purtroppo, quanto ho sottolineato nel corso di quel convegno! ].

 

[13]"Ancora più indispensabile è una mobilitazione permanente dell'opinione pubblica democratica che distrugga tutte quelle complicità, volontarie e involontarie, di cui la mafia si avvale, e che riduca la "zona grigia" rappresentata da chi è indifferente ma non ostile, o almeno non attivo nella sua ostilità: zona grigia che ostacola l'isolamento dell'organizzazione criminale e la sua conseguente sconfitta" (Tranfaglia, 1987: 31). Va in proposito ricordato come in un sondaggio del 23 novembre 1992 (L'Espresso/PDS) su "Mafia, corruzione e gli italiani", siano stati ben 140.000 gli italiani che hanno risposto, dimostrando "una volontà di cambiamento assai radicata e diffusa". Anche se Arlacchi ribadisce come "esiste una grande e responsabile parte del paese che adesso deve impegnarsi a trasformare queste idee in una strategia ulteriore d'attacco" (Chiodi, 1993: 27, 29).

 

[14]"Quanto a sviluppo moderno il Meridione sembra già fuori dell'Europa, i meridionali che lavorano nell'industria, attività base di un'economia moderna, non arrivano al 36% della media europea". Non è questo un esempio di culturicentrismo di ispirazione nordista?! Ma non solo ( cfr. Sergi, 1988): il nostro A. ha modo successivamente di contraddirsi allorché sostiene come "nella indifferenza o nella impotenza di governanti e di riformatori che hanno continuato astrattamente, perversamente a immaginare una unità che non esisteva, applicando a tutte le parti del Paese le stesse regole, le stesse medicine, poi delusi, stupiti nel vedere che gli effetti potevano essere diversi e addirittura opposti" (Bocca, 1990). E qui ci siamo... E' certo che sempre il Bocca ha avuto modo di scrivere come "il rifiuto della culturale meridionalista, deteriore anacronistica, è un dovere civile della nazione" (1989: 13).

http://users.iol.it/f-pelli/f-pelli.mezzogiorno.htm

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Pagina creata: 3 gennaio 2006

Modificata: 26 gennaio 2006